Diritto e tecnologie informatiche

Registrazione dell’intervento svolto da Raffaello Morelli nel dibattito sulla presentazione del libro “diritto e tecnologie informatiche” di Thomas Casadei e Stefano Pietropaoli tenutosi a Livorno, sala della Camera di Commercio, sabato 25 marzo 2023 mattina, organizzato da Circolo Giuseppe Emanuele Modigliani e Round Table.

I due interventi degli autori hanno illustrato in modo corretto, interessante ed approfondito il contenuto del loro libro. Peraltro desidero osservare che nei due  interventi dei due professori nessuno dei due ha mai citato tre parole, libertà, individualismo e diversità. E questo è una cosa espressiva, probabilmente non solo  del gusto personale ma anche del loro curriculum scolastico e del clima che c’è nella nostra società. Però  resta il fatto che tutto quello che hanno detto del diritto delle nuove tecnologie non è altro che un’estrinsecazione della circostanza che da ormai quasi quattro secoli si è cominciato a scoprire appunto la libertà e la diversità, e quindi  a capire che i vecchi concetti di tipo inizialmente religioso e poi all’epoca già ideologizzante, che cercavano una descrizione ferma, eternizzante e completa della realtà, non avevano senso. La realtà è basata dai cittadini, che sono tra loro differenti, e sul tempo che scorre. Se si adottasse il criterio del citare la libertà, l’individuo e la diversità, allora la sintesi sul diritto delle nuove tecnologie che in generale hanno esposto in modo corretto, non sarebbe altro che un’esplicazione di questa scoperta – che loro non richiamano – cioè appunto del fatto che il mondo è composto da individui liberi diversi al passar del tempo. E quindi che il cambiamento non è una cosa intenzionale – come era invece secondo la vecchia accezione della religione eterna o dell’ideologia poi dopo –  ma è la fisiologica modalità di funzionamento della vita sulla terra.

Quando  è stato fatto più volte in ultimo   l’esempio di Montesquieu quale precursore del giudice inteso come automa, si trascura che sotto tale profilo Montesquieu non era tanto un appartenente all’illuminismo quanto all’empirismo inglese. Lui citava il giudice come un automa ma riferito alla pretesa di quelli che volevano giudicare in base all’autorità della religione oppure, si pensi a Rousseau, di coloro che ideologizzano la realtà. Ma il criterio che voleva introdurre Montesquieu era quello del giudice che doveva rispondere non al potere ma alla norma. Norma data da chi?  Non dal potere, ma dai cittadini, cioè da individui liberi e diversi. Ciò è una questione essenziale.

Il richiamare queste tre parole ha una conseguenza ritmica molto importante e conferma tra l’altro quanto detto dai relatori sul diritto delle nuove tecnologie. Perché è chiaro che queste cose non si fermeranno mai. Ecco perché è completamente assurdo e – cosa ancor più grave parlando di questioni parascientifiche – contraddittorio, lo sperare che si arrivi ad una macchina che decide per tutti. Perché significherebbe non aver capito nulla.  Perché se il cardine del diritto della tecnologia è quello di seguire la realtà che cambia, l’idea che possa esistere un qualche strumento che la imbalsama e che quindi consente di prevedere il futuro in modo definitivo ed immutabile, è concettualmente assurdo. Poi, siccome siamo tutti sperimentali, diciamo assurdo per i prossimi due o trecento anni, perché in teoria potrebbe avvenire qualcosa. Ma prima deve avvenire qualcosa. Perché fino ad oggi, come sul sesso, i bambini nascono dall’unione di gameti maschili e femminili. Punto. Ma c’è chi dice: oggi esistono altri sistemi. Ma sono invenzioni intellettuali che hanno innescato tecnologie che riescono a fare la stessa cosa con sistemi diversi. Però non annullano il fatto che occorre l’unione dei gameti maschili e femminili. Dunque occorre dire che per altri due o trecento anni si resterò così, perché si sa che il tempo è inarrestabile, cambia, evolve, ma non rapidamente.

Rapidamente può evolvere il pensiero. Ma il pensiero, se vuole essere realista e legato ai fatti concreti, non può dimenticare che poi si applica ad una realtà che funziona in altro modo, e cioè è legata al tempo. Dunque, io sono d’accordissimo su quanto è stato detto a proposito della pedagogia informatica – anch’essa questione molto importante – nel senso che deve far richiamare che ogni  attività legata a libertà, individuo, diversità e passar del tempo, deve essere affrontata e risolta in modo coerente.

Ad esempio, le due colleghe avvocatesse hanno ricordato la disponibilità che oggi hanno gli studenti di certe tecnologie. E’ verissimo che la tecnologia ha due grandi vantaggi. Riesce ad accumulare una massa di dati in misura incommensurabile con quella nostra umana, e riesce a fare confronti  e fare delle scelte in tempi più immediati e velocissimi. Però ha anche delle contraddizioni. Perché è pur vero (come segnalò venti anni fa, all’inizio non aveva capito ma in seguito scrisse cose importantissime Umberto Eco), la gente che segue google o simili è dimostrato scientificamente che esercita meno la memoria, e che ha perso il senso del dover ricercare.

Quindi la pedagogia informatica deve insistere sul fatto che le tecnologie informatiche vanno seguite e adottate perché costituiscono un grandissimo aiuto alla capacità umana del riflettere, del pensare, dell’avere a disposizione dati, ma che mantengono delle grandi contraddizioni. In una parola, il diritto delle tecnologie informatiche non deve mai dimenticare che lo sviluppo umano è basato su una cosa, al fondo. Sull’esercizio del proprio senso critico. E’ il motivo per cui sono profondamente convinto – anche se è bene attender altre centinaia di anni per l’osservazione sperimentale – che non si potrà mai sostituire l’intelligenza umana con una macchina. Perché è assurdo e concettualmente contraddittorio con le tre parole sperimentate. Mentre tutto quanto è avvenuto negli ultimi quasi oramai quattrocento anni è sempre uno sviluppo che a passo a passo da ai singoli cittadini strumenti sempre maggiori per esercitare le proprie singole irripetibili qualità di capire il reale e di trovare nuovi metodi per viverlo. Perché la tecnologia fornisce degli strumenti di vita  che già noi, quando eravamo giovani, non avevamo. Quindi la tecnologia deve cogliere che bisogna fare questo sforzo per usarne le caratteristiche e non ripete gli errori che per qualche millennio abbiamo compiuto.

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Sull’epoca Schlein

Dopo le elezioni del 2018 e quelle del 2022, anche un test più circoscritto quale le primarie del PD, ha per la terza volta consecutiva confermato che gli elettori non sopportano più di venir governati da chi si mantiene lontano dalle loro necessità ed indicazioni. Perché è certo che Elly Schlein è l’immagine plastica del cambiamento. Non appartiene alla consolidata nomenclatura del PD nato dalla fusione tra l’antica tradizione della sinistra di classe e i cattolici della margherita, anzi si è iscritta al PD solo per fare le primarie; ha più cittadinanze; è di religione israelita; è una donna dell’alta borghesia; vive di persona il diritto alla diversità sessuale; intende alzare le retribuzioni minime, rappresentare chi dispone di meno risorse e tassare meno il lavoro;  vuol porre al centro della politica la questione del clima e proseguire lo stop al nucleare. 

La Schlein ha seppellito definitivamente l’epoca di Renzi che  nel PD non pochi facevano sopravvivere (e basta questo per sottoporre la sua segreteria a non lievi tensioni con molti nostalgici pure in Toscana). E poi  fa intendere che rivedrà l’ostracismo verso  il M5S.  In sintesi vuol riposizionare il PD su un’opposizione al governo più sui fatti di una linea politica netta, che non sullo schieramento parolaio nostalgico del potere.

Il terremoto indotto dentro e fuori il PD, dovrà tradursi in atti concreti e coerenti con quanto dichiara la neo Segretaria. Già fra meno di due mesi ci saranno delle amministrative in 800 comuni; ma il primo vero banco di  prova sarà tra quindici mesi alle elezioni europee. Sarà lì che si misurerà   il gruppo dirigente tutto rinnovato. Pure è certo che sul tavolo ci sono fin da ora molti nodi che non potranno essere elusi. 

Quello più aggrovigliato è senza dubbio la crisi Ucraina, tema che la Schlein ha fin qui eluso. Un tema che solleva per lo meno due interrogativi. Uno è se il PD della Schlein proseguirà la linea del PD di Letta, filo NATO senza sbavature e riflessioni critiche, che oltretutto non consente distinzioni rispetto al Presidente del Consiglio. L’altro interrogativo è come il PD della Schlein si porrà qualora, alla scadenza della Segreteria NATO nelle prossime settimane, venisse fuori la candidatura di Enrico Letta, sulla carta dotato del curriculum adatto per aspirare alla carica. Una candidatura certo migliore della precedente fautrice della guerra, ma di sicuro ingombrante per le implicazioni del ruolo sul nuovo PD.   

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Cronologia del Liberalismo – Cap.3 , da 3.10 a 3.10 a4

Sesta parte del testo CRONOLOGIA ESSENZIALE DEL LIBERALISMO

3.10 – Gli ultimi decenni dell’800 in Europa. 3.10 a) Tendenze autoritarie e tendenze liberali. Nel periodo si confermò la divisione europea in due modelli istituzionali e due aree geografiche. Nella parte ad est della linea coste adriatiche (esclusa la Grecia) e poi arco di cerchio dal golfo di Trieste al Mar del Nord (Emden, Frisia Orientale) – esclusi Danimarca e Paesi Scandinavi, che furono regimi  abbastanza aperti – perdurò  il dominio  di quattro imperi (da sud, quello ottomano, quello austriaco, quello germanico e quello russo più ad est), tutti regimi imperiali autoritari in vario grado, nei quali i cittadini erano semplici sudditi,  talvolta meri servi della gleba. Nella parte più occidentale, si espanse il sistema imperniato sulla libertà di ogni cittadino e sulla centralità del parlamento, insieme con un clima liberale favorevole all’economia privata, anche in competizione   con l’irrobustirsi socialista.  

3.10 a1)  Tendenze autoritarie: l’Impero Ottomano. Durante l’800, l’Impero Ottomano restò molto esteso, in Europa (dai Balcani al Mar Nero, eccetto la Grecia, indipendente nel ‘29), ed anche in tutta l’Asia Minore, in buona parte della penisola Arabica, nell’intera Africa mediterranea (le ultime due perdute via via a favore della Francia e soprattutto dell’Inghilterra), ma rimase spettatore. Nella seconda metà ‘800, l’Impero Ottomano acuì la frammentazione e l’autonomia economica dei territori in Europa, a cominciare dai Balcani, spinti dall’occidente e dalla Russia, che li voleva indipendenti da Istanbul. Ci furono forti fenomeni di spostamento delle diverse etnie tra varie province Ottomane e la Russia, fonte di rimescolii che  resero l’Impero Ottomano sempre più turco e musulmano. Così il sultano Abdul Hamid il Grande lo unificò introducendo il panislamismo, l’identità religiosa islamica. Dunque in una direzione opposta a quella liberale di progressiva separazione tra religione e convivenza dei cittadini. Con le ovvie conseguenze in termini di libertà civile individuale.

3.10 a2) Tendenze autoritarie: l’Impero austriaco. Era nato nel 1804, per conservare la tradizione asburgica, vecchia di secoli, a difesa della fede cattolica e dedita a criteri di costante modernizzazione. Dopo il Congresso di Vienna, l’Impero austriaco degli Asburgo era stato un protagonista della restaurazione e si era opposto alle riforme della cultura liberale e all’emancipazione delle nazionalità  territoriali. Dal 1848 sul trono era Francesco Giuseppe (ci resterà fino alla prima Guerra Mondiale), che concluse la repressione dei moti rivoluzionari di quell’anno, nel 1855 stipulò un Concordato con la Santa Sede (elargendo privilegi che dettero all’Impero un’impronta confessionale) e dopo subì la reazione degli ambienti liberali , accettando nei primi anni ‘60 di rimetterlo in discussione, pur senza soddisfare le richieste di Pio IX. In ogni caso, l’azione di Francesco Giuseppe traballava all’interno e a livello internazionale, al punto da non poter evitare di essere sconfitto in Piemonte e nei domini italiani e in seguito dalla Prussia (Sadowa 1866), la quale riuscì ad imporre la propria egemonia sul mondo germanico. 

Allora Francesco Giuseppe decise di trovare un compromesso tra la monarchia asburgica e la nobiltà ungherese. Nel 1867  riformò la costituzione, creando l’Impero austro ungarico, con 12 differenti etnie, con un solo sovrano e  due regni distinti dotati di costituzioni e organi separati ( in comune politica estera economica e militare). L’Impero  austro ungarico applicò l’espansionismo verso l’area balcanica della Bosnia Erzegovina (che si trovava nell’Impero Ottomano). E per evitare il conflitto in tale area con la Russia, stipulò un’alleanza con l’Impero  Germanico (la Duplice Alleanza)   per una mutua assistenza in caso di attacco russo. Duplice Alleanza che tre anni dopo si trasformò in Triplice Alleanza con l’adesione dell’Italia. Nel complesso, a fine 800, l’Impero Austro ungarico non curò le spinte disgregatrici della propria   multietnia e svolse una fitta attività di contatti con gli  Stati europei nella prospettiva di accrescere la potenza statale, impegnata in attività economiche. Quindi, all’interno dei singoli stati, restò in coda l’interesse per le problematiche politiche dello sviluppare i rapporti di libera convivenza civile.

3.10 a3) Tendenze autoritarie: l’Impero Germanico. Per tre decine di stati tedeschi, fu lo sbocco della spinta unificatrice concepita nei primi ‘800  per opporsi a Napoleone. Fallita con la rivoluzione del ‘48 l’opzione di una unificazione dal basso, si giunse ad una unificazione dall’alto promossa dal primo ministro prussiano, lo Junker Otto von Bismark –antiliberale dichiarato –, che prima fece raggiungere alla Prussia l’egemonia sugli stati tedeschi emarginando passo passo l’Austria e poi ricorse al radicato odio antifrancese per far guerra alla Francia, sconfiggendola nel 1870 a Sedan e  stringendo Parigi sotto assedio. L’Impero Germanico  fu proclamato (anche remunerando alcuni Stati tedeschi restii a cedere indipendenza) all’inizio ‘71, nel Salone di Versailles (una umiliazione voluta). Venne concepito formalmente  quale monarchia costituzionale, in cui il Parlamento veniva eletto e il legiferare richiedeva anche  il voto del Consiglio degli Stati, in cui la Prussia, in quanto più estesa e con più cittadini, aveva più membri. Esisteva una serie di parlamenti locali nei vari Stati tedeschi. La nomina del Cancelliere spettava all’Imperatore e il potere di fare leggi spettava solo al Parlamento.

Peraltro il clima dominante nell’Impero Germanico fu un autoritarismo ampio, che riconosceva  una sostanziale  fetta di potere all’élite terriera, appunto gli Junker. Fino al 1890 Bismarck diresse con mano fermissima  l’Impero – che era parlamentare ai limiti del formale – svolgendo una politica  ed un’azione economica guidate dall’alto, che fecero emergere uno stato potente, capace di  produzione industriale molto robusta, soprattutto nei settori del carbone, del ferro, della chimica, e servito da una vasta rete ferroviaria. Lo accompagnavano consistenti politiche di tipo sociale. Il dibattito veniva incanalato nel solco dell’interesse dello Stato  tracciato dal Cancelliere. 

Questa era una priorità per Bismarck. Che lo induceva a proseguire il contrasto con la Chiesa Cattolica per riaffermare la libertà dei convincimenti individuali e religiosi. Non solo nella Prussia, paese largamente protestante, ma anche nella Baviera, paese largamente cattolico. Era la battaglia di civiltà – poi definita Kulturkampf da un esponente del partito liberale al Reichstag – per assecondare lo sviluppo delle scienze umane e difendere così lo stato, assicurandogli la direzione delle questioni terrene. Tale battaglia proseguì per un ventennio (non solo in Prussia, ma in tutta la mitteleuropa), finché nel 1878, dopo la morte di Pio IX accanito sostenitore dell’indirizzo più antiliberale nei rapporti con gli Stati, il successore  Leone XIII iniziò un’azione diplomatica di avvicinamento che , nel giro di quasi nove anni, ristabilì rapporti distesi con l’Impero Germanico (accettandone però l’assunto decisivo, cioè che la fonte del diritto era la legge e non il diritto canonico).

A parte la Kulturkampf, affine all’impostazione liberale, l’Impero Germanico fu incline ad adottare norme restrittive sul diritto di associazione. Ebbe un costante scontro con  i due movimenti fautori di politiche socialiste, che si unificarono nel 1875 nel Partito Socialista dei Lavoratori di Germania, il quale rivendicava la proprietà pubblica dell’ azienda, la regolamentazione cooperativa e l’ equa distribuzione del rendimento del lavoro (tuttavia il programma del nuovo partito venne apertamente criticato da Marx).  La situazione precipitò in poche settimane nella primavera 1878, quando due diversi iscritti socialisti compirono due successivi attentati al Kaiser. Il Cancelliere reagì riuscendo a far approvare dalle Camere la Legge contro le mire socialmente pericolose della Socialdemocrazia, la quale autorizzava il Governo a vietare le associazioni in partiti, le riunioni politiche, pubblicare giornali, raccogliere fondi. Questa legge, evidentemente autoritaria e prorogata periodicamente dalle Camere, restò in vigore per circa dodici anni, nel mentre Bismarck promoveva una legislazione sociale parecchio avanzata (ad esempio l’assicurazione obbligatoria). Insomma, fu solo un anno e mezzo dopo l’arrivo sul trono di Guglielmo II – già prima in pessimi rapporti con Bismarck – che la legge contro la Socialdemocrazia non fu più prorogata.

Guglielmo II, quasi trentenne, iniziò con un proclama in cui dichiarava di regnare per volere di Dio. E avviò il governo sfruttando le preesistenti condizioni favorevoli in campo economico (che gli consentirono anche l’attenzione ai problemi sociali), in campo militare e manifestando subito l’intento di porsi al centro dell’attenzione dell’intera Europa, attraverso un frenetico viaggiare in tutte le grandi capitali ed una politica estera non poco ondeggiante, assai differente da quella di Bismarck.  Guglielmo II resterà Imperatore fino all’abdicazione nel 1918.  

3.10 a4) Tendenze autoritarie: l’Impero Russo.  Questo Stato, assai considerato in Europa per il ruolo decisivo contro Napoleone,  all’epoca di zar Nicola I era diviso tra i filo liberali fautori del valorizzare i cittadini e i sostenitori del ritorno al tradizionalismo della vecchia comunità russa. (oltre gli  anarchici fautori di trasformazioni profonde).  La politica di Nicola I fu difendere lo stato  dalle idee politiche minacciose, mediante l’accentramento, l’intervento diretto nel governo e l’appoggio alla burocrazia. Nel complesso, una linea che, pur non ostacolando la crescita economica e culturale della Russia, irrigidì le tensioni esistenti e fu  conservatrice in modo dichiarato, un esempio di dispotismo illuminato.  E finì per inimicarsi diverse potenze europee (Inghilterra, Turchia, Francia), avventurandosi nella guerra di Crimea (cui prese parte anche il Regno di Sardegna) nella quale subì una grave sconfitta. 

Nel 1855 il successore, lo zar Alessandro II, decise di avviare una politica riformistica di ampio raggio per evitare ribellioni. Così, nel 1861,  giunse ad abolire la servitù della gleba ,  toccando oltre venti milioni di  poverissimi in condizioni di effettiva schiavitù. Fu un atto di gran rilievo, e anche di raziocinio: pose fine al monopolio aristocratico delle proprietà terriere senza depredarle, visto che i contadini non più servi erano soggetti ad una tassa vitalizia che lo Stato avrebbe utilizzato per rifondere i vecchi proprietari. Eppure questo atto, in sé lungimirante, venne compiuto prescindendo dalla cultura coerente col togliere il monopolio, cioè dalla libertà individuale e dalla libera iniziativa economica. Così abolire la servitù della gleba non servì ad attivare un’imprenditoria dei piccoli proprietari e non risolse  il problema agricolo. In parallelo, l’industria si sviluppò non per mano di imprenditori russi bensì con i capitali dello Stato e degli stranieri. La mancata soluzione di problemi strutturali incentivò il ribollire di tensioni con gli studenti e in generale con la cittadinanza, che non esplosero al momento, anche perché gli anarchici teorizzavano la rivoluzione come unica strada del cambiamento sociale. Inoltre lo zar Alessandro II dedicò le sue attenzioni soprattutto alla politica estera (in chiave filo germanica), tanto che in quell’epoca l’Impero si estese parecchio. 

A partire da fine anni ’60, iniziò e crebbe alla svelta l’influenza  del giurista Pobedonoscev, che fu prima istitutore del figlio dello zar e dopo anche consigliere ascoltato del padre. Pobedonoscev era per l’assolutismo autocratico e dunque conservatore e nazionalista, incline all’intolleranza verso tutte le minoranze etniche, accanito difensore della Chiesa Ortodossa e sprezzante del parlamento. La diffusa antipatia popolare verso un simile consigliere (e uomo di governo) si riflesse anche  sullo zar Alessandro II, che subì vari attentati e cadde vittima dei terroristi (1881). 

Il figlio, zar Alessandro III, applicò in pieno gli insegnamenti di Pobedonoscev,  vale a  dire un immobilismo conservatore diretto a russificare le nazionalità un po’ miste, a restringere le autonomie, anche aumentando l’ammontare di proprietà per avere diritto di voto. Approfittando della spinta della seconda rivoluzione industriale, proseguì un robusto processo economico, seppur circoscritto a poche zone. In politica estera, covava una diffidenza per la Germania. Eppure sottoscrisse l’Alleanza dei tre imperatori con l’Impero Germanico e quello Austro-Ungarico (frenandola negli ultimi anni del regno). Per il resto  Alessandro III estese i territori dell’Asia Centrale in mano russa (costruendo pure una ferrovia dal  Caspio a Samarcanda) e tessè intricati rapporti attorno alla parte di Bulgaria ereditata dal padre (frutto della guerra agli ottomani), con l’Impero Germanico e poi man mano con la Francia, con cui si alleò negli ultimi anni del suo regno. Alessandro III morì in pochi mesi a quasi 50 anni, nel 1894, e divenne zar  suo figlio Nicola II, che lo restò fino alla rivoluzione di oltre venti anni dopo.  Come il padre , Nicola II fu un autocrate, però assai meno capace. All’inizio sfruttò l’esistente politica di industrializzazione e di potenziamento delle ferrovie, ma non riuscì a far superare al paese la povertà di fondo. In simili condizioni divenne naturale l’aumento della sua lontananza dai cittadini. E contro il suo conservatorismo cortigiano  cominciarono ad aggregarsi varie formazioni politiche: quelle liberali ed imprenditoriali e soprattutto quelle  dell’area rivoluzionaria e socialista.  In quest’area, il massimo teorico fu Plechanov, avversario degli anarchici, del terrorismo, del socialismo agrario, sostenitore dello spingere la Russia, al pari degli altri Imperi, verso il capitalismo , che avrebbe portato al proletariato, necessario substrato di un movimento rivoluzionario. Sulla scia di un partito da lui fondato anni prima, nel 1898 nacque a Minsk il Partito operaio socialdemocratico, in cui emersero personaggi di primo piano, a cominciare da quelli noti con gli pseudomini di Lenin (che colse i limiti dello spontaneismo anarchico ma non arrivò mai all’impostazione rappresentativa di tipo liberale) e di Trockij, in seguito protagonisti  assoluti della Rivoluzione di Ottobre.

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Multipolarismo (a Danilo Taino)

Da Raffaello Morelli a Danilo Taino, giovedì 23 febbraio , ore 19,55

La ringrazio ancora per il pacato e cortese confronto. Il punto della nostra diversità sta appunto sulla questione dell’aggressività di Russia e Cina. Che io, dandola per scontata in quanto autocrazie, ritengo vada affrontata con la libertà dello scambio e del confronto e non agevolandola. Qui è la radice di quella che io chiamo la malattia dell’Occidente.

Con stima analoga

RM

Da Danilo Taino a Raffaello Morelli, giovedì 23 febbraio. ore 16,59

Ho in effetti visto che sull’edizione online c’è ahimè stata una correzione in “multipolare”, ha ragione: sull’originale, che è sul giornale di carta di oggi a pagina 35, c’è correttamente quello che avevo scritto io, “più polarità”. Pazienza.

Per il resto, credo di avere una lettura diversa dalla sua, caro presidente, sull’aggressività della Russia e anche della Cina.

Penso anche che l’Europa sia andata a sbattere proprio perché ha sottovalutato la crescita delle potenze autocratiche. 

Ma so bene che la sua analisi è certamente diversa.

Con stima

dt

Da Raffaello Morelli a Danilo Taino, giovedì 23 febbraio 2023 ore 10,55

Caro Taino,


La ringrazio per la pronta risposta. Detto ciò, Innanzitutto  premetto che il Suo testo sul Corriere riporta proprio “multipolare” (termine che ho usato senza riferirmi al linguaggio di Russia e Cina). Per il resto, intendo dire che tutti i liberali sanno che Russia e Cina sono delle autocrazie le quali, da sole, farebbero sfracelli. Però il punto è che la libertà (e l’Occidente che ne è il massimo sostenitore) non può mettersi sul loro stesso piano. Invece quello che ha fatto la NATO da un decennio in Ucraina non poteva che suscitare la reazione russa che alla fine è venuta.Non a caso Macron continua a dire che la Russia va sconfitta ma non annullata. La priorità dei liberali (e quindi dell’Occidente) non che è essere diffondere la libertà. Ma l’esperienza storica mostra in modo inequivoco che il solo veicolo coerente per tale diffusione è lo scambio di idee  tra persone, e non perseguire il mondo unipolare o bipolare. Un caro saluto. RM

Da Danilo Taino a Raffaello Morelli giovedì 23 febbraio ore 10,20

Buongiorno caro presidente, grazie del messaggio.

In realtà non ho scritto “multipolare” ma “a più polarità”: immagino sia la stessa cosa ma non volevo usare lo stesso linguaggio che proprio in questi giorni hanno usato Russia e Cina.

Il fatto è che, francamente, penso che la minaccia maggiore alla libertà, in questo momento, venga da Russia e Cina, le quali, se si affermassero nei loro obiettivi, farebbero sfracello delle nostre libertà, di espressione, di proprietà, di movimento e del diritto.

Certo che anche da noi ci sono i conservatori retrivi: ma nelle nostre democrazie quelli si possono battere su un terreno ben diverso rispetto a quello sul quale stanno portando la questione Mosca e Pechino.

Non so: penso che in certi passaggi storici sia importante darsi delle priorità. Personalmente sono angosciato al pensiero di un mondo dove le regole le fanno gli autocrati.

Un caro saluto

dt

Da Raffaello Morelli a Danilo Taino giovedì 23 febbraio 2023 ore 9,55

Caro Taino,

Nel Suo articolo di stamani, Lei scrive assai giustamente che “Paesi come India, Turchia, Brasile, Sudafrica, Indonesia e molti altri segnalano però all’Occidente che il mondo non può più essere unipolare o bipolare ma multipolare”.  Che il mondo sia multipolare lo segnala da molto tempo la concezione della libertà, che si fonda sulla diversità e sullo scambio considerati motore del cambiamento e dello sviluppo. Questa concezione viene vanificata dalla politica condotta almeno da un decennio dalla Nato in Ucraina e oggi sostenuta dai conservatori più retrivi conseguenti con i loro pregiudizi illiberali. Nel suo discorso a Varsavia, il povero Biden non si è reso conto di contraddirsi  sostenendo che tutto il mondo è contro Putin: di fatti le sanzioni a Mosca dell’occidente sono adottate da meno del 40% dei popoli e degli Stati. Speriamo che l’Occidente sappia ricuperare prima possibile il senso della diversità e della multipolarità che costituiscono la sua ragion d’essere.

I migliori saluti

Raffaello Morelli 

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Sulla diminuzione dei votanti (a Luca Ricolfi)

Caro Ricolfi,

La leggo costantemente da un trentennio, da quando faceste sorgere la Fondazione Hume insieme al mio caro amico Piero Ostellino. E in generale La apprezzo per il Suo modo di ragionare legato ai fatti concreti e per le Sue valutazioni realistiche. Non giudico invece realistica la valutazione svolta stamani nel Suo articolo sulle ragioni della diminuzione dei votanti.

Tale diminuzione non è un prodotto della rinuncia alla fatica della lotta politica da Lei richiamata. Consegue ad una maturazione civile che ha rivisto l’originaria lettura dell’impostazione costituzionale del voto quale dovere civile – e non solo come diritto – avanzando nella direzione della società brulicante di cittadini individui e di nodi a soluzione multipla cangianti nel tempo (in pratica applicando la sentenza della Corte Costituzionale 173/2005 da Lei richiamata). Si tratta di una direzione che non configge con l’idea che il progresso sociale ed individuale ha costi elevati, ma che esprime la convinzione secondo cui “la lotta politica e sindacale, la mobilitazione dei movimenti collettivi” non esauriscono il meccanismo della partecipazione in quanto funzionano ormai in chiave elitaria, distaccata di proposito dai cittadini, specie nell’accezione individuale.

In un quadro del genere, la partecipazione diviene incapace per natura (perché soggetta all’autorità di chi governa e non per mancare della capacità di scaldare i cuori) di essere protagonista nel fare le scelte nella convivenza. Dunque, il non voto è il rifiuto di un modo di governare elitario, che non può essere attratto dai partiti che ripropongono la solita minestra dell’affidatevi a noi saggi depositari del vostro bene comune.

E per questo medesimo motivo, non è un correttivo il rimpiangere i movimenti collettivi che a Suo avviso erano protagonisti del cambiamento prima in essere. Perché tutto ciò che è collettivo è al fondo elitario, dipendendo in sostanza (necessariamente) da una qualche autorità. Quello che pesa è l’ampliarsi dello spirito critico individuale, che propone soluzioni operative ai problemi nell’ottica della libertà (vedi gli anni delle maggioranze parlamentari sul divorzio e sull’interruzione volontaria di gravidanza, non rievocabili con lo slogan irrealistico dei gloriosi anni del referendum) da giudicare sulla scorta dei risultati ottenuti e non dei diritti sbandierati. Qui nascono le radici delle istituzioni non dominate dalle elites, che poi agevolano il concreto cambiamento nel tempo.

Aggiungo che in un clima simile, il prevalere della destra consegue il suo dare l’impressione di essere meno impositiva ed elitaria nell’ottica dell’immediato. A mio parere è un’impressione errata , ma prevarrà fintanto che la destra non avrà un’opposizione in grado di lavorare politicamente in modo coerente.

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Seguito di “Quale è la prospettiva?”

Da Raffaello Morelli a Giovanni Orsina il 9 febbraio

Caro Orsina,

Ti ringrazio della cortese risposta, che mi ha permesso di capire cosa intendi e,in conseguenza, di sviluppare un’altra osservazione.

La quale è rafforzata dal Tuo parere secondo cui  l’aria da cittadella assediata non è soltanto frutto degli allarmi sul fascismo alle porte. Nel senso che allora resta confermato come sia del tutto insufficiente il genere di opposizione fatta al Governo, la cui cultura d’origine è quella che evochi. Qui sta il nodo. La scelta elettorale non equivale ad un concorso di bellezza tra diverse ragazze, corrisponde al giudizio dei cittadini sull’esperienza di governo di chi è venuto prima. Dunque il primo fatto di cui tener conto è che gli italiani hanno  dimostrato due volte, nel 2018 e nel 2022, di volere mettere da parte il modo di governare quanto meno del decennio antecedente, lontano dai cittadini. Oggi, il punto essenziale è il cambiamento che il nuovo Governo è in grado di attivare affrontando i temi che ho messo insieme e che Tu hai ripreso. Stando così le cose, pesano gli atti di Governo e non i pregiudizi  per la vittoria della destra (e la conseguente disperazione di chi si credeva un predestinato). E quindi neppure l’interrogarsi eccessivo sulla cultura della destra (che ormai è al Governo e ci resterà non solo per qualche mese). 

Di conseguenza, rimanendo all’elenco da noi fatto, sulla giustizia mi pare chiaro che la linea è quella di Nordio , scelto fin dal momento di fare le liste, di certo non forcaiolo, con ampio riscontro tra i cittadini e che rappresenta una innovazione robusta. Direi che sul punto è difficile avere incertezze, non perché anche alcuni settori della destra non siano forcaioli, ma perché gli intenti dei cittadini vanno in direzione opposta a quella della sinistra. Sull’autonomia differenziate, sono certe le divisioni nella maggioranza, ma il punto è che diminuire il centralismo dello Stato corrisponde di nuovo ad un’esigenza sentita. E del resto, le sfide tra direzione complessiva nazionale e iniziative diffuse sul territorio sono la fisiologica natura della società libera. E’ irrealistico volere l’immobilismo per celebrare la costituzione già più bella rinnegandone lo spirito. Quanto poi ai rapporti con l’UE, e in specie i migranti e i fondi comuni, mi pare che l’andamento del Consiglio Europeo in corso, presenti tutti i suoi limiti e difficoltà ma non si contraddistingua per valorizzare le impostazioni degli assi preferenziali macronisti che escludano l’Italia. 

Insomma, le questioni indefinite sono nel complesso molte, ma lo sono non a causa della natura del governo (almeno per ora), ma perché sul tappeto si sono accumulati negli anni diversi problemi lasciati marcire e le elezioni di settembre non hanno contrapposto programmi definiti. In tale quadro, evocare di continuo l’inaffidabilità del Governo dei cento giorni, non ha un vero senso e rischia di trasformarsi da rimprovero critico in un aiuto al Governo per eccesso di pregiudizio. 

In conclusione, il Presidente  Meloni si può benissimo ritrovare fra qualche tempo con tanta polvere sollevata e pochi risultati ottenuti, ma intanto continuare ad evitare discussioni serie sulle cose concrete e contribuire a lisciare la disperata reazione negazionista dei defenestrati, può agevolarlo contrariamente a quanto si vorrebbe.

Vive cordialità
Raffaello

Risposta mail di Raffaello Morelli a Giovanni Orsina del giorno 7 febbraio 2023

Caro Morelli,

non credo che l’aria da cittadella assediata sia soltanto frutto degli allarmi sul fascismo alle porte. Pesa anche la forma mentis di una cultura che per decenni è stata minoritaria e ghettizzata e fatica a trasformarsi in cultura di governo. Credo che questo danneggi il governo Meloni. Sul tavolo ci sono tanti temi, hai ragione, ma anche tanta confusione. Riprendo il tuo elenco:
– giustizia connessa anche al rispetto della pena: non si capisce se il governo voglia seguire una linea Nordio o una “forcaiola”
– autonomia differenziata: la maggioranza pare profondamente divisa;
– impegni europei su migranti e finanziamento fondi comuni: molto dipenderà, appunto, dall’Europa, che non pare avere grande intenzione di fare nulla né su un terreno né sull’altro;
– accenni a riforme pensionistiche, revisione reddito di cittadinanza: vediamo che cosa ne esce.
Insomma, mi pare che l’identità politica di questo governo resti ancora piuttosto indefinita, e che Meloni rischi di trovarsi fra qualche tempo con tanta polvere sollevata e pochi risultati ottenuti. Dopodiché, lo spirito liberale latita non poco, questo è sicuro.

Grazie a te!

Giovanni

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Sulla crisi dell’Occidente

Mi dispiace ma non posso esimermi dal sottolineare che il pezzo di Mauro della Porta Rafffo sulla crisi dell’Occidente , contiene un grave errore concettuale.

Sta nell’accettare in modo pressoché acritico la tesi di Huntington secondo cui “l’Occidente non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata (il potere militare)”. A parte l’uso del concetto di conquista che adotta in partenza la concezione militare da comprovare, il dato di fatto che è che la capacità espansiva dell’Occidente deriva dal seguire il sistema della libertà e quindi della diversità individuale, che secoli di applicazioni hanno dimostrato essere quello di gran lunga più efficace nel migliorare le condizioni di vita dei conviventi (il alternativa al ricorrere alla forza militare).

Il sistema della libertà si fonda nel medesimo Stato sullo scambio di idee e merci e sul conflitto secondo le regole prescelte dai cittadini, tra le varie proposte avanzate dai singoli rispetto ai problemi sul tappeto in base a valutazioni e dubbi (lasciando ai risultati indotti il ruolo della decisione). A livello di stati differenti resta comunque fermo il criterio di favorire lo scambio anche al di là delle alleanze. Da ciò consegue, che occorre dare tempo alla libertà perché possa maturare in ogni luogo e che è contraddittorio nel profondo pretendere di diffondere la democrazia , in specie con la forza, in quanto contraddice il maturare della libertà imponendolo. E che è non meno contraddittorio dare alla libertà una veste imperiale di destino manifesto, la quale nega in sé l’idea di scambio specie individuale.

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Quale è la prospettiva ?

Caro Orsina,

Prescindendo dal titolo del Tuo articolo odierno “Perché la Premier sta sbagliando” – che non mi pare corrisponda al Tuo testo ma si sa che del titolo non sei l’autore  – Ti scrivo perché non mi è del tutto  chiaro quanto intendi sostenere con il tuo ragionamento. 

Mi riferisco alla sostanza del pezzo, vale a dire alla seconda riflessione. In primo luogo, la palese aria da cittadella assediata intorno al governo Meloni, mi pare lo riconosca apertamente  tu stesso, è frutto dei ridicoli e patetici allarmi sul fascismo alle porte. E siccome sembra che a simili allarmi la sinistra tradizionale non sia in grado di rinunciare (essenzialmente per nascondere che non vuole  accettare il rifiuto di  un’amplissima fetta di italiani del suo modo di concepire il governare distante dai cittadini in nome di un presunto bene comune fatto di privilegi dei governanti), il Presidente del Consiglio ha fiutato il vento favorevole e lo usa per gonfiare le proprie vele. Che sono quelle del dare al paese un indirizzo del tutto diverso nel governare e ancor più nel concepire il rapporto tra istituzioni e cittadini. E per questa via introdurre le sue concezioni di destra, legittime ma  anch’esse inadatte a risolvere le sfide della modernità, in specie tecnologica.

Mi sfugge perciò cosa tu intenda quando inviti il Presidente a mettere sul terreno quattro o cinque progetti politici, nel senso che sul tavolo già ci sono temi di gran rilievo nell’ottica meloniana (tanto per dire, giustizia connessa anche al rispetto della pena, autonomia differenziata, impegni europei su migranti e finanziamento fondi comuni, accenni a riforme pensionistiche, revisione reddito di cittadinanza). Semmai la questione politica più incombente è che sugli stessi temi non siano percepibili soluzioni corrispondenti allo spirito liberale che sarebbe indispensabile (iniziando dall’incrementare l’attenzione alle scelte dei cittadini più che alle elites burocratiche) per far svolgere alle istituzioni italiane il loro  indispensabile ruolo.

Avresti tempo e voglia di chiarirmi il Tuo punto di vista?  Grazie

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Il nuovo progetto di autonomia (lettera a Maurizio Ferrera)

Caro Guerrera,

Desidero esprimerLe il mio forte apprezzamento per  il Suo articolo sul Corriere di ieri, nel quale ha trattato la questione dell’autonomia ora proposta in termini realistici e costruttivi , e quindi del tutto difformi dal dibattito distorto ed ideologizzato che si va facendo da mesi. 

A cominciare dalle prime due righe, in cui ha sintetizzato con notevole efficacia il nodo della sfida cui devono sempre far fronte le società che vogliano coltivare  rapporti di convivenza liberali. Ma anche per il modo concreto di sviluppare gli argomenti relativi agli impegni da risolvere in una prospettiva coerente con gli obiettivi, il che vuol dire duttile come si conviene ad istituzioni riferite agli esseri umani conviventi. E soprattutto per il clima complessivo dell’articolo, teso a dare attenzione ai nodi via via da sciogliere, in una prospettiva aperta sempre da definire in un’ottica di libertà, imperniata sulla diversità individuale e su uguali diritti civili.

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Polemica fuori luogo

Articolo scritto per la rivista bimestrale NON CREDO

Nell’ultima settimana di gennaio,  Papa Francesco ha rilasciato all’Associated Press un’intervista sul tema omosessualità, che ha innescato diffuse polemiche all’interno e all’esterno della Chiesa. Qui osservo che dal punto di vista laico liberale non sono queste polemiche a dover interessare, bensì (ormai è tempo) la riflessione da farsi riguardo al modo di affrontare problemi simili.

Papa Francesco definisce ingiuste le leggi che criminalizzano l’omosessualità.  “L’omosessualità non è un crimine  ma una condizione umana”. E siccome Dio ama tutti i suoi figli come sono, il Papa formula l’auspicio che i vescovi cattolici accolgano le persone Lgbtq nella Chiesa, facendo un processo di conversione ed usando la tenerezza di Dio per ciascuno di noi. Tali considerazioni, precisa,  non toccano il fatto che l’omosessualità sia un peccato. Non solo nel senso che in ogni caso un peccato va distinto da un crimine, ma soprattutto perché è un peccato anche mancare di carità gli uni con gli altri. 

Affermazioni del genere hanno suscitato moltissimi commenti, plaudenti o scandalizzati, sia negli ambienti cattolici che in quelli non. Da una parte sono state ritenute una assoluta novità dottrinale rispetto ai predecessori, capace di dipanarsi ulteriormente nel rispetto dei tempi della mentalità ecclesiastica. Dall’altra, da un punto di vista contrapposto ma proprio per logica analoga , sono bollate come il venir meno di una tradizione clericale del concepire la religione.

Affrontando le polemiche con un simile taglio, si elude l’insegnamento civile più profondo maturato nel tempo. Insomma non ci si allontana dalle epoche del contrasto tra il papa e l’imperatore, o quanto meno dal 2012 quando il Cardinale Martini affermò che la Chiesa ha un ritardo culturale di 200 anni. Nella sostanza si ritiene possibile ancora paragonare il gestire le istituzioni tramite  il voto dei cittadini, al farlo tramite uno strumento religioso. Ma in base all’esperienza è un paragone ormai improponibile. 

La libertà degli umani dipende dagli strumenti che si è data. Vale a dire  dall’aver continuato ad allargare la loro possibilità di scelta circa i criteri del convivere e dall’averla connessa all’accettare in partenza l’ineluttabilità della determinante e variegata diversità individuale. E’ la coppia libertà diversità individuali che ha dissolto il nodo del contrasto tra il papa e l’imperatore, non l’attribuire l’autorità ad uno dei due.  Di conseguenza, sul tema omosessualità, così come su tantissimi altri rapporti nel convivere, sono determinanti non le fedi ma le decisioni dei conviventi, cioè le leggi civili che, in forme differenti da stato a stato, tendono ad equiparare l’omosessualità ad ogni altro rapporto affettivo e sessuale tra chi convive. 

Fatta questa riflessione, si comprende pertanto come sia arretrato (ed in primo luogo inutile) dedicarsi all’applauso o allo scandalo su vicende tipo l’intervista all’Associated Press. Farlo significa pensare che atti del genere   stabiliscano la natura del convivere nella nostra società. Ed in pratica assegnare ancora una volta la patente dell’effettivo potere decisionale in Italia alle vicende che si verificano nell’istituto Chiesa Cattolica. Un istituto senza dubbio dotato della assoluta legittimità storica e ancor prima culturale e civile di seguire le proprie convinzioni religiose e di manifestarle pubblicamente in ogni modo legale. Ma un istituto cui, a partire dall’Unità d’Italia (eccetto gli anni del Concordato mussoliniano), non spettano – e ancor meno possono spettare in prospettiva – ruoli di privilegio nell’ordinamento civile. 

Pertanto, applauso e scandalo sono comportamenti del tutto fuori luogo. Esprimono un sistema informativo distorto dalla pretesa di attribuire un rilievo  prevalente  a quanto avviene nel mondo clericale, ritenendolo l’unico effettivo titolare del potere e perciò il metro dei rapporti pubblici da seguire con attenzione servile.  E’ urgente rimuovere una distorsione così. La quale fa dei rapporti affettivi e sessuali tra individui un mezzo per imporre le visioni conformistiche di vita di chi   la  diffonde.  Mentre l’informazione coerente pone in luce la realtà delle cose  e il suo fine è mettere così in grado i conviventi di conoscerle meglio e di fare le proprie scelte con maggior consapevolezza.

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