ANALOGIE  TRA  QUANTISTICA  E  LIBERO  CONVIVERE

L’assegnazione ad Alain Aspect del Premio Nobel 2022 per la Fisica è il punto conclusivo del dibattito sulla meccanica quantistica tra due giganti della Scienza, Einstein e Bohr. Iniziato nel 1927,  non fu pura accademia ma toccò i meccanismi più profondi del come conoscere la realtà. Così profondi che, sviluppandosi nei decenni successivi, hanno già portato (e continuano ancora ) ad una mole di scoperte tecnologiche del massimo rilievo basate sugli studi nel campo quantistico, con importanti e continue applicazioni pratiche nella vita quotidiana di noi umani.   

Non solo. La quantistica concerne le dimensioni microscopiche, ma tali dimensioni sottostanno anche al mondo attorno a noi. Dunque le scoperte quantistiche possono fornire indicazioni determinanti pure alla dimensione umana.  E perciò sui criteri utilizzabili nel convivere. Pertanto, farò un cenno essenziale ai contenuti del dibattito del 1927, agli avvenimenti successivi e al Nobel di Aspect (per farlo recensirò il recentissimo piccolo volume delle Edizioni Dedalo scritto nel 2019 dallo stesso Aspect),   e infine arriverò alle indicazioni analogiche circa i criteri nel costruire il nostro convivere.  

Dal dibattito tra grandi scienziati al Premio Nobel. Il dibattito del 1927 al Congresso Solvay (o  più esattamente nel quinquennio 1925-1930) verteva sui fondamenti della meccanica quantistica. Da non molto era divenuta acquisita l’idea  del dualismo onda-particella, sia della luce (proposta da Einstein) che delle particelle materiali (proposta da De Broglie). E dopo era stata sviluppata un’equazione (da Schrodinger) che  esprimeva l’evolversi in termini matematici di un sistema quantistico, in particolare calcolando i livelli energetici di un elettrone entro l’atomo. E stabiliva che una particella ruotava (lo spin) in  un senso o nell’altro, ma anche insieme nei due sensi finché non veniva misurata (detta sovrapposizione quantistica). L’equazione funziona perfettamente. Ma come va interpretata dal punto di vista fisico? Sta qui il nodo e l’importanza del dibattito tra Einstein e Bohr.

Einstein sosteneva che siccome l’equazione non   fornisce un risultato univoco, bensì ogni volta due possibili valori alternativi, ciò indica che la teoria quantistica è incompleta. Doveva esserci una variabile nascosta. E, vista l’inesistenza all’epoca di tecniche sperimentali adatte, per provare l’incompletezza ipotizzava esperimenti ideali, convinto che una teoria fisica compiuta è per forza deterministica anche su scala atomica. Bohr replicava con il principio di complementarietà, per cui gli aspetti corpuscolare e ondulatorio di un fenomeno fisico coesistono ma sono mutuamente esclusivi (vale a dire sono entrambi indispensabili per  descrivere il fenomeno ed includono il principio di indeterminazione di Heisemberg,  secondo cui non è possibile misurare con cura velocità e posizione insieme). L’interpretazione di Bohr  esprimeva di fatto una descrizione probabilistica della natura. Bohr andava anche oltre e suppose che  fosse lo strumento di misura  a determinare la natura effettiva dall’oggetto, se onda o particella.

Negli anni successivi il dibattito Einstein Bohr proseguì vivace , pur suscitando interesse ridotto dati i grandi successi operativi indotti dall’equazione. Nel 1935  Einstein, insieme ai collaboratori Podosky e Rosen, illustrò una nuova confutazione in uno storico articolo (conosciuto come EPR). L’equazione della fisica quantistica porta ad individuare tra le coppie di particelle uno strano stato, consistente in correlazioni che, una volta nate,  permangono anche quando tra le due componenti ci sono  grandi distanze (stranezza denominata “intricazione”  da Schrodinger e oggi più nota come entanglement). Einstein  concludeva che  tale correlazione è spiegabile solo ammettendo che le particelle abbiano proprietà supplementari non contemplate nell’equazione ma che determinano l’uno o l’altro dei suoi due risultati equiprobabili (da qui la necessità di completare il formalismo quantistico). Bohr argomentò subito  l’impossibilità di una simile conclusione (seppure con minore efficacia rispetto al ’27), e al momento il confronto rimase congelato. Anche viste le strabilianti conseguenze innovative dell’equazione quantistica e del dualismo onda particella.

 A differenza della fisica classica, le conseguenze dell’equazione quantistica permisero di capire una serie di fatti fino ad allora inesplicabili.  Il perché l’elettrone non cade sul nucleo, vale a dire la stabilità della materia, o il perché gli isolanti non sono conduttori, oppure come la luce viene emessa e assorbita, oppure capire la superconduttività, oppure l’uso dei semiconduttori. Permise in seguito  di arrivare ai transistor ed infine alla luce  laser.

Un trentennio dopo , nel 1964, il fisico Bell si accorse che la conclusione dello scritto EPR , portava a stabilire, con un semplice ragionamento matematico, l’esistenza di un limite massimo per le correlazioni tra le particelle intricate (dette diseguaglianze di Bell). In seguito , nel 1982, Aspect e un suo dottorando riuscirono per la prima volta a produrre dei fotoni singoli. Con questi vennero avviate delle sperimentazioni che confermarono intanto la natura duale onda-particella di ciascun fotone e in seguito (altri 25 anni dopo, quando ci furono i mezzi necessari) pure il ruolo decisivo della strumentazione usata nella misura al fine di determinare il carattere dell’oggetto misurato (che era stata appunto la supposizione di Bohr).

Inoltre,  effettuando subito altri esperimenti, Aspect e il suo gruppo riuscirono presto ad osservare che le correlazioni tra le particelle intricate superavano le disuguaglianze di Bell. Smentendo perciò la tesi dello scritto EPR. Quindi non c’era bisogno di completare la teoria quantistica (come sostenuto da Einstein), la quale nel suo ambito risultava già completa. Insomma, il mondo quantistico microscopico  è probabilistico.  A questo punto, nel libro qui recensito, Aspect annota che “questo risultato è ancor più sorprendente del dualismo onda-particella. Sembra vi sia uno scambio istantaneo tra due particelle distanti…. Qualunque sia la  distanza fra le particelle, esse si comportano cme un tutto indivisibile, talmente inseparabile che il legame fra esse pare sfidare la relatività. Il fenomeno viene chiamato non località quantistica”.

Nel complesso,  il lavoro di Aspect ha soprattutto messo insieme il modo di produrre un singolo fotone, la prova definitiva  della dualità onda particella , la conferma sperimentale dell’intricazione, quando c’è, tra due particelle della medesima coppia, la capacità di produrre separatamente tali coppie misurandole una alla volta e in genere di manipolare singoli oggetti quantistici.  Tutto ciò ha prodotto grandi novità.  Quella fondamentale (per la quale Aspect ha avuto il premio Nobel, insieme a Clauser e Zeilinger) è che moltiplica lo sviluppo dell’informazione quantistica, mettendole a disposizione un sistema di calcolo provvisto di una dimensione superiore.

Dimensione superiore  che si fonda sul fatto che la memoria di una macchina  quantistica non è più basata sul bit ordinario (che ha due valori possibili, 1 oppure 0, alternativi tra loro) bensì sul bit quantistico, il qbit (che ha ancora due valori  possibili, 1 oppure 0,  ma possibili allo stesso tempo, vale a dire come un fotone intricato che sovrappone i suoi due stati di valore).

Di conseguenza, operando con il qbit   sono disponibili molte più combinazioni: ad esempio con due qbit, 0-0, 0-1, 1-0, 1-1, con tre qbit  otto possibilità 0-0-0, 0-0-1, 0-1-1, 0-1-0, 1-1-1, 1-0-1, 1-0-0, 1-1-0, con quattro qbit sedici possibilità, e così via aumentando le possibilità in base ai qbit disponibili. Intricando dieci qbit otteniamo mille024 possibilità, intricando venti qbit otteniamo 1milione48.576 possibilità, eccetra. Quindi   la memoria dell’informazione quantistica opera nel medesimo istante su un numero molto maggiore di casi  e così diviene capace di risolvere in tempi umani problemi di calcolo complicatissimi non risolvibili dai computer tradizionali negli stessi tempi. In conclusione, con l’informazione quantistica è essenziale il numero dei qbit intersecati. Da tener presente la difficoltà di raggiungere l’obiettivo, al punto che negli ultimi quarantanni tutti i maggiori laboratori del mondo sono riusciti ad intersecare solo una ventina di fotoni.

Non è un caso che  lo strumento operativo basato sull’informazione quantistica, cioè il computer quantistico, è un’invenzione che sta maturando solo da circa 25 anni, prima a livello teorico, e poi con macchine reali che iniziarono ad essere introdotte in ambito commerciale. La capacità operativa del computer quantistico  sta crescendo parecchio nell’ultimo quinquennio.

Le analogie con il costruire libere istituzioni. Fermiamoci qui nel recensire il libro della Dedalo e passiamo a riflettere sulle indicazioni analogiche ricavabili circa i criteri da adottare nel costruire il nostro libero convivere istituzionale. La cui dimensione è sì assai superiore a quella della quantistica ma ad essa è connessa nel profondo dell’universo materiale e nelle relazioni tra gli umani viventi . La circostanza che ad oggi la fisica ordinaria della terra e quella quantistica siano differenti sotto più aspetti, si motiva non soltanto per le diverse dimensioni di rispettiva validità, ma anche (e forse soprattutto) per essere nate  in due epoche storiche successive.

Durante i lunghi secoli in cui la prima fisica si è sviluppata – sostituendo progressivamente i libri sacri religiosi e le mitiche tradizioni imposte dai potenti di turno –  le osservazioni sperimentali hanno consentito di costruire un edificio di regole più volte rivisto dai ricercatori ed affinato secondo varie formule matematiche. Poi  quando all’inizio del ‘900 è iniziata la seconda fisica, essa è stata concepita ad una dimensione microscopica ed è subito apparsa avere una natura differente, fin dalle formule matematiche  descrittive, dalla fisica ordinaria esistente.  Molti grandi fisici dell’epoca giudicavano incompleta  la quantistica, a cominciare da Einstein,  secondo il quale il miglior modo di completarla era trovare una nuova formulazione matematica che portasse la quantistica ad unificarsi con la fisica ordinaria. Ebbene, il lavoro di Aspect ha posto fine alla convinzione di Einstein, provando che era nel giusto l’interpretazione di Bohr della quantistica.  E lo ha sancito il premio Nobel del 2022.

Ne consegue che il nesso tra fisica ordinaria e fisica quantistica  di certo non va cercato in una teoria unica. Va piuttosto studiato il tipo di nesso esistente tra le due fisiche nel profondo dell’universo materiale, che rimane lo stesso. Naturalmente questo studio spetta agli scienziati del ramo, i quali continuano a sperimentare nuove ipotesi, per raggiungere delle conoscenze ancora più ampie, che, se confermate, vedranno la luce nel tempo futuro. Peraltro,  le scoperte quantistiche acclarate finora, debbono indurre in tutti una grande riflessione sul come i meccanismi della quantistica a livello microscopico abbiano analogie nel definire le relazioni tra gli umani viventi. E’ assurdo confinare il brulicare della vita alla dimensione esteriore del mondo. Perché il brulicare ha radici che penetrano nella profondità delle piccolissime dimensioni.  E perciò diviene fisiologico impegnarsi a cogliere le analogie con la quantistica quando si lavora al costruire le istituzioni quadro della convivenza umana. Analogie da sottoporre di continuo alla verifica sperimentale, e di cui tenere il massimo conto.

La prima analogia ineludibile, è il riconoscere come, nel costruire il convivere,   sia indispensabile stare ai fatti reali , rifuggendo la pratica plurisecolare di costruirlo applicando le teorie dei libri sacri religiosi oppure le ideologie. Tutte culture  per natura propense a legare la vita umana a prospettive esterne alla realtà, illusorie e portatrici di schiavitù di vario tipo più o meno esplicite. A cominciare dal percepire la realtà come continua (radice del non aver colto per duemila anni l’esistenza dei quanti di energia), cosa che invero non sussiste e che è frutto della fisiologica impossibilità degli organi di senso umani di rilevare le microscopiche distanze, inclinando a vedere integralmente compatto qualsiasi sistema.

La seconda analogia, nel costruire gli istituti del convivere, è il riconoscere che la realtà è dominata dalla probabilità e non ricorre a forme di  determinismo automatico nei modi e nei tempi.  Ciò significa che il sistema della libertà tra i cittadini è il solo adatto a governare il convivere in termini fecondi (in quanto non deterministico). Purché si caratterizzi non nell’esibirne il nome ma nel fondarsi davvero sulle manifestazioni e sulle scelte individuali di cittadini autonomi. E dunque aborrendo  il mero conformismo  verso le tesi diffuse dai gestori del potere e non confondendo mai la libertà con idee di altra base,  quali il riferirsi a masse indistinte di cittadini.

La terza analogia verte sull’insegnamento della quantistica. Esso mostra che le onde esistono solo in quanto insieme di soggetti diversi uno dall’altro, che allo stesso tempo  , siano essi intricati o meno, manifestano traiettorie simili mantenendo la propria diversità.  Nella convivenza umana,  questa terza analogia conferma la seconda e porta alla scelta di abbandonare ogni progetto  politico fondato su masse indistinte piuttosto che sui cittadini individui.  Fa comprendere come l’esistenza di traiettorie simili  in un insieme di  soggetti diversi, non intacchi il dato che la propulsione all’agire risiede nelle scelte dei singoli soggetti diversi. Scelte nel complesso probabilistiche, non deterministiche.  E pertanto non dovute ad una inesistente completa uguaglianza dei soggetti  autori, bensì al fatto che i soggetti autori si esprimono disponendo ognuno di un uguale diritto legale nelle relazioni del convivere e per il resto manifestando scelte diverse in un ampio arco di possibilità.

La quarta analogia tra quantistica e convivere , visto che nella vicenda quantistica è provata la non esistenza della piena prevedibilità,  sta nel non ritenere il predisporre un progetto sufficiente a realizzarlo e perciò nella consapevolezza che ciascun progetto si realizza  a passo a passo. Ciò implica  per la libertà progettuale, che ogni  esecutore materiale abbia un  ruolo specifico. Nonché la necessità che l’esecutore resti autonomo pur mantenendo una rete di relazioni e che partecipi  alla convivenza esprimendo sé stesso in modo propositivo, senza limitarsi al dissenso.

La quinta analogia con la vicenda quantistica è non smettere, al passar del tempo, di ricercare il conoscere ciò che ci circonda (a cominciare dall’individuare le risorse ed i mezzi di sussistenza). Il modo per farlo è praticare la scienza sperimentale e utilizzare i suoi ritrovati tecnologici, senza cedere alla propaganda contro di esse dei clericali, basata sulla paura del nuovo e sul proseguire per forza la tradizione. Di fatti, l’aver incluso il probabilismo comporta l’ineluttabilità del cambiare e quindi impone l’adottare quale fattore chiave ineludibile il  tempo che scorre (oltretutto visto che l’intricazione, negando la stretta connessione spazio tempo supposta da Einstein, ha reso non sempre operativo il concetto di distanza nello spazio). E lo scorrere del tempo richiede di continuo nuove energie e risorse per alimentare i meccanismi vitali.

La sesta analogia con la vicenda quantistica sta nell’accettare che una traccia nel mondo ogni umano la lascia solo con i suoi comportamenti e il suo manifestarsi pubblico (condizione  equivalente alla necessità di misurazione per conoscere quale sia lo spin della particella). Ciò esclude il poter fare a meno di un’istituzione che raccolga le regole del convivere tra cittadini diversi. Vale a dire la ricorrente suggestione  di abbandonare quel fattore stato che ha preso piede nei secoli.  

La settima analogia con la vicenda quantistica si applica all’espandersi  capillare dei collegamenti elettronici  a livello mondiale, colmando distanze enormi, connettendo sistemi politici opposti e ponendosi al di là delle condizioni socio economiche dei vari territori. E’ un espandersi che rimane distinto dall’intricazione del quantismo. Che peraltro  – a partire da metà anni 1970 con l’avvio del connettersi di terminali e computer mediante reti diverse e poi dall’inizio dell’ultimo decennio ‘900 con il World Wide Web, i cellulari e il GPS – si è differenziato sempre più dal modo di telecomunicare preesistente, con un’interconnessione assai diffusa capace di offrire servizi informativi e lavoro intellettuale a distanza, in tempi pressoché istantanei. Quindi aumentando ruolo e peso dei cittadini individui, con le conseguenti problematiche dell’integrare le  regole del convivere.  

Il comportamento dei liberali. Delineate così  le sette analogie fondamentali tra la meccanica quantistica  (quale è ad oggi) e i criteri con cui va governata la convivenza umana, risalta evidente che per lo più esse collimano con il metodo liberale nel rapportarsi all’andamento del mondo reale. Peraltro va fatto un richiamo  sostanziale. Sia l’analogia con la quantistica che l’anima del metodo liberale, rispettano i tre criteri della libertà, della singolarità individuale e della diversità di ciascuno. Ne consegue che il collimare con il metodo liberale non può essere mai disgiunto dalla diversità, e che per tale via (la riconosciuta esistenza di altri soggetti che non sono liberali né riescono ad avere comportamenti liberali) evita  nel convivere concentrazioni dominanti o addirittura monopolistiche. Pertanto  il fatto che l’organizzazione del convivere debba modellarsi sul metodo liberale, non può trasformarsi nel  prevalere di una forza politica specifica e non  da  alcun privilegio. La presenza di una formazione esplicitamente a favore del metodo liberale, anche se piccola, ha peraltro la funzione chiave di mantenere l’adozione di una coerente impostazione del sistema di convivenza nei confronti delle analogie con la quantistica prima elencate.

E’ ovvio che anche i sostenitori del metodo liberale siano  tenuti ad agire nel pieno rispetto   del metodo. Per cui non possono in alcun caso stravolgere il senso della libertà di scambio, dell’individualismo responsabile, della diversità aperta,  e farli divenire libertà imperiale, individualismo prevaricatore, diversità di un clan. Mantenersi coerenti al metodo della libertà nei suoi vari aspetti di tolleranza e di pacatezza, di spirito critico e di provvisorietà –  mai ricorrendo alle logiche dei libri sacri religiosi o ideologici e ad atteggiamenti  espressivi violenti e chiusi al dibattito – , è una via irta di sfide ardue, ma è l’unica in grado di far progredire a passo a passo le condizioni materiali della convivenza umana. Nella consapevolezza che , come per la quantistica, continueranno le scoperte innovative  nell’ambito del convivere istituzionale.

 Oggi, per i liberali, gli argomenti o più urgenti in tema di definizione di regole di convivenza adeguate, sono l’Intelligenza Artificiale e il come affrontare la forte pressione contro il libero convivere prodotta da culture non solo antiliberali ma perfino antidemocratiche. L’Intelligenza Artificiale è una protesi delle facoltà umane sempre più efficace purché mantenuta sempre imperniata solo su tali facoltà e da esse dipendente. La forte pressione contro il libero convivere va contrastata con il fermo e continuo richiamare la pratica dei principi della libera convivenza e insieme con il blocco di forme esibite  nei luoghi educativi, che siano chiara propaganda contro l’aperto relazionarsi tra diversi.

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Trappole al cittadino nell’8xMille

Nel 2023, sul sito del Governo sono opportunamente illustrati natura e funzionamento dell’otto per mille a diretta gestione statale. La natura è la quota del gettito Irpef che ogni cittadino può scegliere di destinare allo Stato. Il funzionamento è   mettere la firma nel box dedicato allo Stato e , se il contribuente lo vuole, anche indicare il codice per la destinazione specifica: sul sito sono previste cinque possibilità, tra cui “Beni culturali”. L’illustrazione prosegue dettagliando ognuna di queste cinque possibilità e , a proposito dei Beni Culturali, indica tra le opzioni possibili il “Fondo edifici di culto o mobili, anche immateriali, che presentano un particolare interesse, ai sensi del Codice dei beni culturali”. Sembra una descrizione impersonale senza problemi, ed invece nasconde una trappola per la convivenza di cittadini autonomi.

La trappola si cela nel fatto che questo Fondo, il FEC  – che ha le radici nella soppressione (risalente al periodo 1855- 1873)  degli enti ecclesiastici secolari non finalizzati alla cura delle anime e nella confisca del patrimonio accumulato fino ad allora (onde eliminare i privilegi della manomorta dei beni cattolici), che è stato ripreso nel Concordato del 1929 e fissato poi, dopo il nuovo Concordato 1984, nell’art. 55 della legge 222/1985 – ha come missione istituzionale, la conservazione, il restauro, la tutela e la valorizzazione delle chiese ex monastiche o ex conventuali, annesse cioè ai monasteri e ai conventi soppressi dal 1855 al 1873. Perciò il FEC è dedicato ad edifici di interesse culturale che, vista la storia del nostro paese,  rientrano nell’esercizio del culto cattolico (di fatti il Fondo è sì un ente-organo del Ministero dell’Interno, però amministrato con un Consiglio di nove membri di cui tre designati dalla Conferenza Episcopale Italiana). Peraltro la trappola non consiste né in questa caratteristica di per sé e neanche nell’accollarsi  dello Stato tramite il Fondo di parte degli oneri del manutenere tali edifici. La trappola  consiste nell’inserire l’opzione “Fondo edifici di culto” entro la possibile scelta ottoxmille allo Stato  accoppiata all’altra possibile scelta dell’ottoxmille alla Chiesa.

Perché una trappola? Perché il cittadino che vuol finanziare la Chiesa (nei  tre settori di legge, il sostentamento del clero, le esigenze di culto, gli interventi caritativi) può farlo attribuendole il gettito del suo ottoxmille. Chi non sceglie  la Chiesa e invece da il proprio ottoxmille allo Stato, intende  contribuire a finanziare lo Stato. Tuttavia, l’opzione “Fondo edifici di culto” modifica la situazione. Di fatto introduce la possibilità di finanziare di nuovo la Chiesa mediante lo Stato. Il che contrasta con l’intento di chi sceglie di dare l’ottoxmille allo Stato. Insomma è una maniera furbastra per agevolare la Chiesa Cattolica. Né si può tirare in ballo la funzione adottata dallo Stato di contribuire in via ordinaria alla conservazione degli edifici religiosi storici. Perché questa conservazione è una funzione di sostegno all’esercizio di ciascuna  confessione, cui far fronte mediante le decisioni del Governo con il gettito fiscale (siccome si tratta di edifici usati tutt’oggi per svolgere i culti), mentre il finanziamento tramite il Fondo edifici di Culto viene attribuito al cittadino contribuente, e così fa credere che si alleggeriscano le decisioni pubbliche a favore della Chiesa.  Dunque, una trappola per il cittadino autonomo, cui vien fatta credere una cosa mentre la realtà è un’altra. E’ perciò necessario che i laici lo denuncino e ne stiano lontano.

Inoltre, visto che si tratta dell’argomento Fondo edifici di culto, va osservata un’altra cosa circa il suo patrimonio. Al momento attuale, dopo un quarantennio dall’ultima legge, non è affatto chiaro a chi, tra Stato e enti ecclesiastici, appartengano molti cespiti componenti tale patrimonio. Di fatti, visto che  la personalità giuridica è stata estesa ad ogni singola parrocchia e diocesi, nel decennio seguente alla 222/1985, interpretando il Consiglio di Stato l’amministrazione  consegnò in proprietà alcuni edifici sacri agli enti cui era stata riconosciuta la personalità giuridica. Dopo il 1995 tale procedura fu sospesa, viste le notevoli reazioni alla dismissione di immobili di grande rilevanza. Allora, il Ministero dell’interno sistemò i rapporti con l’autorità ecclesiastica mediante atti di concessione in uso a titolo gratuito e a tempo indeterminato. Ma la definizione della materia, per una serie di complicazioni procedurali ed indecisioni dei vari enti coinvolti negli anni – dalla Presidenza del Consiglio alle diverse Commissioni interessate per qualche titolo – resta ancora irrisolta. Di conseguenza sono non del tutto definite anche le problematiche degli oneri manutentivi (tanto che esiste pure qualche contenzioso). Anche sul punto il mondo laico dovrebbe chiedere di fare presto chiarezza.

Nel complesso, è evidente che nella materia ottoxmille il rapporto Stato Chiesa Cattolica è pervaso da consistenti ambiguità metodologiche. Questo articolo tratta del FEC, ma a giugno ho parlato di un altro raggiro al cittadino, quello dell’inoptato, un meccanismo pensato per vanificare nella sostanza le scelte compiute davvero dal contribuente e finanziare più largamente la Chiesa Cattolica. I due meccanismi sono analoghi nell’intrappolare i cittadini.  Danneggiano il rapporto effettivo tra Stato e Chiesa e non sono casuali, dato che favoriscono soprattutto i traffici dei clericali – incistati nei gangli della pubblica amministrazione – che sono massimi fautori dell’agire nell’ottica del potere di chi lo detiene a scapito dei cittadini individui.

E’ l’ora che i laici smettano di lamentarsi della Chiesa e agiscano contro i veri nemici clericali.

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Un programma liberale alle elezioni UE 2024

Con la fine dell’estate, si apre di fatto la campagna elettorale per le elezioni europee del giugno 2024. Il modo corretto di iniziarla non è però accapigliarsi sulle alleanze, bensì impegnarsi a definire i programmi con i quali affrontarla per far scegliere ai cittadini il futuro dell’UE.  Con questo articolo proponiamo quattro punti che individuano un programma della cultura liberale.

Il primo punto è ridurre nell’UE il peso degli stati membri e aumentare quello degli elettori; in sostanza imperniare l’UE sui cittadini ed accrescere le decisioni prese dai conviventi. Ciò comporta, in economia, far convergere i paesi membri per dotarsi della medesima struttura fiscale, per completare il mercato europeo dei capitali, per smettere di utilizzare organismi, quale l’attuale Meccanismo Europeo di Stabilità, estranei per struttura al diritto UE (quindi assai lontani dai cittadini). Insomma, l’UE va costruita sulle scelte dei cittadini e non sulle burocrazie europee. Che è la grande innovazione del progetto UE. Inoltre, nei rapporti internazionali, l’UE deve essere paladina della libertà negli scambi senza confonderla con quella cui si pretende di far svolgere un ruolo imperiale. È solo la libertà di scambi che esercita la propria fisiologica superiorità sulle autocrazie e così promuove il carattere occidentale dell’UE. 

Il secondo punto è far condividere la cura del clima ai cittadini.Perché ora il sistema UE per combattere il peggioramento climatico è assai carente sotto due aspetti. Uno è il considerarlo il frutto esclusivo della dissennata produttività umana nel rapportarsi all’ambiente e nell’usarne le risorse; l’altro è ricorrere ad un rimedio pensato in sede teorica (soprattutto dalle burocrazie di Bruxelles) a prescindere dal complesso dei bisogni nati dalle interrelazioni quotidiane tra i conviventi. Il cui sottostante disegno politico ha una sola dimensione. Fare del problema climatico lo spartiacque tra i cittadini disposti a stare insieme secondo il conformismo ed i cittadini conservatori dei propri privilegi e quindi sordi ai pericoli degli sbalzi climatici.

Una simile inadeguatezza rende l’impegno UE sul clima non incisivo.  Affrontare in concreto la sfida della rapidità del cambiamento climatico e il ruolo umano, esige di superare la cultura del presente e di essere invece in grado di riflettere sul come si manifestano i rischi derivanti dal clima e sul come adattarsi. Al contrario, l’idea apocalittica e quella negazionista sono ambedue gravemente errate, e rifuggono, contrapposte, il tener conto dei modi di convivere degli individui. È indispensabile coinvolgere i pervasivi stili di vita dei diversi cittadini, per riuscire ad individuare i percorsi terapeutici che eliminino i danni dei meccanismi produttivi o li riducano significativamente.

Il Parlamento Europeo dovrà coinvolgere i cittadini in tutte le pratiche atte a diffondere i rimedi correttivi degli effetti di eventi climatici estremi, partendo dal ricorrere al potenziare l’uso delle fonti rinnovabili e dell’idrogeno per produrre energia e aprendo una stagione di investimenti (anche da parte dei cittadini) a sostegno della transizione energetica. Il diffondersi delle azioni volontarie nell’UE – e non l’attitudine dirigista – è il presupposto per prevenire e controllare l’inquinamento in termini scientifici, e preservare costantemente l’ecologia ambientale.

Il terzo punto è rinnovare la rete della sanità, ampliando il sussulto vitale UE indotto dalla pandemia Covid19. Ai sensi del Trattato vigente, il ruolo UE nella politica sanitaria è un sostanziale coordinamento richiesto dalla libera circolazione delle persone e delle merci. Il dilagare del Covid19 ha indotto l’UE a varare con tre provvedimenti un pacchetto (settore della sanità incluso, seppure in parte) di 2.364,3 miliardi €, abbandonando la rigida austerità amministrativa insensibile alla realtà dei conviventi e non rispettosa delle aspirazioni originarie dell’Europa. Con il medesimo criterio, va potenziato l’impegno UE nel settore della sanità. Vale a dire va dato l’opportuno rilievo al ruolo operativo dei cittadini individui in quanto soggetti da curare e fulcro della mentalità sanitaria diffusa. La sanità ha come obiettivo la terapia del fruitore, non il suo indottrinamento preventivo sulla base delle decisioni di Bruxelles. Quanto agli alimenti, l’UE deve dismettere la volontà di dettare norme sulla qualità del cibo anche per via fiscale negando i gusti e le usanze individuali o territoriali e confondendo l’informazione delle caratteristiche salutari con una sorta di moda estesa alle forniture dei servizi al pubblico. Quanto all’obiettivo di sviluppare, coordinare e finanziare ulteriormente i programmi sanitari di ricerca e innovazione esistenti, esso contraddice il concentrare l’investimento in ambito pubblico e non-profit. Inoltre, l’UE non può avere la pretesa pressoché incredibile di sviluppare un programma educativo standard quanto a stili di vita sani, il che di nuovo ammanta di dirigismo l’azione terapeutica. Sono invece corrette le intenzioni UE di stabilire norme sanitarie minime a livello dell’UE e prevedere competenze condivise tra UE e Stati. Però si fa ancora confusione tra sussidiarietà e ruolo degli attori locali, regionali e nazionali (evitando il riferimento diretto ai cittadini), nonché tra la cooperazione transfrontaliera e la garanzia in sede UE dell’accesso alle cure specie quelle per interventi molto gravi e per i correlati costi finanziari. Né va tralasciato che è una fuga in avanti l’impegnarsi a riconoscere la disponibilità universale dei medicinali proprio in quel settore esteri, introdotto nella UE trenta anni fa, che esprime la concezione degli Stati, in palese contrasto   con quella dell’UE dei cittadini, contrasto non sanato neppure dal Trattato di Lisbona a fine 2009 né ad oggi.

In conclusione, ogni futuro eletto nel Parlamento Europeo con questo programma  dovrà impegnarsi perché la modifica in corso dei Trattati in campo sanitario assegni ad organi UE eletti dai cittadini la piena compartecipazione nell’indirizzare e nel vigilare sulle problematiche inerenti i cittadini degli Stati membri. A cominciare dal garantire che in ogni paese gli investimenti nel settore della sanità pubblica, inclusa la ricerca, non si discostino da un minimo prefissato dalla Commissione UE (norma che interessa l’Italia, oggi distante assai dall’incidenza media sul Pil negli altri paesi).

Principalmente, l’UE dovrà mantenere chiara, in campo sanitario, a distinzione tra i due suoi ruoli fondamentali. Quello di gestire un efficace sistema sanitario pubblico diffuso professionalmente e quello di vigilare sul corretto funzionamento territoriale sia delle iniziative pubbliche che del valore sanitario delle strutture private (se erogatrici di servizi pubblici, da selezionare aprendo a nuovi soggetti). Ambedue i ruoli, nella loro complementarietà, sono essenziali per far sì che il singolo cittadino europeo possa usufruire della migliore assistenza nelle cure sanitarie.  Questione essenziale del convivere per assicurare che l’individuo abbia gli stessi diritti legali e che si realizzi così una vera democrazia.

Il quarto punto del programma elettorale è l’attività economica, visto chel’Europa nasce nel 1957 sulla libera circolazione di persone e di merci. Oggi, pure la libertà di circolazione – dimostratasi ineludibile per promuovere il benessere – presenta aspetti ancora arretrati in tema di impatto sui vari cittadini. A cominciare dai trattamenti fiscali delle attività di ciascun soggetto, fisico o societario, che hanno aliquote diverse a seconda degli Stati membri UE. Poi c’è la tassazione del digitale, nella quale  è emerso il ritardo dei vertici istituzionali, troppo a lungo disattenti al ruolo di un’UE legata agli interessi dei cittadini, e non bloccata dagli interessi corporativi delle multinazionali e degli Stati. Oggi è in corso una trattativa in ambito OCSE per un accordo globale su due pilastri, da definirsi prima delle elezioni UE del 2024. Un pilastro per redistribuire i diritti di imposizione tra i paesi dove i gruppi multinazionali realizzano profitti; l’altro per stabilire la tassazione minima del 15% e ridurre il rischio di erosione dell’imponibile e di trasferimento degli utili. È importante monitorare che tale accordo giunga positivamente a conclusione e venga rispettato.

Rispetto all’UE dei cittadini, è poi decisivo vigilare sul reddito di ciascun cittadino. Qui l’UE è rimasta al passato. Nel senso che fu una grande novità sostituire la pratica pauperistica introducendo il reddito di ciascuno quale essenziale contributo del cittadino all’economia della convivenza. Da allora sono passati più di centocinquanta anni e il successo del nuovo sistema porta oggi a porre un interrogativo diverso. Siccome il fulcro della convivenza è la vitalità del cittadino ed è interesse forte UE assicurarsi che tutti i cittadini dispongano dei mezzi minimi di sopravvivenza (perché mentre la povertà costituisce un evento ineliminabile tra le difficili sfide del vivere, i mezzi minimi di sopravvivenza sono l’ultimo confine per mantenere la vitalità e la capacità di esprimersi quale cittadino), allora come riuscirci?

La risposta è il reddito universale. L’UE deve garantirlo ad ogni cittadino europeo, il quale non disponga di un reddito superiore ad un importo prefissato dal Parlamento, che è il confine di sopravvivenza.  In sostanza il reddito universale sarà un importo che garantisce i mezzi minimi di sopravvivenza. L’obiettivo è allargare il più possibile il numero di cittadini in grado di esercitare il proprio senso critico al fine di contribuire alle risorse a disposizione dell’intera convivenza UE (rammentando che le risorse possono non essere di natura economica in senso stretto, poiché l’esercizio del senso critico fornisce contributi in una pluralità di campi). Insomma, il reddito universale non va parametrato alla produttività di ciascuno, bensì alle sue necessità per vivere.  È la forma moderna di quella che a metà ‘800 fu la lotta al pauperismo.  Il suo obiettivo specifico è innovativo e non si confonde con la lotta alla disoccupazione oppure con lo smuovere il discrimine culturale di una famiglia in origine povera oppure con la problematica del salario minimo (sul compenso economico dei lavoratori).

Quanto al salario minimo, dopo l’approvazione di un’apposita direttiva in Parlamento e poi nel Consiglio Europeo a fine 2022, ogni Stato membro UE ha tempo per recepirla fino all’autunno 2024. Ad oggi, sono cinque i paesi che non prevedono il salario minimo (tra cui l’Italia) e non sono obbligati a recepire la direttiva ma solo a monitorare la situazione di fatto e a renderla nota. Inoltre, esistono differenze sul livello di salario minimo tra i paesi che già lo prevedono e, in riferimento al potere d’acquisto, si constata che la metà di questi è sopra la media UE. Stabilire il salario minimo competerà al Parlamento espresso dai cittadini dei vari Stati entro parametri prefissati (comunque superiori all’importo confine del reddito universale) , pensati per garantire una vita dignitosa, rispetto al costo della vita e alle retribuzioni più alte.

Si tratta di un provvedimento di cui il presente programma condivide l’intento. Non perché sia il primo passo contro le diseguaglianze (retribuzioni differenti esprimono prestazioni differenti di individui differenti, le diseguaglianze sono fisiologiche), ma quello per favorire un rapporto equilibrato senza privilegi di posizione, tra lavoro prestato e il suo costo sostenuto dal datore di lavoro. Un equilibrio alla base dell’iniziativa economica aperta nella UE. Questi nuovi strumenti, reddito universale e salario minimo, ampliano la tutela dei cittadini e comportano che la libera circolazione UE  esplichi in pieno la propria efficacia.

Questo programma ha l’obiettivo di dare anche all’Italia una rappresentanza nell’UE che pratichi il liberalismo e di essere una premessa perché anche il nostro paese abbia un domani una rappresentanza parlamentare della cultura liberale. Perché la cultura liberale è un sostantivo politico e non un’aggettivazione di qualcos’altro.

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Cronologia del liberalismo – Capitolo 4 – 4.1, 4.2 a

ottava parte del testo CRONOLOGIA ESSENZIALE DEL LIBERALISMO

CAPITOLO  4

Il XX secolo

4.1 Il carattere iniziale del ‘900 –  Fin dai primi anni, il carattere distintivo del secolo fu la conferma e la ulteriore crescita della tendenza già emersa negli ultimi decenni. Nel convivere andavano potenziandosi e accelerandosi le scoperte – derivate dalle più ampie conoscenze disponibili – di nuovi strumenti di uso quotidiano nonché il sempre maggiore impegno negli studi scientifici di tipo sperimentale che portavano a  capire i meccanismi della realtà del mondo attorno agli umani (e quindi a sviluppare pure l’industrializzazione). In sostanza, si allargava il criterio dell’affidarsi allo spirito critico del cittadino per  penetrare il reale. Tuttavia, questo allargamento toccava ben poco le modalità  del come organizzare la convivenza tra i cittadini: la politica continuava a far ricorso a qualche libro sacro e a qualche ideologia (pregressa o nuova che fosse), e per decenni restò per lo più avvinta al solito ricercare in chiave di potere una soluzione stabile alle incombenze della vita. Una simile propensione è andata di pari passo al privilegiare il momento presente della vita e all’usare l’emotività come strumento essenziale per decidere cosa fare.

Beninteso, la propensione radicatasi nel ‘900 non si applica in ogni passaggio. Anche nella politica, vi sono stati settori in cui  crebbe l’affidarsi ai cittadini. Tipico quello delle suffragiste (era il nome dato all’ala moderata e maggioritaria dell’organizzazione femminile, mentre l’ala radicale era chiamata delle suffragette), vale a dire del movimento delle donne che richiedevano il voto politico.  In Inghilterra, già dagli anni trenta dell’800, le donne avevano diritto di voto nelle elezioni locali. Un trentennio dopo, ci fu la richiesta parlamentare del liberale Stuart Mill già prima citata, che portò nel 1869 al formarsi di un movimento per il suffragio femminile (nello stesso anno il medesimo movimento nacque negli Stati Uniti), che iniziò le rivendicazioni con limitati risultati per anni, poi sfociate nel ’97 e nel 1903 in due organizzazioni per ottenere il suffragio femminile. Nello stesso periodo, il suffragio femminile venne introdotto in Nuova Zelanda nel 1893 e all’inizio del 1900 in due stati scandinavi. Poi con l’aumento del benessere indotto dall’industrializzazione, in Inghilterra le azioni dimostrative a favore del suffragio femminile iniziarono ad incidere sempre più, fino ad assumere una consistenza di oltre duecentomila persone in pubbliche manifestazioni. La svolta ci fu nel 1913 con i disordini durante il Derby di Epson in cui perse la vita una suffragetta travolta da un cavallo, cui seguì un’ondata di proteste con l’innovativa pratica degli scioperi della fame, fronteggiata dalle autorità imponendo l’alimentazione forzata. L’importanza del ruolo delle donne lievitò durante la prima guerra mondiale per l’assenza fisica di gran parte degli uomini. Nel 1918 a   febbraio   l’Inghilterra dette il diritto di voto nazionale alle donne ultratrentenni e a novembre in Germania venne riconosciuto il diritto di voto femminile. Nel 1919 venne eletta tra i conservatori inglesi la prima donna deputato e nove anni dopo si arrivò al voto femminile generale in Inghilterra. Nel 1920 venne deciso il voto politico alle donne degli Stati Uniti. In seguito, nel secondo dopoguerra molti paesi (tra cui l’Italia) estesero il suffragio politico alle donne.

Complessivamente, negli ottanta anni in cui il tema voto femminile ebbe gran rilievo nel dibattito politico, fu predominante l’approccio della borghesia liberale del perseguire quel tema specifico, cioè di introdurre un diritto del cittadino fino ad allora non attuato, che perciò discriminava senza ragione tra cittadini di sesso diverso ma analoga struttura psico fisica. Da segnalare che un simile approccio è di tutto altro genere del femminismo nell’ultima parte del ‘900. Nel femminismo il presupposto diventerà, dietro l’esibito paravento di parità, il contrapporre maschi e femmine in uno scontro, a prescindere dalle specificità funzionali di ciascuno e dei meriti individuali, finalizzato ad imporre una indistinzione  di genere non corrispondente alla realtà (il che da la misura della distanza del femminismo dal liberalismo).

In ogni caso, a parte  eccezioni quale il suffragio femminile, nel ‘900 le manifestazioni di tipo liberale (affidarsi via via di più alle scelte dei cittadini individui) resteranno variamente rattrappite in campo politico, mentre  l’utilizzo della conoscenza scientifica (fondata sul metodo sperimentale dei ricercatori attivi, singoli o gruppi, e sul valutarne gli esiti da parte  degli altri) si è allargato nell’opinione pubblica in modo via via più stupefacente, sia in relazione ai meccanismi scoperti e condivisi sia per gli innovativi strumenti derivantine e messi a disposizione dei conviventi tutti i giorni. 

In sostanza, la scienza  ha acquisito stabilmente che il fulcro di una conoscenza più ampia è inevitabilmente legato all’attività individuale dei cittadini (per questo induce anche la crescita economica). La politica invece persiste nell’imperniarlo  sul realizzare  un disegno prestabilito da chi al momento detiene il potere, disegno avente per fine il bene di tutti, vale a dire un criterio che l’esperienza mostra non capace di far ottenere alla società risultati comparabili in tempi analoghi. Lo scoglio della   politica sta nel non accettare abbastanza il determinante valore delle scelte individuali rispetto ai nodi della vita reale e nel far prevalere per lo più il mito della visione rassicurante di una comunità di uguali senza conflitti. Questo sogno di una vita sicura e agevole, nell’ultimo quindicennio dell’800 e nel primo ventennio del ‘900, ebbe il nome non casuale di Belle Epoque. Un’epoca caratterizzata da importanti innovazioni ed invenzioni (oltre quelle già trattate, l’acqua corrente nelle case, le automobili, la radio, il vaccino antitubercolare, l’aereoplano), dall’avvento della produzione di massa, dei manifesti pubblicitari, del cinematografo, dello sviluppo artistico con l’Art Nouveau, con l’Impressionismo prima e poi con il Futurismo. Un’epoca che ebbe il centro internazionale a Parigi e nel quartiere di Montmartre, pullulante di artisti, con i suoi mitici locali. Un’epoca simbolizzata dall’Orient Express, il treno di lusso Parigi-Istanbul, protagonista di libri e di films, reso obsoleto solo  molti decenni dopo dall’affermarsi del collegamento aereo.

La Belle Epoque fu appunto il grande sogno ricorrente nella storia: poter bloccare la realtà ai propri desideri. Un sogno che nel profondo celava la pratica tradizionale dell’applicare un eterno libro sacro o ideologico, escludendo la logica sperimentale e il passar del tempo. E che di conseguenza trascurava i sommovimenti istituzionali della politica del vivere tutti i giorni. Sommovimenti parecchio turbolenti nel periodo inizio ‘900, oltretutto accelerati dal contestuale notevole dilagare nei vari paesi del messaggio socialista (nel 1905 in Russia le rivolte popolari formarono per la prima volta i soviet, assemblee di soldati, operai e contadini, inducendo lo zar Nicola II a concedere la Costituzione ed a introdurre un’assemblea rappresentativa, la Duma)  e della sua versione  comunista, che dettero nuova linfa al già esistente blocco dalle radici illiberali, cioè quello della cultura politica di impostazione religiosa figlia di un clero incontrollato. Da questo amalgama finirono per nascere gli opposti movimenti totalitari e nazisti oppressori dei cittadini per un ventennio.

4.2  I paesi in cui i liberali restavano ancora vitali – 4.2 a  In Inghilterra gli ultimi governi dei liberali. Dopo l’uscita dal governo di Gladstone, la regina Vittoria dette l’incarico di primo Ministro al liberale per lei sopportabile, Lord Archibald Primerose, dell’ala avente una concezione più imperiale. Questo governo durò 15 mesi (finì per il combinato disposto della rottura sull’Irlanda con gli Unionisti, dei dissensi sul progetto di Primerose di espansione della flotta e dell’inclinazione rinunciataria del Primo Ministro) e fu seguito da due governi conservatori per poco più di un decennio. Nel frattempo, la regina Vittoria era morta nel gennaio 1901 e nel 1902 le truppe inglesi prevalsero nel secondo conflitto anglo-boero (in corso da tre anni), allargando ancora l’Impero britannico. Poi, si verificarono crescenti dissidi tra i conservatori specie in tema di libero commercio (ostacolato da larghi settori del partito) e all’inizio dell’inverno del 1905, i contrasti indussero il Primo Ministro in carica, Lord Balfour, a dimettersi ,puntando sul fatto che l’incarico al liberale (dell’ala sinistra)  Campbel-Bannerman si impantanasse sui numeri parlamentari ristretti.

Viceversa, il governo Campbel-Bannerman andò subito alle elezioni , scegliendo una campagna contro il protezionismo e il militarismo. Nei primi mesi del 1906   i liberali (che qualche anno prima avevano stipulato con il nuovo Comitato Laburista un patto di reciproca desistenza) ebbero  la maggioranza dei voti più che raddoppiando i seggi ottenendo la maggioranza assoluta. Questa condizione parlamentare  consentì il varo   di un governo solido. Che nel giro di pochi mesi avviò un lavoro di riforme a carattere liberale. Vennero varate mense scolastiche gratuite, pensioni di vecchiaia, leggi sindacali più aperte, norme di lavoro in comunità per i giovani autori di reati,  preannunciata un’assistenza sanitaria gratuita. In politica estera, il governo riconobbe (con un artificio procedurale per evitare il veto dei Lords) l’autonomia agli stati Boeri, che avviò il processo di nascita tre anni dopo dello stato del Sud Africa.  Per impellenti ragioni di salute, Campbell-Bannerman si dimise ad aprile 1908 sostituito dall’altro liberale Asquith, all’epoca Cancelliere dello Scacchiere, seguace dei liberali di Lord Primerose e perciò incline in politica estera a sostenere l’impero inglese.

Il governo Asquith – con  Lloyd George nuovo cancelliere dello Scacchiere – nel proseguire la linea riformatrice liberale di attenzione ai diritti dei cittadini, incontrò presto delle forti difficoltà nei rapporti con la Camera dei Lords (che era ereditaria), finché essa  respinse il Bilancio per il 1909 (perché aumentava i fondi per la flotta e i servizi sociali) .  Allora il governo ricorse alle elezioni  nel gennaio 1910, che però non risolsero lo stallo. Asquith tentò invano di negoziare con i conservatori la modifica del diritto di veto dei Lords. Infine il Governo ottenne dal Re (che era divenuto Giorgio V) di poter sciogliere una seconda volta la Camera e la promessa di uniformare il colore politico delle due camere creando nuovi Lord. Le elezioni del dicembre confermarono l’esito del gennaio ma i Lord accettarono emendamenti  ai  Regolamenti Parlamentari che riducevano il loro diritto di veto (in specie sulle leggi finanziarie). Così, nel periodo fino al 1914, il governo Asquith realizzò il programma riformatore dei liberali rivolto ad allargare gli aiuti ai cittadini (assicurazioni sociali e sussidi ai disoccupati, una legge sull’uso dei fondi sindacali nel sostegno a un partito) , un programma che includeva tra l’altro la Home Rule sull’Irlanda (eccetto l’Ulster escluso al momento  per dar tempo allo svolgersi delle conferenze conciliative tra le due parti irlandesi).

In tutti questi anni il Premier mostrò in patria qualità di statista competente e di abile amministratore ma assai concorde con il proprio Ministro degli Esteri, Edward Grey  (titolare dell’incarico fin dall’inizio del governo Campbell-Bannerman) , il quale seguì sempre una politica estera molto riservata, senza mai fornire indicazioni sulla risposta inglese in caso di guerra da parte degli Imperi Centrali (Germania, Austria-Ungheria, Impero Ottomano). Mentre all’improvviso la possibilità bellica divenne reale. Di fatti,  a fine giugno 1914 l’assassinio a Sarajevo dell’Erede  al Trono d’Austria durante una visita ufficiale, provocò , dopo un mese esatto di valutazioni, la consegna di un ultimatum  in cui l’Austria accusava la Serbia di aver sostenuto il terrorismo , e che fu seguito dalla dichiarazione di guerra. Immediatamente l’Impero Tedesco invase il Lussemburgo e il Belgio e ciò obbligò il pur prudente Asquith a seguire la pubblica opinione inglese , che voleva fare entrare in guerra anche l’Inghilterra onde evitare una vittoria tedesca. Poi, il gioco delle alleanze formatesi negli anni precedenti finì per far schierare le maggiori potenze mondiali su due fronti contrapposti (la Triplice Intesa, Inghilterra, Francia e Russia, contro Impero Tedesco, Austro ungarico ed Ottomano)  ed ebbe inizio la prima guerra mondiale, con otto diecine di milioni di cittadini in armi.  Subito dopo, i Laburisti e i sindacati , in totale differenza con i socialisti del resto di Europa, decisero una tregua industriale “per por fine a tutte le controversie di lavoro esistenti e che, qualunque nuova difficoltà potesse sorgere durante la guerra, si facesse un serio tentativo per raggiungere un accordo amichevole prima di arrivare a uno sciopero o una serrata”.

L’Inghilterra – il cui Lord dell’Ammiragliato era Churchill, divenuto  liberale nel 1908 –  nei primi mesi si impegnò  essenzialmente nel mar Egeo orientale contro la Turchia in aiuto della Russia, utilizzando la Royal Navy per forzare la via d’accesso ad ovest di Istanbul, cioè lo stretto dei Dardanelli e il contiguo Mar di Marmara. Seguirono  alcuni insuccessi da cui sorsero forti dissidi nella catena di comando. Intanto, ad aprile 1915, il Ministro Grey riuscì a stipulare a Londra un Patto Segreto (si vedrà al paragrafo seguente il perché della segretezza) tra Inghilterra, Francia e Russia con l’Italia per indurre quest’ultima a rompere l’alleanza ultra trentennale con gli Imperi Centrali, compensandola con notevoli concessioni territoriali sulla costa adriatica orientale. Poco dopo, a metà primavera, i dissidi nella gestione della campagna nei Dardanelli, portarono ad avvicendare Churchill all’Ammiragliato ed allo stesso tempo Asquith allargò il Governo ad una Coalizione con i Conservatori, gli Unionisti e alcuni laburisti, ove Lloyd George era Ministro delle Munizioni. 

Non fu un successo. Fallì la spedizione dei Dardanelli, non ci furono progressi nel fronte occidentale. Nel frattempo, si agitavano in Europa le acque politiche con la prima conferenza internazionale socialista tra partiti di paesi in guerra, che si tenne a Zimmerwald, presso Berna a settembre, e che, sulla guerra, decise con ampia maggioranza il “né aderire né sabotare”. In generale,  l’andamento della guerra andava peggiorando per la Triplice Intesa. Pertanto a gennaio 1916, in Inghilterra venne rotta la tradizione e introdotta la leva obbligatoria. Poi nella settimana di Pasqua,  i primi di aprile, scoppiò una violenta rivolta a Dublino dei militari irlandesi che chiedevano  l’indipendenza dall’Inghilterra e proclamarono la Repubblica Irlandese Indipendente. In una settimana la rivolta venne sedata, ma gli irlandesi continuarono da allora a mobilitarsi per l’indipendenza anche clandestinamente, e l’ala più radicale, l’Irish Republican Army (IRA), iniziò una guerra di colpi di mano contro  la polizia e l’esercito britannico.

Sul continente, a fine aprile si svolse una seconda conferenza internazionale dei socialisti a Kienthal (sempre presso Berna) nella quale prevalse la tesi di Lenin “trasformare la guerra imperialista in guerra di classe“, non condivisa tra i socialisti italiani da G. Emanuele Modigliani. Mentre la guerra si concentrò da inizio luglio a metà novembre in un fronte di una quarantina di chilometri nel bacino del fiume Somme, nel settentrione della Francia, contiguo a dipartimento di Calais. In questa battaglia le perdite delle truppe inglesi furono terribili. Appariva sempre più chiaro che Asquith mancava di visione strategica in campo militare e ciò causò un’insoddisfazione diffusa affiancata da una martellante campagna di stampa (in mano ai conservatori). Così i primi di dicembre Asquith si dimise (restando a capo dei Liberali) e venne sostituito da David  Lloyd George.  Peraltro il rapporto politico tra i sostenitori dei due restò pessimo pure nel decennio successivo.

Lloyd George , esponente della parte dinamica dei liberali, fece un governo con i conservatori (cui assegnò gli Esteri con Balfour) e con i Laburisti (cui dette otto Ministeri). Come primo provvedimento, formò un piccolo Gabinetto di Guerra di cinque membri in sessione continua, al posto dei 23 fino ad allora. Il che dette un forte impulso alle decisioni. Decisioni di cui c’era davvero bisogno, visto che in Russia, nella settimana dall’otto di marzo (secondo il calendario gregoriano europeo), vennero al pettine i drammatici nodi della gravissima crisi economico sociale, compresa la conseguente carestia, fatti emergere dalla guerra con le sue reiterate sconfitte. In tale quadro, vista l’incapace ritrosia dello Zar Nicola II, prese il sopravvento una forma rivoluzionaria di tipo borghese mischiata alle richieste dei soviet, di avere più libertà e più attenzione alle necessità degli operai. Nicola II abdicò e in poche ore il potere passò dalla dinastia Romanoff ad un governo provvisorio della Duma (con Kerenskij agli Esteri) che confermò l’adesione alla Triplice e la permanenza in guerra. La determinazione operativa  di Lloyd George funzionò in particolare trovando l’appoggio dei conservatori, proprio lui così sensibile ai bisogni dei più deboli. Restava peraltro evidente la fragilità della situazione. E il  corpo grosso dei parlamentari liberali seguiva in nome delle esigenze belliche più che per convinzione.

Lloyd George subito dopo si dedicò a fronteggiare la minaccia dei sottomarini tedeschi, che riducevano alla fame l’Inghilterra. E non solo. Infatti, la scelta tedesca di attaccare nell’Atlantico le navi mercantili anche dei paesi non in guerra al fine di impedire i rifornimenti all’Intesa (e all’Inghilterra in specie), finì per spaventare gli Stati Uniti e pesò assai nella loro decisione di entrare in guerra in appoggio della Triplice Intesa (aprile 1917). Non solo perché la guerra sottomarina comprometteva molto i fiorenti traffici americani anche verso il Mediterraneo e il Medio Oriente, ma anche perché le strutture finanziarie USA stavano da tempo sostenendo la Triplice Intesa su larga scala in campo creditizio. Ed inoltre perché il Presidente americano, il democratico Wilson intendeva rompere con il tradizionale isolazionismo e rendere possibile far superare anche in Europa i vincoli degli esistenti imperi multinazionali, non abbastanza corrispondenti alle regole della libertà (in gennaio Wilson disse alla Camera “ogni popolo sarà libero di determinare la propria politica, dal più piccolo al più grande e potente”). Il contributo degli Stati Uniti fu notevole, in forze fresche (oltre un milione e mezzo di soldati) e in consistenti dotazioni belliche.

Ciononostante, in Inghilterra fu forte la carenza di cibo derivante dalla guerra sottomarina. Richiese un robusto aumento della produzione agricola e l’anno successivo il razionamento alimentare. In questo tipo di questioni operative, Lloyd George si mostrò davvero capace, del tutto libero dai condizionamenti della burocrazia (per niente apprezzata), determinato nell’agire e nell’attuare le scelte fatte. Con il passare del tempo, cominciò tuttavia ad emergere che Lloyd George non era altrettanto efficace nel campo delle grandi strategie, militari e politiche. Era scettico sulle alte gerarchie militari e ne autorizzò a fatica nell’estate del ’17 i piani di offensiva nelle Fiandre occidentali. Ma questa offensiva, durata un trimestre, registrò enormi perdite umane, senza raggiungere alcun obiettivo.

Poi venne un novembre intenso. Il 2 il governo Lloyd George, con una dichiarazione del Ministro degli Esteri Balfour, in uno stringato paragrafo di 67 parole, promise l’appoggio  “allo stabilirsi in Palestina di una casa nazionale per il popolo israeliano, senza pregiudicare i diritti civili e religiosi delle esistenti comunità non israelitiche”. Una dichiarazioni politica  importante, che adottava l’impostazione del movimento sionista e che porterà trenta anni dopo alla fondazione del moderno stato di Israele. Nei medesimi giorni si verificò un grosso mutamento da subito del quadro politico internazionale con la rivoluzione d’ottobre (il 7 novembre nel calendario gregoriano) in Russia, l’insurrezione di Pietroburgo,  che portò alla nascita della Repubblica Sovietica Russa e alla salita al potere dei bolscevichi con la presidenza di Lenin. La conseguenza immediata fu l’uscita della Russia dal conflitto mondiale con l’armistizio di Brest Litovsk (nella Bielorussia, dicembre 1917), la conseguenza in prospettiva fu la grande novità dell’affermarsi del marxismo leninismo , destinato a terremotare i rapporti all’interno del socialismo internazionale minandone  per decenni l’autonomia ideologica ed operativa (con l’eccezione dell’Inghilterra, in cui a gennaio 1918 il Partito Laburista si dichiarò contrario al marxismo) . 

Nel frattempo, in politica interna la Camera inglese  varò il mese successivo una nuova legge elettorale nazionale molto innovativa, introducendo il suffragio universale maschile e concedendo il voto alle donne abbienti oltre i trentanni.  Nel complesso il corpo elettorale passò da poco più di otto milioni a quasi 19 milioni (circa il 60% uomini). Nel frattempo, sul campo di battaglia, la situazione si deteriorava sempre più, in specie per i rapporti laboriosi tra il. governo e i militari inglesi. Alla fine  Lloyd George accettò la tesi di un comando unificato nella persona del maresciallo francese Foch (aprile ‘18), e da maggio l’andamento bellico si ribaltò, la Triplice Intesa lanciò una serie di attacchi contro i tedeschi esausti e in sei mesi  arrivò all’armistizio e alla vittoria, inizio novembre ‘18.

Lloyd George risultava molto popolare, ma più tra i conservatori che tra i parlamentari liberali, che erano visibilmente divisi tra i coalizionisti (quelli vicini al Primo Ministro) e quelli detti a “pianto libero” (vicini ad Asquith). Un mese dopo, in attesa che a gennaio avesse inizio la Conferenza di Pace a Versailles, furono indette le elezioni a conferma della coalizione (con Asquith recalcitrante). La coalizione di Governo (dunque i liberali coalizionisti) riportò una vittoria schiacciante (anche se Asquith perdette il suo seggio e venne ricuperato pochi mesi dopo in una supplettiva). Era peraltro evidente che la politica del Primo Ministro, considerata la netta spaccatura tra Lloyd George e i sostenitori di Asquith, era sostenuta soprattutto dai conservatori. Spaccatura acuita dai clamorosi risultati del voto in Irlanda: una piena disapprovazione per il governo di Westminster e il trionfo del  partito repubblicano del Sinn Fein (“noi stessi” in gaelico), che non volle neppure prendere possesso dei seggi ottenuti. In più, il Partito Laburista aveva superato seppur di poco il 20% dei voti ed inclinava sempre più  a posizioni politiche antiliberali, anche sotto l’influenza del nascente partito comunista inglese.

In una cornice simile, la scarsa propensione di Lloyd George a ragionare sull’evolversi delle materie politiche complesse, era destinata a misurarsi con il fatto che lui, essendo uno dei quattro grandi statisti di Versailles (il francese Georges Clemenceau, l’americano Woodrow Wilson e l’italiano V. Emanuele Orlando), avrebbe dovuto  assumersi una grande responsabilità per l’accordo di pace. E nonostante gli sforzi di realismo, venne coinvolto nel clima del tradizionale revanchismo da vincitori negli antichi scontri  di potere, disattento ai contraccolpi di quanto era imposto agli sconfitti. Il Trattato di Pace, firmato a giugno da oltre 40 Stati,   fu lodato in Inghilterra (in particolare dal Re Giorgio V), non venne mai ratificato dagli Stati Uniti (in particolare nella parte costitutiva della Società delle Nazioni, voluta da Wilson) ma fu stroncato con ragionata e puntuale nettezza  da un componente della delegazione inglese a Versailles, il professor John M. Keynes, rappresentante del Tesoro britannico. Il quale a fine dello stesso 1919 scrisse il volume “Le conseguenze economiche della pace” , in cui, con la capacità predittiva tipica dei liberali coerenti, mise a fuoco i gravi errori del Trattato. Riassumibili nella durezza e insensatezza delle condizioni imposte alla Germana sconfitta. Le condizioni dell’economia evoluta e della pace, vanno ricostruite e non vieppiù distrutte. Scrisse:  “assai pochi fra noi si rendono conto appieno della natura straordinariamente eccezionale, instabile, complicata e precaria dell’organizzazione economica dell’Europa occidentale durante l’ultimo mezzo secolo. Consideriamo alcuni dei vantaggi recentemente conseguiti come naturali e permanenti e tracciamo i nostri piani in conformità. Su queste false fondamenta noi fondiamo i nostri progetti di progresso sociale, perseguiamo le nostre ambizioni particolari e crediamo che ci resti ancora margine a sufficienza per alimentare, non per sedare, conflitti civili nella famiglia europea. Ma i rappresentanti dei popoli di Francia e d’Inghilterra corrono il rischio di completare la rovina cui la Germania diede inizio, con una Pace che, se sarà applicata, dovrà necessariamente indebolire, quando avrebbe dovuto restaurarla, quella delicata e complessa organizzazione per mezzo della quale soltanto, le genti d’Europa possono lavorare e vivere”. Insomma, “la guerra ha talmente scosso il sistema da mettere senz’altro in pericolo la vita stessa dell’Europa”. Sono considerazioni che manifestano la caratteristica capacità liberale di riflettere sulle conseguenze di ciò che si fa e di farlo usando  il metro della libertà. Una capacità liberale inesistente nel clima dominante a Versailles.

Contemporaneamente alla Conferenza di Pace, sul piano interno, Lloyd George si trovò alle prese con le conseguenze in Irlanda del voto del dicembre ‘18. Dal mese successivo gli irlandesi costituirono il nuovo Parlamento irlandese (dando vita alla Repubblica d’Irlanda)  e cominciarono la guerra civile con Londra. Dopo due anni e mezzo di guerra effettiva, nell’estate del 1921, Lloyd George, pur riluttante, ritornò all’impostazione di riconoscere l’autonomia che era stata di Gladstone e di Asquith, avviando i negoziati che all’inizio inverno  portarono a sancire l’indipendenza irlandese. Questa scelta non venne accettata dai Conservatori più tradizionalisti e avviò la frattura della coalizione di Governo. Frattura che nei mesi seguenti si verificò a causa di uno scandalo in tema di concessione di onorificienze. A ottobre i Conservatori ritirarono l’appoggio al Governo,  Lloyd George si dimise e a novembre ci furono le elezioni politiche. I Conservatori ottennero la maggioranza assoluta dei seggi, i Laburisti prevalsero sui Liberali (sempre divisi tra i Liberali di Asquith e i Liberali Nazionali di Lloyd George), e nel complesso i liberali arretrarono, in più dimezzando la percentuale di seggi (calando al 10%) rispetto a quella dei voti.  

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Anniversario morte bimbi rom a Livorno

L’anniversario descritto con efficacia da Mauro Zucchelli riporta ad un episodio tragico testimonianza di una sostanziale incuria comunale, ma finisce per incentrarsi sulle conseguenze del funerale in Duomo, negative per Don Razzauti. In realtà tali conseguenze non furono altro che l’applicare l’impostazione della Chiesa ovviamente decise dai suoi preposti. Il tentativo di far passare la Chiesa come un surrogato della funzione pubblica civile è ricorrente in certi ambienti ma non può avere successo (come sempre). Rammenta un certo mondo socialista guidato da Gennaro Acquaviva che, nei tardi anni ’80, pretendeva dalla Chiesa gratitudine per aver fatto il Concordato ’84, senza rendersi conto che la Chiesa non ha gratitudine per i suoi alleati provvisori non correligionari. In termini di funzione pubblica civile, il solo rapporto possibile tra Comune e Chiesa è quello della separazione tra chi cura i rapporti tra i cittadini e chi si occupa di credi religiosi. L’auspicio è che chi sostiene la separazione Stato Religioni, voglia prendere parte alla celebrazione di un altro anniversario, il 153° del XX settembre che si svolgerà nella Piazza omonima.

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Il peso dei cittadini nelle Borse Valori

Un mio articolo su Libro Aperto dell’autunno 2021, illustrava l’urgenza di ricuperare il senso della funzione originale del mercato: quantificare il giudizio degli operatori umani sui diversi beni necessari a vivere, nel presupposto che, al momento del giudizio, al mercato siano presenti fisicamente i diversi cittadini giudicanti e i beni giudicati. Tale supposizione  è cambiata al passare dei decenni. L’avvento delle Borse Valori ha sostituito sia i cittadini  (con operatori loro rappresentanti) sia i beni da giudicare (con descrizioni delle loro caratteristiche materiali e con previsioni circa il loro futuro assetto inerenti le quantità da valutare, le date ed i luoghi di trasferimento). Comunque il sistema mercato è stato il massimo moltiplicatore della partecipazione degli individui alla convivenza economica senza ricorrere alla violenza fisica. 

All’epoca, peraltro, ricordai anche la profonda trasformazione introdotta nel mercato dall’ avvento del computer. E ne sottolineai la caratteristica del simulare la presenza degli operatori umani mediante gli algoritmi. I tantissimi  algoritmi adoperati, oltretutto funzionanti a grandissima velocità, sono quasi del tutto indipendenti dall’intervento materiale di chi li utilizza. Di fatto, stabiliscono sempre più da soli quali scelte compiere sul mercato. Così, da qualche anno, una simile crescita algoritmica ha stravolto quasi del tutto l’originaria funzione delle Borse Valori (assicurare la continua partecipazione attiva degli umani nel formulare i giudizi decisivi sull’economia). Il valore adoperato oggi nelle correnti relazioni tra umani per i beni essenziali nel vivere è determinato dagli algoritmi ed è adottato senza problemi dagli umani  come se lo avessero scelto loro.

Aver messo la Borsa Valori in mano agli algoritmi, ha ferito nel profondo il principio della convivenza imperniata sul cittadino. Ed inoltre ha fatto crescere un altro difetto: ha dato alle persone o gruppi che controllano gli algoritmi, la possibilità  di estendere il controllo sull’andamento dei mercati gestiti. Così, nelle Borse Valori mondiali è pressoché sparita la partecipazione del cittadino in carne ed ossa allo stabilire i prezzi nel tempo. Il che è un subdolo arretramento della libertà nel convivere. Per di più, a parte le manipolazioni dolose dei mercati, cresce il diffondersi di notizie economiche frutto di sole elaborazioni algoritmiche. E siccome le elaborazioni algoritmiche danno indicazioni puramente sulla scorta delle impostazioni ricevute in avvio (compito che viene svolto con fulminei calcoli automatici), il mercato gestito dagli algoritmi perde la sua natura di strumento correlato alla realtà economica del bene e si trasforma in strumento che impone al bene l’indirizzo deciso dal mezzo informatico. Dunque il mercato di tipo algoritmico attiva meccanismi estranei ai mercati naturali, perché sostituisce le valutazioni critiche degli umani con gli automatici criteri impositivi (deterministici di per sé) dell’algoritmo che pervade la gestione delle Borsa Valori in tutte le fasi.

Nell’uso degli algoritmi, rispetto al momento del mio articolo fin qui citato, è peraltro deflagrato un altro aspetto, cioè quello relativo ai derivati. I derivati sono contratti – di cui negli ultimi anni del ‘900 fu trovato il modo di calcolare il valore dagli economisti e matematici Marton e Scholes, che furono insigniti del premio Nobel –  legati all’andamento di un’attività sottostante, o finanziaria (titoli azionari, tassi di interesse e di cambio, indici) o reale (i vari beni costituiti da materie prime di ogni genere). All’inizio, lo scopo dei derivati si limitava al ridurre il rischio d’impresa dovuto al variare dei prezzi futuri delle materie prime e dei cambi. Siccome però il derivato funziona anche nel senso inverso, può consentire anche di scommettere sul futuro. A tal fine basta che il contratto non preveda l’obbligo di consegnare la merce, ma di comprare, o no, determinati prodotti in futuro. Così vien meno ogni connessione tra il bene materiale e il derivato. Il contratto assicurativo iniziale (premio vs. rischio) diviene una mera scommessa speculativa. Ci sono certo svariati tecnicismi nell’applicazione del derivato (ad esempio la distinzione tra derivati simmetrici e asimmetrici oppure quella tra derivati negoziati su mercati regolamentati e quelli negoziati dalle parti contraenti oppure i derivati che operano su altri derivati), ma la sostanza dei derivati è questa.

Il perché della deflagrazione deriva anche dal nuovo tipo di ambiente economico in cui i derivati si sono trovati ad operare. Un ambiente dominato dalla finanza. L’indirizzo della finanziarizzazione,  maturato da circa 35 anni in un mondo globalizzato, ha portato prima allo sviluppo dell’economia, ma poi a comportamenti largamente (e crescentemente) imprudenti. Già nel biennio 2007-2008, il prevalere di strumenti finanziari incontrollati fu determinante  nella grave  crisi dei mutui. Eppure, soprattutto il governo USA, salvò le istituzioni iniettando enorme liquidità ma continuò a spingere i derivati finanziari tramite legami amicali tra alti funzionari dello Stato e dei fondi privati.

Per di più, in quegli stessi anni proseguiva un’altra interpretazione distorta della globalizzazione, secondo cui, essendo ora agevolmente raggiungibile ogni angolo del mondo, l’imperativo del profitto non era più ottimizzare la produzione, quanto comprimere fino al momento dell’effettivo utilizzo le scorte di materie prime e di lavorati per  produrre.  Ciò ha accresciuto il peso della logistica in giro per la terra, e con esso il quadro ideale per irrobustire le possibilità di eventi favorevoli o contrari in termini economici, estranei al ciclo produttivo in sé. Nel complesso, dunque, la situazione economica è scivolata nel profondo verso la logica dello scommettere sulle aspettative piuttosto che rimanere legata, mediante i prezzi, ai dati reali di quanto prodotto.   

Un primo riscontro c’è stato nei due decenni iniziali del 2000, quando i consumi di materie prime sono raddoppiati e i prezzi sono rimasti quasi fermi. Ciò soprattutto perché le scommesse finanziarie tramite i derivati sono state che i paesi emergenti (a cominciare dalla Cina) avrebbero prodotto a basso costo e tenuto bassi i prezzi. Poi il secondo riscontro a metà 2021. Rapidamente i prezzi dell’energia hanno raggiunto livelli senza precedenti, nonostante che l’offerta di petrolio fosse diminuita di gran lunga meno che nelle due crisi petrolifere degli anni ’70. Ciò è avvenuto soprattutto perché le scommesse finanziarie tramite i derivati sono state (vista la pandemia in corso) che il prezzo dell’energia  sarebbe cresciuto in maniera impetuosa.  

Ora, lo scivolare verso la logica dello scommettere rompe quella della connessione con il cittadino. Il che è grave. Lo è ovviamente per i liberali, ma anche per quelli che vorrebbero un mercato meno legato al remunerare il capitale. La finanziarizzazione, diversamente dal mercato, tende a prescindere dal produrre. E’ un’ingegneria del denaro che si automoltiplica. Propende al confondere ruoli imprenditoriali e bancari (comprese sia le banche istituzionali che non) nel quadro di un eccesso di liquidità a debito (agevolato dal mantenere molto basso il costo del denaro), e si affida ad una selva di fondi speculativi che è assai complesso conoscere davvero e valutare quanto ad affidabilità (tanto più per la provata inadeguatezza delle agenzie di rating operanti in monopolio). Insomma, la grande finanziarizzazione ha devastato il mercato facendo saltare il processo del formarsi dei prezzi nel rispetto dell’andamento della realtà produttiva.  

Il dominio della scommessa (che si è protratto ancora e che dall’avvio primavera 2022 ha avuto un nuovo contributo dalla guerra in Ucraina e in seguito dalla prospettiva della sua ricostruzione)   ha gonfiato i prezzi in generale (anche se in testa ci sono quelli dell’energia) e ciò ha avviato la decisa ed ampia crescita dell’inflazione, oltretutto insolita perché non dovuta all’offerta o alla domanda. E l’inflazione – che diminuisce il valore della moneta – ha indotto in tempi rapidi il ricorso alle usuali terapie atte a ridurla, fondate sulla progressiva ma decisa crescita dei tassi di sconto stabilita sia dalla FED che dalla BCE. Terapie che però incidono sull’apparato produttivo in modo restrittivo, con riflessi significativi nelle relazioni civili (tra l’altro rendendo arduo finanziare la spesa pubblica). Inoltre, va sottolineato che il dominio della scommessa funziona anche al ribasso, qui provocando, sempre a prescindere dalla realtà produttiva, il crollo dei prezzi e la recessione, pur essa restrittiva.

Insomma, la situazione creatasi finora corrode la libera convivenza. Urge curarla effettivamente alle radici. E’ evidente che, al di là di vari aspetti, il nodo principale è il dominio della scommessa finanziaria nei meccanismi della borsa, un dominio che viola i principi del mercato reale (oggi, meno del 3% dei contratti è su  beni reali). Per sciogliere il nodo, la via più semplice e più rapida è ripristinare il criterio dei derivati quale strumento assicurativo. In sostanza, stabilire che possono usare la finanza derivata esclusivamente i produttori dei beni e chi li commercia. Aggiungendo che, anche le assicurazioni contro l’insolvenza di un titolo finanziario, quali il debito pubblico, possono essere stipulate solo dai detentori del titolo.

Per avere efficacia un simile provvedimento  va assunto a livello di UE. E avrebbe un effetto positivo sotto più aspetti. Nel rimarcare i diversi interessi strutturali tra l’economia europea e quella americana (che della finanza derivata quale scommessa è stata la culla ed è il motore) e pure inglese. Nell’eliminare in modo decisivo l’uso dei derivati in chiave finanziaria, cosa che allontana la terapia della BCE di rialzare i tassi per adempiere al suo mandato. Nel ridurre in modo drastico il proliferare di occasioni per creare utili di fatto non imponibili. Nello spingere l’UE, ed è la questione essenziale, a riprendere il caratteristico impegno del valorizzare la centralità delle scelte dei propri cittadini. Il caso dell’appoggio persistente dato allo strumento dei derivati finanziari è il tipico autolesionismo della cultura occidentale. L’occidente dimentica spesso il metodo della libertà dei cittadini diversi che ha creato. Ritiene possibile al tempo stesso esaltarla nel celebrarne il nome quale idolo statico  ed eterno, ed insieme contravvenirne l’ineludibile spirito di cambiamento connesso al conoscere le cose del mondo e delle relazioni umane, uno spirito che è perenne e sempre nuovo. Il metodo della libertà non è praticabile nel segno del mitizzare la sicurezza della tradizione e dell’evitare il rischio dell’innovazione. Viceversa, negli anni duemila, in occidente è dilagata nell’economia la finanziarizzazione al posto della produttività  e nel mondo dei media la spettacolarizzazione al posto del narrare i fatti ai cittadini. In ambo i casi rimuovendo l’esercizio dello spirito critico di chi opera in economia o nei media. E quindi  indebolendo la libertà civile. Che così non è più in grado di dispiegarsi per fronteggiare l’ampliarsi del club degli emergenti (quali Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) sempre più antioccidentali e con una lunga fila di altri candidati a farne parte (tra cui Iran, Arabia Saudita, Algeria, Argentina).

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Il pacifismo vs. libertà (al prof. Pier Luigi Barrotta)

Da Raffaello Morelli a Pier Luigi Barrotta, domenica 2 luglio ore 18,45

 Caro Pier Luigi,

Ti ringrazio dell’attenzione alla mia mail e mi fa piacere che tu condividala questione dell’ossimoro “pacifismo liberale”. Tuttavia la mia mail si impernia sul sostenere la totale necessità, in Italia,  di considerare liberale un sostantivo politico, non  un mero aggettivo. Da noi c’è pochissimo liberalismo, ed anzi è considerato, da sinistra, dal centro, da destra e dal mondo cattolico, la fonte di ogni nequizia nelle scelte istituzionali. Per questo urge  farlo riemergere, per il paese prima che per i liberali. E non vi è dubbio che, tenendo fermo il concetto di sostantivo politico, la libertà dei liberali , siccome si fonda sullo scambio tra diversi (individuale certo ma anche tra Stati),  per fisiologia  persegue la pace. Non dimenticando mai , appunto, che la pace richiede diverse condizioni raggiungibili solo muovendo dalla stessa libertà e dai suoi conflitti. Viceversa, trattando il liberalismo come aggettivo di un qualche sostantivo ideologico, questo sostantivo (nel caso  il pacifismo) è sperimentalmente non in grado di produrre altro che la propaganda pro domo sua. L’essere assistito dall’aggettivo liberale non modifica in tempi umani l’attitudine specifica del sostantivo. In sintesi, non si tratta di lasciare il termine pacifismo ai pacifisti assoluti, bensì di convincere i cittadini che l’utopia della pace non si autorealizza  senza la libertà (magari al tempo stesso curando che la libertà venga attuata in coerenza al suo metodo e non si trasformi  in ideologia).

Cari saluti

Raffaello

Da Pier Luigi Barrotta a Raffaello Morelli, sabato 1 luglio ore 21,00

Caro Raffaello,

il problema è, come dici, che il pacifismo è oggi identificato con  “una dottrina che rifiuta ogni tipo di scontro armato per risolvere le controversie internazionali, senza però curarsi del crearne le condizioni”, o quella che chiamo “pacifismo assoluto”. Se accettassimo questa identificazione allora sarebbe corretto che il pacifismo liberale (o un liberalismo pacifista, se preferisci), diventa un ossimoro. Non vedo tuttavia motivo per lasciare ai pacifisti assoluti la difesa e il perseguimento della pace. Se ho ben capito la tua posizione, siamo d’accordo su tutto, tranne sull’opportunità retorica di non lasciare il termine “pacifismo” ai pacifisti assoluti.Un caro saluto,Pierluigi

Da Raffaello Morelli a Pier Luigi Barrotta, sabato 1 luglio ore 16,40

Caro Pier Luigi,

il tuo articolo sul numero di Aprile Giugno su Libro Aperto,  argomenta in modo brillante il perché sia  esatta la tesi di Kant  esposta nel suo Progetto per una pace perpetua. Annoti puntualmente che quello di Kant “non è un pacifismo assoluto, che va difeso indipendentemente dalle condizioni sociali e politiche. In Kant, il pacifismo diventa un progetto che va realizzato con un accordo di ingegneria istituzionale…Prima di arrivare alla pace perpetua, bisogna realizzare un certo numero di condizioni”.

Inoltre, il medesimo articolo argomenta allo stesso modo anche su un altro aspetto chiave, “l’analogia più vicina alla federazione dei popoli kantiana è rappresentata dall’UE , non dall’ONU …L’ONU è solo uno strumento per risolvere i conflitti ed è assai poco impegnato sulla natura costituzionale dei paesi aderenti. Al contrario, l’UE è molto esigente sulla adesione  ai valori liberali dei paesi che ne fanno parte”.  

Peccato che tali due argomentazioni, tipiche della cultura liberale,  tu le immerga in un contesto che adopera termini del tutto estranei a tale cultura. Asserisci che “il progetto di Kant ben illustra il pacifismo liberale”. Ora, a parte il fatto che il pacifismo organizzato è nato parecchi decenni dopo Kant, l’espressione pacifismo liberale è un evidente ossimoro.

Intanto perché pacifismo è una dottrina che rifiuta ogni tipo di scontro armato per risolvere le controversie internazionali, senza però curarsi del crearne le condizioni, mentre liberale è il metodo che si propone di regolare la convivenza nelle istituzioni ricorrendo alla libertà innanzitutto, all’individualismo e al riconoscere la diversità (appunto strumenti che attivano le precondizioni della pace tra gli Stati). E poi perché pacifismo liberale non è assimilabile ad un ossimoro letterario. Scegliendo il pacifismo come sostantivo politico, focalizza l’attenzione operativa sulla pace e rende il termine liberale un mero aggettivo di seconda battuta. Insomma, l’utopia politica della pace prevale sulla libertà e sulle altre condizioni per  arrivarci.

Nell’ottica dei liberali, proprio questo è l’ostacolo maggiore. Essendo l’obiettivo essenziale della politica liberale sostenere nel convivere i modi della libertà, dell’individuo e della diversità, non può essere sottoposto a utopie quali la speranza della pace, che  possono esserne solo il risultato, non la premessa. La politica liberale è il sostantivo, non l’aggettivo. Pertanto, per proseguire il cammino della libertà, è indispensabile mantenere una sua formazione autonoma e visibile, in grado di influenzare davvero il  come governare le istituzioni attraverso la conoscenza del reale. Invece, l’idea che il sostantivo politico sia una ideologia, una religione, un sistema da imporre, mentre l’essere liberale costituirebbe una mera aggettivazione per un clima di maggior civiltà, ripete il solito copione di stato imperniato sul potere e non sulle libere scelte dei cittadini.

Un’impostazione così è una trappola pericolosissima per i liberali. La tendono anche persone molto capaci (ad esempio l’importante pensatore americano Walzer , che quest’anno ha prodotto un libro subito pubblicato in italiano da Cortina, “Che cosa significa essere liberale”), le quali nuocciono ai liberali pur senza averne l’obiettivo.   Appunto con il sistema di ridurli ad un aggettivo di qualcosaltro e lavorando a non farli emergere come prospettiva politica autonoma, viceversa necessaria per costruire la libertà (Walzer si definisce un socialista liberale).

Ritengo che dal punto di vista dell’agire politico, non sia affatto sufficiente quello che scrivi: “il pacifismo assoluto è una vera e propria usurpazione semantica cui i liberali dovrebbero resistere”. Come sempre avviene, l’idea espressa con il sostantivo è la scelta dominante. Ed è a tale pratica, più del pacifismo assoluto, che i liberali devono resistere. Perché il pacifismo in sé è il sostantivo di un agire politico in opposizione alla libertà. Né basta, come pure scrivi, prendere le distanze dall’uso strumentale del pacifismo dei critici di Zelensky e della Nato.  Perché sull’argomento l’uso strumentale del pacifismo è assai meno preoccupante, per la cultura liberale, dell’omessa riflessione circa la politica della Nato da quasi un decennio, volta a fare di Zelensky un centro di pressione per sfidare la Russia a reagire secondo la sua natura di autocrate (il che è estraneo al metodo della libertà occidentale , che per prevalere si affida allo scambio tra diversi).

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WALZER, IL VOLUME DI RILIEVO DAL TITOLO ELUSO

Il libro del pensatore americano Michael Walzer “Che cosa significa essere liberale”, uscito quest’anno e in poche settimane ripubblicato da Cortina Editore, è assai interessante, come lo sono  sempre stati i suoi scritti. Però il  titolo viene eluso in quanto il testo tratta solo di liberale quale aggettivo e non di liberale quale sostantivo (quando  usa i termini socialismo liberale o nazionalismo liberale, “il sostantivo indica l’impegno, l’aggettivo ci parla della qualità dell’impegno”). E definire liberale quale aggettivo  e non quale sostantivo è un fraintendimento grave che,  almeno in Italia, rende inefficace  l’azione politica del liberalismo. Se  liberale fosse solo un aggettivo, non potrebbe avere una funzione politica autonoma e così non sarebbe in grado di influenzare abbastanza lo scenario del confronto politico, promuovendo la libertà. Azione , oggi, particolarmente necessaria.

Il Capitolo 1 – Il libro di Walzer è illuminante sul perché.  Al capitolo 1, scrive: “Il liberale è una persona di modi gentili e mente curiosa…meglio descritto in termini morale che in termini politici o culturali….non dogmatico e non fanatico…che non esclude la rabbia e un feroce realismo”. E precisa che niente “ è imposto dalla morale liberale o dalla sensibilità liberale”. Ma poi argomenta “l’aggettivo liberale non può stare insieme da solo, ha bisogno dei suoi sostantivi, che non saranno mai ciò che dovrebbero essere senza l’aggettivo… l’aggettivo impedisce l’uso della forza e favorisce il pluralismo”. La ripartizione sostantivo aggettivo è l’assunto sbagliato su cui tornerò alla fine della presente recensione.

Il Capitolo 2 – Il capitolo 2 spiega il ruolo dell’aggettivo nel binomio democratici liberali. Inizia dal punto chiave. “Il popolo può autogovernarsi. I governi devono affidarsi al consenso di una maggioranza popolare che si forma attraverso il libero dibattito…L’autogoverno non è tutelato se alcuni governano ma altri sono governati. E’ comunque quel che accade nella maggior parte delle democrazie”. Ci sono quelli che “abitano già nella città senza esserne cittadini. Sono dentro fisicamente ma non politicamente”. Dunque occorre una progressiva inclusione nel tessuto democratico e una politica di reiterazione che non cessa. Perciò “democrazia significa regola di maggioranza…e qui entra in gioco l’aggettivo liberale”.  Secondo il quale “le maggioranze possono agire soltanto entro i limiti costituzionali…l’alternanza delle cariche è una normale caratteristica della democrazia liberale”. In sostanza “un sistema che presuppone una società antagonista e pluralistaUno Stato democratico liberale è progettato per impedire agli amministratori pubblici di violare i diritti degli individui in nome del governo della maggioranza. Un movimento democratico liberale  è  progettato per impedire  ai militanti di violare i diritti dei concittadini”.

Questo passaggio è emblematico. L’autore non chiarisce perché e come l’aggettivo debba legarsi ad un sostantivo per poter funzionare. Qualche pagina dopo va pure oltre, asserendo “il pluralismo promosso dall’aggettivo liberale produce effetti in ogni angolo dello stato democratico. Effetti che creano una società civile meravigliosamente vivace…La società civile di una democrazia liberale non include soltanto i partiti politici e i movimenti sociali ma pure le associazioni”. E prosegue ancora “ciò che l’aggettivo liberale garantisce in modo più incisivo è la libertà, l’apertura della società civile” insomma la piena partecipazione. Peraltro l’autore vuol ”capire se l’aggettivo liberale impone una difesa assolutistica di tutte le libertà”, ben consapevole inoltre che “la democrazia liberale permette e tollera diversi gradi sia di impegno che di disimpegno”. Da qui l’autore si domanda “allora da chi è costituito il popolo? Potrebbe sembrare che l’aggettivo liberale scomponga il popolo…i democratici liberali possono essere meno reattivi alle istanze di un’identità comune, meno disponibili alla disciplina collettiva. Sono i legami stessi di cittadinanza a tenerli  insieme….una religione che ha forse un credo ma non una teologia”. Considerazioni acute che magnificano ciò che l’aggettivo liberale produce, senza far cenno al motivo per cui richiede l’appoggio del sostantivo democratico. Anzi, che fanno trasparire un senso di ineluttabile destino dell’aggettivo a produrre anche “cittadini arrabbiati, risentiti e disfunzionali”, cosa cui si può iniziare a rimediare con politiche di inclusioneche rendano ”gli interessi materiali di ognuno ugualmente importanti…e che siano incentrate sulla formazione dei cittadini”. Insomma, sullo sfondo permane il sogno di una società di uguali.

Il Capitolo 3 – Questo capitolo richiama un ampio ventaglio di avvenimenti in vari luoghi ed epoche, ma  tratta  solo il tema socialismo liberale. Ancora  dando per scontato che l’aggettivo ha bisogno del sostantivo.  Il capitolo comincia illustrando la necessità che “i democratici e i socialisti  liberali  sostengano la deferenza giudiziaria nei confronti dei rami esecutivo e legislativo…e che i giudici si attivino nel difendere i vincoli liberali”. Da qui l’autore si interroga “sul tema che i democratici e i socialisti liberali affrontano con regolarità. Quali usi del potere politico sono giustificati al fine di sostenere la democrazia nei momenti di crisi economica, indirizzare il paese verso la giustizia sociale e creare una società egualitaria?”  “L’aggettivo liberale impone che qualsiasi azione coercitiva dell’esecutivo sia soggetta al controllo del Congresso, della magistratura e del test politici di un’elezione libera”. Di conseguenza cita diversi noti  casi a livello internazionale in vari epoche, pure recenti, in cui questo non su è verificato. In Occidente e in specie nel mondo della sinistra di vario tipo. Peraltro vi sono molti che non condividono tali critiche, poiché sostengono che l’aggettivo liberale “è indisponibile ad immaginare una società migliore ed è soddisfatto di quella esistente”.

Nel complesso, “i socialisti si oppongono  radicalmente al capitalismo  e immaginano una società più egualitaria…L’aggettivo liberale sta a significare che una società socialista può essere realizzata soltanto con il consenso del popolo così come è qui ed ora e la lotta non può che avvenire democraticamente…Oggi i socialisti liberali sono chiamati ad opporsi a qualsiasi ritorno a politiche autoritarie o totalitarie…non possiamo non difendere la libertà civile borghese”. A questo punto l’autore descrive in dettaglio le vicende (dalla fondazione nel 1954 ai giorni nostri) della rivista americana Dissent, un trimestrale dell’Opinione socialista con indirizzo liberalsocialista, che nei decenni  si è trovata a fronteggiare il ricorso ad invasioni concepite per diffondere il rispettivo disegno politico. In larga misura Dissent adottò la dottrina liberale di Stuart Mill, secondo cui “il rovesciamento di un regime autoritario non può che  avvenire ad opera dei propri sudditi”.

In sintesi, per Dissent, “l’aggettivo liberale sta a significare che deve esserci spazio perché i socialisti possano trovarsi in disaccordo tra di loro. Comunque “i socialisti liberali si occupano seriamente di uguaglianza, in genere più dei democratici liberali…e si domandano quanta disuguaglianza è compatibile con la visione di una società giusta”. In questo quadro, “la differenziazione del reddito è difendibile finché il denaro dell’altra persona non è convertibile in potere esercitabile su di voi e su di me…Dovremmo pensare al potere politico nello stesso modo in cui pensiamo agli usi del denaro. Le elezioni democratiche sono un modo per distribuire il potere in modo disuguale…Non è una minaccia all’uguaglianza generale, purché il potere sia limitato, cioè non sia convertibile in privilegi negati ai cittadini comuni”. Nella pratica Dissent pubblicò numerosi articoli in difesa del socialismo di mercato, “un socialismo liberale che poneva limiti al potere politico…in un’economia pluralizzata e una società più cooperativa… questa è l’eterna speranza nominata dalla parola uguaglianza…mai più servi né padroni”.

Riassumendo, una concezione largamente dominata dal sostantivo socialista, che utilizza anche l’aggettivo liberale cogliendone l’utilità ai fini dell’aprirsi, senza  riconoscergli  un ruolo autonomo  nel costruire l’istituzione. Non a caso il capitolo 3 termina riproponendo un approccio enfatico al cambiamento climatico. Auspica l’intervento di uno stato democratico con forti poteri regolatori di cui risponde ai cittadini, al fine di arginare la potenziale catastrofe incombente. Anche perché un simile intervento in tema di cambiamento climatico potrà spingere il mondo “nella lunga marcia verso la giustizia sociale”.

Il Capitolo 4 – Questo capitolo tratta dei Nazionalisti  e degli Internazionalisti liberali. E adotta il solito criterio del sostantivo e dell’aggettivo liberale. “Il  nazionalismo liberale è la più antica forma di nazionalismo…il riconoscimento di una pluralità di “io” collettivi è la sua idea chiave…il nazionalismo liberale richiede una lotta politica contro i nazionalismi illiberali in patria e complicate trattative diplomatiche all’estero con Stati nazione egoisti”. E’ un capitolo incentrato su come, per convivere al meglio, sia fruttuoso – in base alle molte esperienze storiche in svariati paesi del mondo,  largamente citate – valorizzare il nazionalismoliberale e la cooperazione attraverso i confini , invece di perseguire l’illusione di un cosmopolitismo che nega l’appartenere ad una nazione. Anche qui, l’autore tende a vedere gli avvenimenti con acume, però senza andare oltre la tradizionale abitudine di cercare una narrazione generale e collettiva che spieghi l’andamento delle  cose.  Ricorre di continuo all’aggettivo liberale ma non si domanda mai il perché produca pluralismo e con quale meccanismo operi.  

Osserva che “il nome della pace è internazionalismo…che impone la collaborazione attraverso i confini…il sostegno ai movimenti di liberazione nazionale”. Distingue tra l’invio degli eserciti all’estero (che rifiuta)e i singoli volontari (che ammette). Difende l’intervento umanitario come progetto internazionalista, dato che  ”l’uso della forza armata per fermare un massacro è meglio inteso come difesa della vita e della libertà, quindi un’iniziativa liberale”. E cita la guerra in Kosovo negli anni ’90 e formula una constatazione  da non trascurare: “è stata il lavoro di una sinistra multinazionale” . Cosa vera, ma allora non torna sostenere subito dopo che ”l’intervento umanitario è una politica liberale”, asserzione  che invece va provata caso per caso, visto che la politica liberale non è separabile dal come si manifesta la libertà del convivere e non prevede stati predestinati ad esserne i fari.  

Il volume prosegue approfondendo varie insidie in tutte le parti della terra portate  dagli illiberali e dai terroristi contro gli stati governati da forme democratiche e libere. Soffermandosi in particolare sugli aspetti inerenti le migrazioni e i connessi problemi dei ricongiungimenti familiari con chi ha ottenuto l’ingresso. Poi sottolinea come  “i nazionalisti liberali dovrebbero insistere sul fatto che è necessario fare spazio anche ai richiedenti asilo e ai rifugiati. Se il loro numero è troppo alto perché un unico paese possa accoglierli, sarà necessario negoziare con i leader di altri paesi per condividere un progetto internazionalista…Il nazionalismo liberale ha bisogno di etnie e religioni liberali tra i cittadini delle proprie minoranze”.  Del resto, “se non puntiamo attentamente all’autorità e  al vincolo, otterremo qualcosa di molto peggio”. Quanto all’America, “non è uno Stato nazione ordinario…l’impegno nei confronti dei principi della Dichiarazione di indipendenza potrebbe essere definito patriottismo…la dichiarazione di un credo…L’America è una democrazia delle nazionalità…non esiste una maggioranza che può essere chiamata a tollerare le minoranze…esiste soltanto un pluralismo di nazionalità, ogni gruppo (ad eccezione dei nativi americani) vive lontano dalla patria originaria…l’autodeterminazione non è nazionale, è semplicemente democratica”. In ogni caso, annota l’autore, oggi “molti fautori della meritocrazia non sono impegnati nell’egualitarismo della Dichiarazione…Non sono i patrioti che credono di essere…non vivono secondo il nostro credo comune”. Insomma, “l’America è diversa. E’ una società eterogenea …di gruppi dispersi sul territorio e mescolati in una misura che non si ritrova in un alcun altro paese”. Eppure, “il mondo va sempre più nella direzione dell’America…ovunque le nazioni sono messe alla prova dalle nazioni che verranno dopo e dalle minoranze tormentata al proprio interno”.

Il Capitolo si chiude con una considerazione interessante (e non comune) sulla “cooperazione transfrontaliera e sul federalismo come avviene oggi in Europa. Nazionalisti e internazionalisti liberali hanno costruito l’Unione Europea, un progetto che mira a combinare l’autodeterminazione degli Stati nazionali consolidati con una governance paneuropea”. Un simile giudizio (pressoché solitario) coglie il fatto che l’Europa come CEEnacque da un’originale intuizione liberale , che collegava la realtà degli Stati esistenti alla prospettiva del far crescere l’importanza dei cittadini che li abitavano. E viene confermato dall’ultimo periodo del capitolo: “l’UE è un tipo diverso di unione federale e potrebbe indicare forme di vita politica diverse e forse migliori di quelle descritte in questo capitolo”.

I Capitoli 5, 6, 7 e 8 – Questi quattro capitoli – i Comunitari liberali, le Femministe liberali, i Professori e gli Intellettuali liberali, gli Ebrei liberali – se uniti al 9, sono pressoché l’ultimo terzo del volume e adottano anch’essi il solito criterio dell’attribuire un sostantivo all’aggettivo liberale. Solo che ora il sostantivo indica specifiche istituzionali meno generali, il che tra l’altro esprime ancora l’intento di usare l’aggettivo al fine di descrivere una sensibilità più che la cultura del come organizzare la convivenza (in pratica la tradizione prevale sul cambiare).

Il Capitolo 5,  Comunitari liberali, è quasi un ossimoro, dato che i comunitari, negando il senso critico dell’individualismo liberale, sono incompatibili con la libertà. L’autore, dopo aver ricordato che il loro profeta, Rousseau, è un esempio di questo aspetto,  insiste nell’accostare ai comunitari l’aggettivo liberale, confermando di concepire l’essere liberale una mera disponibilità sentimentale utile ad addolcire le durezze della realtà senza affrontare il problema del limitare il potere pubblico.

Il Capitolo 6, le Femministe liberali, ripercorre soprattutto i decenni da quando, in ambiti variegati, il mondo delle donne è stato l’avanguardia dell’evolversi del modo di considerare le femmine all’interno della famiglia e nei rapporti pubblici. Per lo più un’avanguardia ostile al multiculturalismo, il quale “implica l’accettazione di pratiche misogine all’interno di gruppi religiosi o etnici”. Al giorno d’oggi, le comunità patriarcali “non hanno il diritto legale o morale di opprimere le donne”. Come ovvio il femminismo si impegna a discuterne le pratiche, partendo da due temi “le gerarchie religiose e i codici di abbigliamento”. Cioè di tematiche (dall’esclusione delle donne in molte strutture religiose fino al come trattare le questioni dell’indossare il burqa – tutte cose  che richiedono lo stare attenti ai dati concreti  senza abbandonarsi a pregiudizi)  in cui  è essenziale promuovere un continuo  aggiornamento dei criteri del vivere in libertà tra diversi, facendo tesoro dell’esperienza.

Il Capitolo 7, i professori e gli intellettuali liberali, è il primo dei due capitoli in chiave autobiografica. L’autore  spiega i dilemmi educativi che si pongono alle diverse categorie di docenti.  Forse il principale è far coesistere la narrazione dei  fatti storici della materia e il presentarla in termini non incontrovertibili, così da accendere il dibattito  degli studenti ed evitare di indurre al conformismo  verso qualche standard accademico. “Alla luce della lunga storia di disaccordi in quasi tutti i campi accademici, a meritarsi l’aggettivo liberale saranno i dipartimenti pluralisti ed inclusiviI professori liberali  definiscono sé stessi ammettendo di spingersi oltre le proprie conoscenza…Cionondimeno, non considereranno assoluta questa libertà…Gli insegnanti liberali sapranno come imporre la disciplina necessaria all’apprendimento senza reprimere le menti curiose degli studenti adolescenti. I rappresentanti eletti non devono tentare di ostacolare la ricerca”. Le ultime pagine del capitolo richiamano i famosi libri Benda e di Milosz “contro la politicizzazione dell’intelletto e la perdita dell’indipendenza critica”. E la chiusura riprende una citazione classica , “la bandiera dell’indipendenza critica, per quanto stracciata e logora, è ancora la migliore che abbiamo”.

Il Capitolo 8, gli ebrei liberali, è il secondo dei due capitoli in chiave autobiografica. Inizia ricordando che “fino all’epoca moderna  la comunità di Israele era unica nel suo genere, definita da una presunta ortodossia teologica e di osservanza…Di fatto, ad ogni epoca corrisposero diversi modi di essere ebreo….La comparsa, nel XIX secolo, degli ebrei riformatori e degli ebrei  laici fu una novità assoluta…La questione ora è l’adattarsi del pluralismo ebraico ad uno Stato  ebraico moderno e formalmente  laico”.  La questione cardine è stabilire se Israele debba essere un rifugio per gli ebrei di tutto il mondo.

In base alla legge del ritorno del 1950 “chiunque fosse nato da madre ebrea o si fosse convertito all’ebraismo con una cerimonia ortodossa, era ufficialmente ebreo”. Tuttavia, secondo l’autore “l’idea di Israele come rifugio è l’unica ratio difendibile della legge del ritorno…In altre parole l’ebraicità è determinata dai persecutori degli ebrei”.  A questo punto, inizia un ampio e dettagliato excursus sul pluralismo ebraico che caratterizza i molti tipi diversi di vivere il credo. E si afferma che  per gli ebrei liberali, “ciò che conta è accettare la differenza come buona cosa, senza questo pensare di adottarla”.  Il successo degli ebrei in Israele “metterebbe fine al potere rabbinico” e farebbe avvicinare l’organizzazione religiosa al separatismo dell’America.

Qui il separatismo ha quattro principi rigorosi. Per il primo “ il potere coercitivo dello Stato non può essere utilizzato a favore di alcun religione…l’assenza della coercizione statale e del sostegno statale alla coercizione religiosa crea un regno di libertà”. Per il secondo “i gruppi illiberali sono tollerati dallo Stato ma fino ad un certo punto”. Per il terzo “la religione civile finanziata dallo Stato deve essere autenticamente civile…Tutte le religioni sono rappresentate, nessuna è promossa”. Il quarto “ richiede l’accettazione del carattere non conclusivo e tollerante di tutte le argomentazioni…Storicamente, quasi tutte le ortodossie religiose sono state ostili alla democrazia…la parola di Dio e le leggi di Dio non sono soggette a dibattito e revisione popolare…L’idea di alternarsi con gli avversari politici è cruciale per la politica democratica”.

L’autore riflette quindi sul separatismo americano, osservando che “i requisiti culturali del separatismo non vietano riferimenti religiosi , purché  non si condannino o non si escludano minoranze religiose. Dovremmo chiamarlo separatismo liberale, ove l’aggettivo liberale agisce contro qualsiasi tipo di assolutismo. Contro ogni chiusura illiberale, cerchiamo un rimedio costituzionale”. E subito dopo illustra il tentativo in corso (lui e suoi amici) di elaborare  il rapportarsi con la tradizione ebraica in un’ottica liberale, che ne preservi la continuità delle discussioni con interpretazioni molteplici.  E ribadisce con svariati esempi ed aneddoti, “di credere nella possibilità di integrare le istanze morali dei profeti con il realismo necessario alla sopravvivenza”.

Il Capitolo 9 e la valutazione complessiva  del volume  –  Il Capitolo 9, Chi è e chi non è, costituisce, in poche pagine, l’emblema della propensione politica dei socialisti ad applicare le idee e le speranze socialiste in chiave impositiva alle istituzioni in cui operano (un’onda che coinvolge anche i socialisti sedicenti liberali i quali, nell’intento umano, lo sono veramente). Lo comprova l’avvio del capitolo, quando l’autore fa una serie di domande sul ”come si applica l’aggettivo liberale a figure storiche che incarnano quelle che oggi consideriamo contraddizioni radicali “.  E annota “  se questi uomini facessero capolino tra noi  oggi,  dovremmo negare loro l’aggettivo”. Così applica il criterio colpevolizzante dei social media, un criterio che è illiberale perché non tiene conto della differenza di epoca e pretende l’eternità. L’autore dice di usare le domande  per stabilire se  esista una versione razzista (oppure antisemita, islamofoba, omofoba, imperialista o altro) che sia liberale. Ma  con un simile atteggiamento, lo voglia o no, introduce  la rigidità del modo d‘essere liberale una volta per sempre, lo rende ideologico e così esce dalla concezione liberale.

Del resto, Walzer conferma anche nell’ultima pagina la tesi del libro: non vuol ricorrere al sostantivo liberale. Scrive che l’aggettivo liberale “per tutti i sostantivi cui si applica , porta con sé varie qualifiche liberali”  che possono indebolire pericolosamente il sostantivo. E chiosa “l’aggettivo non deve indebolire il sostantivo, ma non ho sotto gli occhi molti casi di questo tipo. E’ più importante sottolineare il buon lavoro che svolge l’aggettivo”. Per finire dopo poche righe, con le parole “l’aggettivo liberale è la nostra arma più importante”.

La valutazione complessiva di questo libro è che sarebbe un lavoro di gran rilievo, se non fosse che elude il titolo. Non è un caso. E’ un libro che rifiuta di concepire  la parola liberale come sostantivo della politica. Il motivo emerge chiaro dal contesto. Esprime in ogni riga la  convinzione che la politica sia un impegno volto ad applicare il libro sacro delle verità sul mondo, quelle conosciute per esperienza e quelle per le  quali si ricorre alla ferma speranza della ideologia religiosa o civile. Un’applicazione con il corollario che occorre  ubbidire chi rappresenta quel libro sacro ed esercita il potere conseguente. Ebbene, una simile convinzione è l’opposto di quella liberale.  

La convinzione liberale non è una teoria, è il metodo dell’osservare sperimentale gli avvenimenti reali nel tempo e il funzionamento delle relazioni interindividuali. Perciò aborre l’idea dell’affidarsi allo sperare. In base all’esperienza, il liberale ha enucleato tre principi: libertà, individualismo e diversità. Più le regole pubbliche che, di volta in volta, sono indispensabili perché queste tre parole siano rispettate nel convivere istituzionale del momento. Il mondo è composto da individui liberi diversi al passar del tempo. Perciò il cambiamento è la fisiologica modalità di funzionamento della vita sulla terra, che di continuo ci circonda. Dunque i liberali rifuggono dai testi sacri, dall’evocare l’unità indistinta, dal perseguire il collettivismo, dal pretendere la comunità, dal cercare il potere elitario. Invece si impegnano costantemente per costruire istituzioni imperniate sui singoli cittadini che esercitano il rispettivo spirito critico, al fine di migliorare la convivenza nel tempo.

Il cittadino liberale promuove la partecipazione, ma non quella del presenziare e basta. La partecipazione liberale pensa al dibattito come premessa inscindibile dal decidere, che  è seguito dal verificare il risultato della decisione e dopo dal correggerla, se necessario. E poi ricominciare.  Questo meccanismo,  Walzer non lo coglie. C’è un brano illuminante nel capitolo sugli ebrei liberali: “ fintanto che sono impegnati a prendere una decisione e fintanto che sono ancora indecisi, rimangono ebrei liberali”. Tale  brano confonde l’uso del senso critico con l’indecisione. Mentre il senso critico liberale   funziona solo come componente del decidere. Il meccanismo liberale è inscindibile dai tre principi con le regole che li attuano di volta in volta, e si adatta nel tempo secondo le scelte dei cittadini. Perciò liberale deve essere un sostantivo della politica, peraltro da riscoprire di continuo osservando gli avvenimenti della vita (qui sta il netto distacco dei liberali dall’ideologia). Walzer  condivide che non si può governare con le ideologie da sole ma non arriva ad inquadrare la funzione metodologica dei liberali (per lui  anche il liberalismo è un’ ideologia) e si affida all’artificiosa congiunzione dell’aggettivo liberale al sostantivo socialista, per trasformarlo in termini aperti e pluralisti (frenando però la forza liberale).

In aggiunta, va tenuto conto  di un altro aspetto decisivo. Scoprire il sostantivo liberale non può  dare le certezze del libro sacro e  di un sistema deterministico. Perché per governare il convivere democratico, la chiave comprovata è il libero conflitto secondo le regole tra i cittadini diversi che vi operano. E le regole si incardinano sulle decisioni prese dai cittadini mediante il loro voto. Da questo meccanismo,  derivano scelte variabili (perché ogni cittadino è diverso e non è epoca di plebisciti), che tuttavia nel tempo sono sperimentalmente le più adatte – almeno fino ad oggi –  a migliorare le condizioni per stare insieme.

Qui emerge un altro aspetto essenziale dei principi liberali. Siccome nella libera democrazia le scelte si fanno a maggioranza dei cittadini conviventi che votino o no, a lungo (permanendo la chiave ideologica) si è ritenuto indispensabile che un gruppo politico per poter governare raggiungesse da solo la maggioranza degli eletti. Un siffatto risultato dipende, è ovvio, dal sistema elettorale usato (qualora sia il proporzionale, è pressoché impossibile, qualora sia un sistema di collegio, dipende da certe condizioni quadro). In ambedue i casi peraltro è assai utile  che i gruppi politici, e poi gli eletti, stabiliscano tra di loro e tra le loro rispettive proposte (in via analogica alle relazioni intercorrenti tra i diversi cittadini) una rete  di  alleanze, preferenziali o meno, e loro tramite, per mezzo di compromessi, formino un programma di governo che alle Camere abbia la maggioranza dei voti. Con tale procedura non si mischiano sostantivi ed aggettivi (il sistema usato da Walzer al posto delle alleanze), e si rendono possibili  scelte equilibrate adatte alla convivenza pluralista tra cittadini diversi. Scelte che l’ideologia non può fornire e che la presenza liberale è indispensabile per attivare  (motivo base per considerare liberale un sostantivo politico). C’è un solo passaggio del libro in cui Walzer, a conferma del suo acume, approda all’idea di liberale come sostantivo. Quando rileva, in chiusura del Capitolo 4, che l’Europa è figlia di un’originale intuizione liberale e che  perciò “l’UE è un tipo diverso di unione federale e potrebbe indicare forme di vita politica diverse e forse migliori”. Purtroppo, come si dice, una rondine non fa primavera.

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Sulle parole di Bersani

Sulle parole di Bersani

La sera della morte di Berlusconi, sulla 7, Bersani ha detto testualmente:  “lui essendo stato un liberale immaginario, ci ritroviamo una destra corporativa.  E’ questo il punto.  E purtroppo, come dico sempre, non avere i liberali in Italia, è un problemino mica piccolo. E io credo che l’equivoco Berlusconi su questo non abbia aiutato  a farli venir fuori”.

Da liberale di lunghissimo corso, commento con “meno male almeno questa constatazione”. E poi,  senza dimenticare le responsabilità che gli stessi liberali hanno in materia, aggiungo che finora  il mondo della sinistra si è illuso di vincere assorbendo gli altri non di destra e senza impegnarsi a costruire una alternativa concreta.

Nella turbolenta estate 2010, lo stesso Bersani,  segretario PD,  ragionava in pubblico su come preparare l’alternativa politica al centro destra. Ed io, rappresentando la Federazione dei Liberali (organizzazione che non ha mai né votato né demonizzato Berlusconi) cui Bersani aveva chiesto un incontro, con il vice Letta, in vista delle regionali in Piemonte, senza poi riuscire ad imporre ai suoi locali la presenza liberale convenuta (e perdendo la Regione guidata dalla Bresso), gli scrissi una lettera. E sottolineai che una possibile coalizione per il cambiamento esigeva un bipolarismo esclusivamente elettorale, una  proposta di legge elettorale con il mantenimento del maggioritario e la reintroduzione della scelta dei parlamentari in mano al cittadino, una magistratura salvaguardata nella sua indipendenza di ordine non tentato da ruoli impropri. Niente. Restò la chiusura ai liberali autonomi.

La sinistra non sopportava il confronto , specie con chi, osservando la vita dei cittadini, si poneva problemi quotidiani sul come affrontarli. Era convinta che la politica consistesse in manovre per giungere al potere  mantenendolo a lungo, e che questo fosse il solo interesse della gente. Non importava dibattere sulla cultura pluralista per affrontare i problemi. Di conseguenza restavano irrisolte questioni assai rilevanti del convivere in Italia. Faccio qualche esempio.

In un paese ampio, di continuo si ripropongono nel governare vari conflitti di interessi. Perciò ci vogliono norme che riducano il rischio di comprimere la libertà del cittadino e quindi la sua condizione di vita effettiva. Il conflitto di interessi si manifesta, ad esempio,  nel formarsi di monopoli in campo economico, nel regime radiotelevisivo   in mano a pochi, nella pubblicità dominante nell’informare, negli intrecci tra responsabilità di governo e attività correnti, nei rapporti fiscali con la Chiesa cattolica, nella normativa sui partiti e sui sindacati. La sinistra ha lasciato marcire e quando se ne è occupata, ha promosso soluzioni di  facciata, cercando accomodamenti  per non  creare scontenti.

La sinistra si è formata su un’ideologia e non riesce a cogliere l’approccio metodologico dei liberali. Lo ritiene  non rivoluzionario nelle proposte perché gradualista e  fautore della maturazione. Restio ai proclami rassicuranti perché antepone l’approfondire i temi studiandone i meccanismi. Troppo attento alle condizioni dei singoli cittadini e  scettico sul privilegiare il collettivo indistinto. Però prendendo atto dei risultati molto positivi del metodo della libertà, la sinistra ha creduto di risolvere la questione camuffandosi da liberale. Recita impossibile per cultura e aggravata dalla circostanza che, scimmiottando i liberali, ha sdoganato a destra i liberali finti, dal liberismo economico che trascura la libertà, al cittadino  modaiolo senza principi. Mancando un progetto alternativo,   negli anni i cittadini si sono allontanati  sempre più dai governi  dell’unità nazionale, con CD e CX contrapposti a parole e inciucianti.

Visto il quadro, le parole di Bersani alla 7 restano l’opinione di un cittadino della sinistra colto. Ma non incidono.  La sinistra reitera comportamenti  autoreferenziali avulsi dalla realtà civile. Pure nelle esequie di Berlusconi, la sinistra ha criticato  il lutto nazionale deciso dal Governo, poiché Berlusconi ha diviso il paese. Per cui, la maggioranza elettorale sarebbe divisiva  (l’unità vorrebbe tutti d’accordo). E così la sinistra regala alla destra anche il criterio unitario della democrazia rappresentativa di cittadini diversi, che varia nel tempo.

Per attivare un’alternativa alla destra, è indispensabile dare spazio alle idee  dei liberali autonomi. Riassumibili in tre parole: libertà, individualismo e diversità. E nelle regole pubbliche che, di volta in volta, occorrono perché queste tre parole siano rispettate nel convivere. I liberali puntano a costruire istituzioni imperniate sui singoli cittadini che esercitano il rispettivo spirito critico al fine di rendere migliore la convivenza nel tempo.  La sinistra saprà scuotersi e far seguire alle parole di Bersani comportamenti coerenti non chiusi al liberalismo autonomo e d’aiuto a quelli finti?

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Un intento buono realizzato male

Le contraddizioni della transizione ecologica dell’Unione europea sono molte. Per quelle più note – per esempio le commodity agricole extra Ue legate ai processi di deforestazione – si sta già cercando una soluzione. Altre, che ancora restano fuori dai riflettori mediatici, rischiano di compromettere intere filiere strategiche per la nostra economia. È il caso degli olii essenziali di rosa, bergamotto, lavanda oppure Argan, che, pur essendo derivati da fonti naturali come piante, alberi e arbusti, contengono molecole chimiche che, secondo l’Ue, dovrebbero essere etichettate come “pericolose”, vietando o comunque condizionando l’intero prodotto.

Le nuove proposte della Commissione Ue per la modifica del regolamento di Classificazione, Etichettatura e Imballaggio (Clp) prevedono l’introduzione di un’etichettatura informativa sui prodotti a disposizione dei consumatori, in cui siano valutati i composti molecolari. L’obiettivo, infatti, è dichiarare in modo esaustivo le sostanze chimiche utilizzate dall’industria cosmetica per ridurre o eliminare quelle che causano tumori, effetti sul sistema riproduttivo, o che colpiscono il sistema immunitario, neurologico o respiratorio e le sostanze chimiche tossiche per un organo specifico. 

Come non apprezzare le buone intenzioni di Bruxelles? Sulla scia del messaggio “Zero emission”, l’Ue si assume il nobile impegno del “toxic-free environment”. Tuttavia, la strada resta poco praticabile. Senza il supporto di alcuna ricerca scientifica infatti, il Clp rischia di mettere al bando prodotti contenenti olii essenziali, in quanto non più esaminati come uniche sostanze bensì come aggregati chimici. La classificazione di prodotti rischiosi per la salute verrebbe attribuita perché un elemento chimico è pericoloso in quanto tale, ma non a seguito di un rilevamento scientifico effettuato su un campione di consumatori. Burocrazia batte scienza uno a zero, quindi. Con un gol segnato dalla prima anche sull’economia.

Nel 2019, la filiera europea degli olii essenziali – in cui Francia e Italia sono protagoniste – ha registrato un fatturato complessivo di circa 2 miliardi di euro. Dopo la pandemia, che ha fatto da acceleratore alla transizione ecologica, il mercato è cresciuto al punto che se ne prevede un incremento fino a 4 miliardi già nel 2026. Stiamo parlando di un asset produttivo che coinvolge major del settore del calibro di Chanel, L’Oreal, L’Occitane – per citare le griffe più illustri – quanto piccoli produttori. Il bergamotto in Calabria, la lavanda in Provenza, l’olio di rosa in Romania e quello di limone in Spagna sono una fonte essenziale per la competitività delle imprese familiari di singoli territori. E mentre le grandi case della cosmesi hanno già pronto un piano B – ovvero tornare alle componenti sintetiche, quelle derivate dal petrolio. In barba alle politiche green europee – le Pmi rischiano di trovarsi costrette dichiarare sull’etichetta che la loro materia prima – fino a ieri la quintessenza del bio – oggi “nuoce gravemente alla salute”. Come le sigarette!

Le intenzioni sono buone se si reggono su soluzioni realistiche. Per questo bisogna perseverare nell’avere fiducia nei confronti dell’Ue. Una revisione del Cpl è auspicabile. Coinvolgendo gli esperti del settore, è essenziale promuovere una regolamentazione basata su dati scientifici accurati e valutazioni del rischio approfondite, al fine di garantire la sicurezza dei consumatori, senza compromettere l’industria e l’occupazione.

Raffaello Morelli                            Pietro Paganini

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