Sul blocco delle iscrizioni ai Licei scientifici di Livorno

Negli ambienti delle scuole interessate si è sparsa la notizia che i ritardi nell’esecuzione di lavori di ristrutturazione e la mancanza di fondi ministeriali porteranno presto a stabilire il numero chiuso per le iscrizioni al Liceo Scientifico. Qualunque sia il motivo, la prospettiva del blocco delle iscrizioni è inaccettabile. Tranquillizza la dichiarazione del Provveditore agli Studi secondo cui farà di tutto per scongiurare il blocco. Ma, per sicurezza, occorre trovare una soluzione operativa che tuteli al massimo il diritto allo studio dei giovani studenti livornesi e dell’intera cittadinanza, e che, se del caso, si intervenga legalmente a carico dei responsabili di questo disastro amministrativo. La sanzione politica, sarà la naturale conseguenza nei confronti di coloro che non si adopereranno per superare questo triste capitolo della scuola livornese.

Qualora si concretizzi la prospettiva del blocco, ecco la proposta:

a)  Oltre alla già annunciata messa a disposizione di qualche aula nella disponibilità del comune, il Sindaco di Livorno deve garantire, a tutti i livornesi che scelgono d’iscriversi a uno dei Licei Scientifici pubblici di Livorno, ma che non possono farlo a causa del blocco, lapossibilità di frequentare, sin dal prossimo anno scolastico, il suddetto indirizzo di studi (applicando il diritto allo studio, come da Costituzione). In mancanza di disponibilità di posti negli istituti pubblici, deve provvedere, a spese del Comune, a scelta degli interessati (e delle loro famiglie) alla iscrizione presso una scuola pubblica di Pisa, o Cecina, o Pontedera, o Viareggio, oppure alla iscrizione presso un liceo scientifico privato parificato, preferibilmente livornese. Dovrà occuparsi delle pratiche d’iscrizione e dovrà, sempre a spese del Comune, garantire il servizio di trasporto pubblico speciale agli studenti di cui sopra.

b)  Il Sindaco di Livorno dovrà raccogliere tutte le informazioni necessarie per chiarire gli aspetti quantitativi e qualitativi di questo blocco e, a seconda delle informazioni acquisite, dovrà istruire una pratica legale di tipo penale e/o civile, a tutela dei danni e dei disagi patiti: dai cittadini livornesi direttamente coinvolti nella vicenda; e dalle finanze comunali.

c)  Alla domanda che segue: “E’ da ritenere che la presente proposta possa risolvere efficacemente i problemi causati da una, presumibile, inefficienza amministrativa?” La risposta è “SI”, a condizione che vi sia collaborazione da parte delle strutture amministrative cittadine e delle forze politiche e sindacali che hanno voce in capitolo su questa sgradevole vicenda.

d)  Siccome una simile proposta non fa parte delle consuetudini delle Amministrazioni pubbliche, è indispensabile una forte azione dei cittadini che non intendono accettare supinamente di essere catalogati come sudditi passivi e remissivi.

Battini Marcello (già docente matematica applicata; saggista); Barabino Alessandro (giornalista, già vicedirettore de “Il Tirreno”); Caprai Antonio (ricercatore CNR); Guastalla Guido (mercante d’arte) Landi Sergio (politico, saggista); Mascambruno Giuseppe (giornalista, già direttore de “La Nazione”); Morelli Raffaello (già consigliere comunale e regionale; saggista); Sturman Giovanna(già insegnante scuola primaria); Sturmann Lina (già docente Liceo Enriques) Santaniello Enea (terzo settore); Valeri Roberto (chimico industriale).

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Cosa manca nella visione UE di Draghi

Nei giorni scorsi, in un evento da remoto del Financial Times, Mario Draghi ha enunciato per l’UE una linea operativa attualmente non  seguita dalla stessa UE e neppure rientrante nel dibattito in vista delle elezioni del giugno ’24. Di fatti, Draghi non ha nascosto le sfide geopolitiche, le difficoltà economiche e il ritardo tecnologico dell’Europa. Considerazioni assai realistiche per i problemi sollevati. Al medesimo tempo, tuttavia, questa linea – specie tenendo conto che Draghi presiede il gruppo di lavoro incaricato dall’UE di redigere un rapporto sulla competitività europea deficitaria rispetto a Stati Uniti, Cina, Giappone e Corea del Sud – omette la ragion d’essere caratteristica dell’Europa, tradita a Maastricht e principale causa delle presenti difficoltà. Ed è proprio sul rilancio di tale ragion d’essere che si può fondare il rilancio dell’UE.

L’UE è nata sulla prospettiva, assai innovativa, di imperniarsi a poco a poco sulle scelte dei suoi cittadini. Dunque in un’ottica distante dalla logica dello Stato tradizionale, che si fonda  sul mero potere e prevede i sudditi al posto dei cittadini. Oggi, il  rilancio UE può derivare solo dalla progressiva maturazione dell’affidarsi agli indirizzi dei cittadini (gestiti dopo dai governi), che è stata interrotta  a Maastricht dall’illusione di una  libertà assicurata per sempre (senza necessità di rinnovarsi affrontando le sfide quotidiane) ed anzi destinata ad imporsi sulle autocrazie per manifesta superiorità morale e funzionale.

Ma la fisiologia della libertà è un’altra, come prova l’esperienza. Richiede un’evoluzione quotidiana, di continuo tesa  a sviluppare gli scambi tra i diversi conviventi, all’interno di ciascun stato e tra i differenti stati anche se con sistemi politici contrapposti (comprese le autocrazie). L’UE lo ha dimenticato ed è ricaduta nelle antiche regole degli Stati dediti soprattutto al far crescere prestigio ed alleanze  di comodo tra gruppi dirigenti, senza preoccuparsi delle condizioni dei sudditi. Privandosi della sua ragion d’essere, l’Ue ha smesso di far maturare la sua libertà civile, non ha pensato ad affrontare il nuovo, si è involuta come Unione. Draghi accantona questi dati nel delineare le sue considerazioni per risollevare l’UE dal declino.

Draghi sostiene sì che occorre più integrazione per poter esprimere un punto di vista politico e militare. Ma pare non vedere che più integrazione richiede investire i cittadini europei nel far evolvere i trattati. Senza la modifica dei trattati, domandare di investire di più è senza contenuto. Draghi ragiona come le alte burocrazie europee, da anni autoconvinte che l’UE sia già uno stato sovranazionale.  Ma la realtà non è affatto questa. L’UE è una costruzione arenata. La realtà è che l’UE si è bloccata con piccoli Paesi in competizione, rimasti all’uso di un modello dissoltosi (”la difesa fornita dagli Stati Uniti, l’export in gran parte verso la Cina, l’energia a buon mercato dalla Russia” dice lo stesso Draghi).  

Proprio perché l’UE si trova in una situazione simile, manca di progettualità concreta l’asserzione di Draghi secondo cui “o l’Europa diviene un’unione più profonda capace di esprimere una politica estera, di difesa e sulle migrazioni, o non sopravviverà in altra forma che come mercato unico”. Infatti, chiedere che l’UE si integri di più basterebbe nell’antico tipo di stato distante dai cittadini. Ma nell’UE effettiva fondata sui cittadini (che ha permesso la costruzione del mercato unico, riuscito primo passo), solo la scelta di far discutere ai cittadini le nuove competenze da affidare all’UE può coerentemente metterla  in grado dopo di esprimere una politica estera, di difesa e sulle migrazioni. Ovviamente, le nuove competenze UE porteranno a ridurre l’ambito d’esercizio di sovranità dei singoli Stati ed è appunto         questo l’oggetto della scelta dei cittadini, da non lasciare alle elites burocratiche di Strasburgo e Bruxelles.   

Draghi solleva una questione vera. Ma lo fa dimenticando  le tre implicazioni culturali del progetto europeo. La libertà degli scambi, la diversità tra individui responsabili e la tolleranza anche per le idee opposte. Non è il solo a fare questo errore. E’ in compagnia degli attuali dirigenti europei. I quali praticano la dissennata politica dell’allargamento UE (tipica manifestazione del vecchio stato tradizionale) a prescindere dalle maturazione culturale dei paesi aspiranti. Confondono il progetto civile UE con l’allinearsi ad una alleanza militare quale la NATO (anche quando segue progetti incoerenti). Hanno difficoltà a distinguere tra guerre per la conquista di territori ritenuti storici (comunque da condannare) e atti di terrorismo con il dichiarato fine di non tollerare l’esistenza di Israele (una indistinzione  che ammorba lo stesso Occidente).  

Draghi chiede giustamente di reagire al declino dell’UE. Ma ciò non può essere un puro atto di volontà. Deve mantenere la coerenza con i principi di libertà, diversità e tolleranza imperniati sulle scelte dei cittadini, che sono la caratteristica innovativa dell’Europa politica.

Raffaello Morelli Pietro Paganini

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Perché lo stop all’allargamento UE

In vista del voto europeo 2024 – Nelle ultime settimane ha iniziato a decollare il dibattito politico sulle elezioni UE del prossimo giugno. Peraltro, è  un avvio parecchio claudicante sui grandi mezzi di comunicazione, visto che verte quasi solo  su quale potrà essere la futura maggioranza in Parlamento. Una conferma di quella Ursula (popolari, socialisti, liberali di ALDE Renew, gruppetto del M5S) ed ora anche verdi oppure una nuova che escluda socialisti e sinistra ed includa i Conservatori e Riformisti di Giorgia Meloni? Al punto che ogni tornata elettorale dell’attuale periodo in un paese europeo, viene considerata un’indicazione sicura delle scelte di giugno, nonostante le differenti  condizioni sia per i tempi che per l’argomento del voto. Solamente l’area liberale si sforza – ai primi di settembre con un articolo mio e di Paganini su Non Mollare  e a metà ottobre con il documento presentato agli Stati Generali del Liberalismo – di indicare alcune tematiche definite attinenti al vero tema del voto: l’indirizzo da dare all’UE.

Tali tematiche sono ancora non del tutto coincidenti per delineare un accordo certo con altri alle elezioni UE. Però  già convergono sulla necessità di un deciso  nuovo indirizzo nella politica UE (un cambio di rotta, lo chiama il documento discusso agli Stati Generali).  Eppure c’è un punto che per noi Liberali Italiani è essenziale, mentre è restato controverso e in pratica indefinito nel dibattito agli Stati Generali. E’ la questione del proseguire o meno la linea dell’allargamento dei  membri dell’Unione. Assolutamente da evitare per i Liberali Italiani ed in sostanza anche per Critica, da affrontare con molta cautela per il documento agli Stati Generali, da proseguire con accorgimenti  tecnici (espressi in un articolo di Critica ai primi di ottobre) per il Movimento Europeo di Dastoli, da proseguire  convintamente  per i Verdi (come detto dalla Scuderi nel corso del dibattito). Nel presente articolo specifico, abbastanza in dettaglio, il perché i Liberali Italiani ritengano  essenziale, al momento, bloccare ogni ipotesi di allargamento dei Paesi componenti l’UE.

Da Roma a Maastricht – Il  ragionamento muove da una constatazione nel ripercorrere la storia dell’Unione, iniziata, su iniziativa del liberale Gaetano Martino, con la svolta dei Trattati di Roma. Dopo i precedenti fallimenti del progettare l’istituzione europea replicando la vecchia concezione di raccordare strutture statali di potere, i Trattati di Roma imboccarono una  strada diversa, quella di coinvolgere i cittadini europei e di farlo con il metodo di coinvolgerli nella loro quotidianità economica della libertà negli scambi.  Un simile indirizzo del crescere a passo a passo imperniandosi sull’esprimersi del cittadino, era assai innovativo ma fisiologicamente lento (presupponeva un periodo di maturazione), anche se si confermò concreto nel rispettare l’impostazione  iniziale dei Trattati di Roma. Nei successivi 35 anni, ai sei stati fondatori se ne aggiunsero un po’ alla volta altri sei, dando appunto il tempo di far maturare tra i cittadini  dei vari paesi  la cultura di libertà civile coerente con i Trattati istitutivi. Inclusa, una zona di libera circolazione dei cittadini senza controlli alle frontiere interne (Trattato di Schengen) e qualche anno dopo la libera circolazione dei capitali.

Poi, a febbraio 1992, ci fu il nuovo Trattato sull’Unione Europea, sottoscritto a Maastricht. Gli intenti erano di far progredire l’europeismo, nel senso di andare oltre la semplice cooperazione tra stati sovrani e promuovere invece la loro integrazione istituzionale ed economica. Tuttavia il clima politico e culturale si rivelò  presto potenzialmente regressivo. Senza dubbio influirono avvenimenti epocali a livello mondiale, come la caduta del muro di Berlino (seguita a breve dalla fine della divisione in due blocchi) e poi la riunificazione della Germania. Peraltro si trattò nella sostanza di un equivoco. Perché la fine della guerra fredda non era affatto la fine della storia –  l’assurda tesi del libro di Fukuyama allora di moda – e il confronto , anche molto duro, sul come organizzare la convivenza nel mondo, aveva concluso una data fase ma era destinato a persistere nelle ragioni di fondo del contrapporsi tra l’utilizzo della libertà nei rapporti tra i cittadini oppure l’aderire ai sistemi autocratici, in vario modo elitari  e illiberali. Ed il disegno di uno stato di nuovo tipo in Europa era appunto la risposta più innovativa a quelle ragioni. Mentre a Maastricht,  quella risposta venne seguita da intenzioni coerenti con lo spirito dei Trattati di Roma, ma accompagnata dal riemergere della mentalità propria dei tradizionali stati di potere (in fin dei conti con la caduta del muro avevano vinto le democrazie) e perciò antitetica a quello spirito.  

Il Trattato di Maastricht – Oltre a darsi un nuovo nome un po’ corretto (che di fatto consentì pure di  porre nel dimenticatoio i Trattati di Roma), le intenzioni espresse a Maastricht  in modo coerente furono l’introdurre la cittadinanza UE (il diritto di residenza in ogni stato membro, il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni locali e il diritto di presentare una petizione al Parlamento Europeo sui temi indicati nei Trattati comunitari) e il dare un ruolo al Parlamento Europeo (seppure insieme al Consiglio di Europa interstatale) nella ratifica degli atti legislativi della Commissione. Tuttavia una simile coerenza, si accompagnava ad altre scelte frutto di una nascente incoerenza tenuta nascosta sotto un apparente slancio pro europeista. Così, venne assegnato un ruolo importante al principio di sussidiarietà, secondo cui l’UE  può intervenire in tutti gli ambiti ove lo sforzo dei singoli stati non sia sufficiente (e questa era di fatto una logica divergente dallo spirito di Roma, che si riferiva ai cittadini degli Stati e alla loro maturazione, non ponendo limiti né all’origine del decidere né alla loro competenza in prospettiva). Inoltre l’organizzazione della UE venne articolata su tre pilastri. Di questi il primo socio economico faceva evolvere i Trattati di Roma creando la Comunità Europea, che inglobava le già esistenti CEE, CECA e CEEA. Ma il secondo (difesa e politica estera) ed il terzo pilastro (affari interni e giustizia), si fondavano su un approccio intergovernativo, che in pratica veniva consolidato ed in sostanza era estraneo all’UE dei cittadini.

L’insinuarsi della mentalità contraria ai Trattati di Roma divenne presto più evidente sulla politica economica e monetaria. Il Trattato di Maastricht formulò un itinerario in due tappe per modellare  l’Unione Economica Monetaria (UEM) e poter adottare una moneta unica. Prima si creava un Istituto Monetario Europeo, con il compito di coordinare la politica monetaria degli stati membri e la cooperazione fra le banche centrali. Successivamente si sarebbe adottata una moneta unica tra i paesi che avessero rispettato  un insieme di regole fissate nel Trattato in merito al bilancio pubblico e al regime di cambio (oltre altre regole sui bilanci degli stati, concernenti il rapporto debito pubblico/PIL   e l’annuale deficit pubblico/PIL). In tutto questo settore salta subito all’occhio l’abbandono del sistema del costruire l’istituzione UE facendo maturare nel tempo le decisioni dei cittadini. Per più versi.

Il perdurante allentarsi del rapporto con il cittadino – Innanzitutto perché proprio nel campo economico finanziario (fulcro dei Trattati di Roma) si procedeva partendo dallo stabilire in via preliminare percorsi pluriennali decisi al vertice e felpatamente  prestabiliti. Di conseguenza percorsi composti  da  passi rigidi di natura deterministica (quindi di per sé estranei al variare tipico del vivere, che è alla base dell’economia reale). Non fu quindi un caso che fin dall’origine l’UE si pose l’obiettivo di darsi una moneta unica. Obiettivo di per sé del tutto corretto ma pensato in termini deterministici per il funzionamento interno ed esterno di stati supposti strutturalmente uguali (ipotesi irrealistica). Oltretutto una moneta unica concepita in un quadro chiaramente incompleto, cioè mancante della fiscalità che, negli andamenti reali, ne è una componente ineludibile. Dunque  l’UEM è nata con un handicap fisiologico. E, nonostante l’enfasi assertiva con cui essa è stata sempre trattata sui mezzi di comunicazione, dalla sua nascita si è consolidata senza mai riuscire a formare un sistema  davvero funzionante lungo una linea focalizzata sul comportamento dei cittadini europei.

In sintesi, l’UEM si è dimostrata un istituto figlio di un’istituzione di potere, con logiche di governo elitarie ben distanti dai cittadini.  Tanto che negli anni ha prodotto una serie di conseguenze in contrasto con l’indirizzo fondativo dell’imperniarsi sulla cittadinanza europea. La prima è stata che neppure tutti i membri UE hanno aderito all’Euro, al quale mancano un quarto dei membri (cosa che rende l’ UE funzionante  a due velocità, un criterio che pare empiricamente valido ma che prescinde dal principio cardine del perché esiste l’UE).  La seconda fu la stipula di un nuovo accordo  generale che, insieme a ridefinire alcuni aspetti tecnici (il comporsi della Commissione, il peso dei voti in Consiglio, un ambito più ampio del voto a maggioranza qualificata), completò l’istituto della  cooperazione rafforzata  tra paesi UE nel campo della Politica Estera e di Sicurezza Comune. E questo istituto  ha ulteriormente irrobustito la dimensione statocentrica, ora coniugata  a piacere, al posto del potenziare il rapporto tra i cittadini europei. Una terza conseguenza fu che il Consiglio  proclamò la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la quale si esprimeva come se fosse possibile, senza modifica dei trattati comunitari, definire la via per allargare e rafforzare l’UE (cosa impossibile nella logica di un’UE dei cittadini). Una quarta conseguenza – indotta dall’ansia statalista e materializzatasi in una Convenzione Intergovernativa che lavorò due anni sulla materia –  fu la pretesa di giungere a progettare un Trattato per adottare una Costituzione per l’Europa, firmato poi  in pompa magna dai rappresentanti di tutti gli Stati allora membri nel 2004 a Roma. Che però non entrò mai in vigore per il motivo che, essendo un trattato internazionale, esigeva una ratifica formale  da ciascuno dei firmatari. E questa non venne.  

Comunque  le quattro conseguenze, pur infeconde, non indussero a cambiare strada. Anzi, restò l’ansia degli stati. Dopo una seconda Conferenza Intergovernativa, a dicembre 2007 fu firmato il Trattato di Lisbona , con il nome di  “trattato sul funzionamento dell’Unione europea” , che rimaneggiò l’istituto rafforzando timidamente la partecipazione dei cittadini, il ruolo del Parlamento (acquisisce la facoltà di proporre modifiche ai Trattati, è composto da rappresentanti dei cittadini e non più degli Stati, elegge il presidente della Commissione a maggioranza su proposta del Consiglio europeo fatta a maggioranza qualificata, tenendo conto del risultato del voto dei cittadini), attribuendo formalmente al Consiglio la funzione di imprimere gli impulsi e di definire gli orientamenti e le priorità generali,  infine coinvolgendo i Parlamenti nazionali nel processo decisionale UE. In ogni caso senza  sancire il primato del diritto dell’Unione sulla legislazione nazionale. Peraltro il Trattato di Lisbona instaura competenze parecchio aggrovigliate divise in tre categorie (competenze esclusive a livello Europeo, competenze concorrenti degli Stati, competenze di sostegno agli Stati) e per la prima volta prevede che gli stati membri possono recedere dall’UE.  Nel complesso il Trattato di Lisbona conferma l’ansia statocentrica e imbelletta il rapporto UE cittadini europei, limitandosi a ritoccare alcuni istituti senza risolvere davvero i problemi. Significativo l’introdurre il diritto di recesso che è funzionale solo alla concezione degli accordi statocentrici.

In seguito,  nei primi anni del decennio 2010, l’UE, di fronte alla crisi  dei subprime americani,  ha iniziato ad adottare, sempre nella logica statocentrica e non dei cittadini europei,  una politica di austerità  stringente, culminata nel mettere in piedi, onde aiutare  gli stati membri in difficoltà, il Meccanismo Europeo di Stabilità – MES, che è l’emblema dell’elitarismo. Il MES è una società di diritto lussemburghese, con una procedura di concessione dei prestiti imperniata sul negoziato con il paese richiedente. Qui la distanza dall’UE dei cittadini raggiunge la vetta. Di fatti il negoziato finale è affidato ad un organo a tre, la Commissione UE, la BCE e il Fondo Monetario Internazionale, una triade  in cui la BCE è un organo dei paesi dell’Euro (e non dell’UE)  e il FMI è addirittura estraneo all’Europa. Dunque una triade assai lontana dai cittadini europei, che agisce nel rispetto dei parametri economici in chiave teorica saltando le condizioni civili di fatto.  

Sia chiaro. Riconoscere  i dati oggettivi finora riassuntivamente  esposti circa  la  traiettoria dell’Euro, non significa affatto che la moneta unica fosse un obiettivo sbagliato. Significa invece che è stata costruita con la mentalità dello stato tradizionale al posto della libertà dei Trattati di Roma. Ne consegue che la correzione dell’errore non va fatta con la soluzione sommaria dell’uscita dall’Euro (che negherebbe la prospettiva unitaria europea). E’ invece necessario non incentivare, anzi ridurre, il ricorso  a meccanismi del sistema Euro e dell’UEM  divergenti dal criterio dell’affidare le decisioni di fondo ai cittadini europei. Questo è il nuovo punto  di svolta che cambia la rotta.

L’allargamento territoriale UE – Anche perché la medesima distorta mentalità  innestata a Maastricht, è dilagata  nel medesimo periodo storico pure in un altro settore che è ancor più significativo. Quello del promuovere in modo compulsivo l’allargamento dell’UE a sempre nuovi paesi. Ho rilevato sopra che, rispetto alla stipula  dei Trattati di Roma, i nuovi membri UE sono stati sei in 35 anni, mentre, vigente la mentalità distorta  del dopo Maastricht, in un quindicennio se ne sono aggiunti altri sedici (per un totale di 28). Questa frenesia era già implicita nel clima del Trattato di Maastricht, tanto che pochi mesi dopo vennero fissati i criteri di  ingresso per i paesi che lo volessero fare. Tre criteri. Istituzioni stabili democratiche, con stato di diritto rispettoso dei diritti umani e delle minoranze; economia di mercato in grado di consentire la concorrenza nell’Unione; capacità di accettare gli obblighi connessi all’adesione, normativi ed economico monetari. Sono dunque criteri del tutto tecnici e giuridici senza un qualsiasi riferimento alle condizioni di vita dei rapporti tra i cittadini, e soprattutto alla maturazione   di questi loro rapporti, inquadrati pure nella prospettiva dell’Europa dei cittadini, di per sé chiaramente foriera di un’idea differente di sovranità. 

Insomma criteri espressione di uno stato vecchia maniera, imperniato sul potere di qualche entità e non delle scelte dei cittadini. Come se, l’esser usciti da un’economia pianificata bastasse automaticamente o quasi a realizzare una società aperta basata sui cittadini, sulla libertà e sul mercato. Mentre una maturazione del genere richiede ovviamente un periodo di tempo assai protratto per mettersi alla prova e sviluppare davvero una cultura politica adatta. Eppure la frenesia innescata a Maastricht è stata un ritorno al passato tipico di istituzioni che aspirano ad allargare il  territorio per esibire la propria potenza e che relegano nelle retrovie la qualità del convivere.  Tra l’altro tale frenesia, anche se in apparenza raffreddatasi, non si è ancora esaurita. Oggi vi sono altri otto paesi candidati ad entrare nell’UE (cinque paesi balcanici, due paesi ex URSS , uno piccolo uno grande, e la Turchia). Quello grande ex URSS è l’Ucraina, per la quale esistono forti sollecitazioni, sotto pressione di soggetti esterni all’UE  (USA e NATO), perfino perché si vada oltre i criteri vigenti (ad esempio passando sopra l’endemico stato di corruttela là esistente). E tutto ciò nonostante l’UE  preveda perfino, oltre l’allargamento, altri tipi  di relazione atta a stabilire stretti rapporti in campo economico culturale con altri paesi non richiedenti l’allargamento.

Lo stop all’allargamento territoriale – Senza trascurare che nel decennio più recente vi sono stati alcuni avvicinamenti al concetto della UE dei cittadini (prima con l’intervento del Presidente della BCE Draghi di cauto contrasto all’austerità e poi con la decisione della Presidente Von der Layen per fronteggiare il Covid di attivare un impegno comune dell’istituto UE),  non si vedono significative inversioni di marcia nel costruire l’UE. E’ perciò giunto il momento di dire  stop agli allargamenti dell’UE, che allontanano dal tornare all’UE imperniata sulle scelte dei cittadini degli stati membri. Dunque, per procedere in questa direzione, è molto importante, come sostengono i Liberali Italiani e Critica Liberale, che lo stop agli allargamenti rientri nei fini essenziali dell’auspicabile alleanza per il voto UE di giugno.  Di fatti il nocciolo di una simile alleanza per mutare la rotta UE  sta nel ricuperare l’indirizzo originario e riprendere a costruire l’UE imperniandosi sui cittadini europei invece che sulle burocrazie di Bruxelles e sugli Stati membri (l’articolo mio e di Paganini sopra richiamato indica quattro punti per trasformare l’UE, ridurre il peso degli stati aumentando quello dei cittadini, far condividere la cura del clima ai cittadini e non imporla, rinnovare la rete della sanità, dei servizi pubblici e delle strutture private, vigilare sul reddito del cittadino, introducendo il reddito universale di sopravvivenza e rendendo effettivo il salario minimo per un rapporto equilibrato tra lavoro prestato e costo sostenuto).    Insieme è indispensabile un esplicito disegno politico condiviso da gruppi espressione di culture differenti che ponga il tema dello stop agli allargamenti nel cuore del dibattito politico.  Un  simile disegno di ritorno ai cittadini, non si realizza rivendicandolo mediante la raccolta delle firme degli europei  (iniziativa  positiva ma sterile alla luce delle norme vigenti). Si fa portando alla ribalta la questione dello stop facendone una battaglia politica.  

Intanto, una cosa del genere non l’ha fatta il Manifesto lanciato i primi di ottobre  da un consistente gruppo di personalità di rilievo UE (tra gli italiani ci sono Amato, Messori, Monti, Prodi), appunto perché muove  dalla dichiarata esigenza di rinnovare gli indirizzi UE nella prospettiva di un futuro allargamento UE, considerato scontato (e non stupisce visti i posizionamenti europei dei firmatari,  tutti legati alla logica di Maastricht).   Inoltre, sul punto, purtroppo agli Stati Generali del Liberalismo, i verdi  hanno detto di voler  proseguire nell’allargamento, poiché  estenderebbe il criterio della legalità UE. Ora, questa è una tesi singolare, dal momento che  l’UE non esiste ancora  come entità sovrapposta agli Stati ma sempre e solo come accordo tra gli Stati (nonostante  l’infondato tentativo del Servizio giuridico del Consiglio e la pretesa dei magistrati  della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di presentarsi come elites interpreti di leggi UE sovranazionali). Gli Stati sono finora gli unici a dettare nel proprio ambito regole di legalità valide in ogni campo e lo faranno finché non si instaurerà l’UE dei cittadini. Comunque, stante la dichiarazione della rappresentante dei Verdi, sorge il problema di cosa poter fare per rimuovere l’ostacolo al condividere lo stop all’allargamento territoriale. Di sicuro, se questo punto specifico verrà accantonato nel programma dell’auspicabile alleanza per il voto UE di giugno, sarà una debolezza pesante. La quale limiterebbe la possibilità di cambiare rotta di un’UE  che ne avrebbe assai bisogno. Soprattutto per essere in grado di adempiere, nell’Occidente politicamente malato, al proprio ruolo di paladina della libertà degli scambi (che è il motore della democrazia) nonché della tolleranza delle altre idee a cominciare dall’esistenza di quelle opposte (che è la precondizione del convivere in pace), e in nessuna occasione paladina della libertà imperiale (perseguita dai circoli NATO) che è l’antitesi della libertà degli scambi  e del convivere in pace.

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Su una procedura del MES (a Ferruccio De Bortoli)

Caro De Bortoli,

Stamani sul Corriere, all’inizio del suo articolo, scrive ” E allora sarà interessante ascoltare le motivazioni di un sofferto sì al Meccanismo europeo di stabilità, considerato a lungo — per ragioni di pura propaganda — il peggior nemico dell’interesse nazionale. In Europa la solidarietà (per esempio il Next Generation Eu) si allinea alla responsabilità (appunto il Mes). Non c’è l’una senza l’altra. E questo dovrebbe bastare a placare qualsiasi diatriba”.

Sono parole che riproducono anch’esse una propaganda, quella dimentica che il MES contraddice l’essenza del liberalismo, l’affidarsi al cittadino.   Infatti non si deve mai scordare che il MES, è l’emblema dell’elitarismo. Il MES è una società di diritto lussemburghese, con una procedura di concessione dei prestiti imperniata sul negoziato con il paese richiedente. Qui la distanza dall’UE dei cittadini raggiunge la vetta. Di fatti il negoziato finale è affidato ad un organo a tre, la Commissione UE, la BCE e il Fondo Monetario Internazionale, una triade  in cui la BCE è un organo dei paesi dell’Euro (e non dell’UE)  e il FMI è addirittura estraneo all’Europa. Dunque una triade assai lontana dai cittadini europei.

Questo è il punto essenziale. Di conseguenza il suo collegare solidarietà e responsabilità manca del ricordare che tali comportamenti non debbono prescindere dal coinvolgere il cittadino, altrimenti possono giustificare ogni cosa. Concludendo, per i liberali la diatriba non si placherà finché il MES non muterà la procedura attuale sul negoziato dei prestiti.

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Conoscenza della storia per i liberali

Intervento al Convegno “quanto e come la conoscenza della storia aiuta il progresso sociale” organizzato dal Comitato per il Risorgimento a Livorno, Bottini dell’Olio, il 13-14 ottobre 2023

Il Circolo Einaudi ringrazia il Comitato Risorgimento   per  l’invito a  “Quanto e come la conoscenza della storia aiuta il progresso sociale”. Un invito che apre al confronto tra posizioni distanti, dato che noi liberali, basandoci sull’esperienza,  attribuiamo alla conoscenza ben altra funzione. Conoscere la storia non indottrina, bensì sviluppa lo spirito critico del cittadino. La  sua finalità non è aiutare un supposto progresso sociale bensì formare il cittadino nella propria diversità di singolo, quanto a cultura ed esigenze, per renderlo capace di affrontare le  sfide che sorgono ogni giorno. Insomma, di essere coerente facendo qualcosa  per il Paese, non a parole.

E’ il compito  imposto dall’esperienza. Essa ha mostrato che la conoscenza del mondo non si ottiene seguendo i libri sacri religiosi od ideologici, ma imperniandosi sul cittadino che osserva con cura costante  le cose e fa altrettanto quando  agisce materialmente. Si attiene ai risultati dell’azione e, se non incidono sul problema affrontato, modifica  l’azione  oppure l’abbandona. Mai pensa che l’errore stia nel risultato . Inoltre, da un simile impegno a conoscere, trae un’ulteriore conoscenza. Quella che un cardine  della vita è il ruolo del tempo che passa. Nel complesso, l’esperienza ribadisce stabilmente – e la scuola deve diffonderne la consapevolezza – che il metodo più adatto, per governare la convivenza al meglio, è affidarsi al cittadino adottando tre criteri: la libertà nelle relazioni pubbliche e private, l’individualismo responsabile, la differenza reciproca tra gli individui. Tutte cose estranee all’adorare i testi sacri, al seguire le elites e non surrogabili con concetti ben diversi se non opposti, tipo l’amicizia indistinta, l’uguaglianza oltre i diritti o addirittura  le idee imposte del futuro prestabilito.

La scuola ha il compito non di predisporre al sognare,  ma allo stare con i piedi per terra. Il divertirsi è da millenni un’aspirazione umana fisiologica, ma  nell’immediato distrae dalla durezza della vita, suscita emozioni irriflessive ed in prospettiva  fa sognare l’irreale. Stare con i piedi per terra significa ricercare sempre  risorse e cibo necessari al  vivere. Accettando di doverlo fare, allenandosi fin da giovani ad esprimersi nel lavoro, che è il  viatico per acquisire i mezzi del vivere, impegnandosi – ciascuno a suo modo –  ad insistere nel conoscere sperimentando,  senza mai confondere l’indispensabile spirito critico nel valutare ogni situazione con l’intento disfattista di giudicare tutto sbagliato o con il mito della lotta di classe (che blocca il conoscere). L’intreccio permanente  della vita con il tempo, obbliga la scuola ad  insegnare un punto chiave: il mondo reale è probabilistico e dunque la conoscenza non è definitiva, è ampiamente provvisoria.  Il determinismo appartiene solo ai testi sacri.

Per tutto questo, il compito della scuola non è seminare certezze che non esistono né educare famiglie. E’ spingere gli studenti cittadini ad esercitare nel conflitto democratico il proprio spirito critico individuale, l’effettivo motore del cambiamento per sciogliere i nodi vitali. Il cambiamento – a differenza della rivoluzione che del potere cambia i gestori  ma non i meccanismi veri – è la via coerente per evolvere migliorando le condizioni della quotidianità e della crescita socioeconomica. Un compito così non richiede una scuola buonista. Don Milani, un prete attento alla concretezza (nonostante assai equivocato), ammonì “vi siete illusi di poter fare una scuola democratica. E’ un errore. La  scuola  è democratica solo nel fine, cioè  in quanto costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia”, o  nel linguaggio  liberale, i mezzi della libertà che della democrazia è l’origine. Tra i mezzi della libertà, in coerenza col legame al mondo, spicca il nesso con  il territorio vissuto, le sue caratteristiche e  il suo possibile utilizzo. L’area di Livorno si caratterizza per  il clima assai favorevole al soggiorno umano turistico e per l’unica risorsa a disposizione:  l’attività marittima, in specie portuale. Caratteristica e risorsa legate per natura agli scambi nel mondo (fatto per decenni incompreso), che sono una tipica manifestazione di libertà a livello universale. Ciò coincide con il ruolo  scolastico descritto fin qui, e dunque, pure le potenzialità energetiche territoriali costituiscono motivo ulteriore perché la scuola livornese muti indirizzo.  Mutandolo inizierebbe a svolgere davvero il proprio compito. Conoscenza storica per formare il cittadino responsabile, attore della libertà, rispettoso della diversità individuale e tollerante di ogni idea anche  avversaria, contrapponendosi  al terrorismo intollerante dell’esistenza d’Israele nonché all’avallarlo (moda diffusa).  Al tempo stesso, educherebbe a rifuggire l’ossequiare  i gestori del potere non confondendo mai la libertà con idee riferite a masse indistinte di cittadini. Insieme manterrebbe il carattere di protesi umana agli aspetti dell’Intelligenza Artificiale, che, innescando un’interconnessione tentacolare, offre servizi informativi e lavoro intellettuale a distanza, in tempi pressoché istantanei. Aumentando  ruolo e peso degli individui, con l’urgenza conseguente di adeguare sempre le  regole del convivere e schivando i social  i quali, snobbando la scienza, negano lo spirito critico individuale e le radici di ogni dialettica per conoscere. Questa è la scuola dei liberali, realistica, attiva e non conformista.

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Al Convegno Cambiamo rotta all’Europa

Intervento dei Liberali Italiani (oratore Pietro Paganini) inviato agli Stati Generali del Liberalismo 2023, Roma, 13 ottobre 2023 , sul tema Cambiamo rotta all’Europa

Crediamo fermamente che alle prossime elezioni europee sia essenziale, anzi urgente, avere una formazione Liberale che enfatizzi la centralità del cittadino rispetto ai privilegi delle burocrazie. Questa formazione dovrebbe proporre strategie di sviluppo equilibrato tra uomo e ambiente per contrastare l’accelerazione del cambiamento climatico; promuovere un reddito universale per potenziare la produttività individuale attraverso misure attive e passive nel campo del lavoro; incentivare gli investimenti in innovazione tecnologica e, soprattutto, sostenere la libertà di scelta, valorizzando la diversità individuale e rafforzando il ruolo del cittadino. 

In questa prospettiva, riteniamo che la proposta di riforma dell’Unione Europea che state discutendo sia tempestiva e di primaria importanza. Osservando quotidianamente le dinamiche di Bruxelles, trovo obsoleto e contraddittorio che nel 2023, con l’attuale carico legislativo, sia ancora la Commissione, con il suo funzionamento complesso e la ricerca di una trasparenza rigida, a guidare il processo legislativo che regola la coesistenza dei cittadini. Il Parlamento dovrebbe assumersi la responsabilità primaria nella vita dei cittadini.

In questo contesto, il documento di riforma assume un’importanza cruciale. Chi condivide i principi del Liberalismo troverà, in esso, una proposta solida e in gran parte condivisibile, anche se ci sono aspetti che vorremmo revisionare per evitare interpretazioni in contrasto con le aspirazioni liberali. Un primo insieme di argomentazioni è stato pubblicato da Critica Liberale all’inizio di settembre, firmato da R. Morelli e da me.

Gli emendamenti suggerite si dividono in due categorie: tre rimozioni e sette integrazioni. Per chiarezza, procederò in modo schematico:

Le tre rimozioni riguardano: 

– La descrizione del funzionalismo degli anni ’50 e ’60 come inefficace.

– La critica ambigua sull’UE per aver mancato due occasioni cruciali: il Covid e le tensioni in Ucraina e Israele.

– L’erronea etichettatura ideologica attribuita all’UE.

Ecco i tre punti rimossi:

1.Funzionalismo e Progetto Europa: Il funzionalismo ha guidato l’evoluzione del progetto europeo secondo principi liberali, focalizzandosi progressivamente sul benessere del cittadino. Questo ha permesso di distaccarsi dalla parte di idee illiberali di Ventotene, in cui si proclamavano concetti come “la rivoluzione europea dovrà essere socialista” o che vedevano “la metodologia politica democratica come un ostacolo in tempi di crisi rivoluzionaria”, nonché l’idea che “la dittatura di un partito rivoluzionario determina la formazione di un nuovo stato”.

2. Denuncia e Contesto Internazionale: La critica sull’approccio dell’UE durante la pandemia appare poco chiara. Inizialmente, il Covid ha sottolineato l’importanza dell’unità europea. Tuttavia, focalizzarsi solo sull’aggressione in Ucraina tralascia le numerose azioni della NATO nel corso degli anni. Allo stesso modo, è fondamentale ribadire il nostro sostegno incondizionato a Israele come pilastro della Liberaldemocrazia, pur riconoscendo le sue imperfezioni, in un contesto dove alcune entità, come Hamas, osteggiano i valori occidentali. Al contrario, figure come Putin non hanno mai dichiarato di voler eliminare cristiani o ebrei.

3. Etichetta Ideologica e Costruzione Europea: Definire l’Unione Europea con un’etichetta ideologica disconosce la sua realtà. La costruzione europea si basa su un approccio innovativo che valorizza le diverse capacità e attività dei suoi cittadini, evitando di rimanere ancorato a ideali teorici da imporre.

Per quanto riguarda le integrazioni:

1. il richiamo ai Trattati di Roma (indispensabile, visto che dell’Europa i Trattati sono la sola data di nascita giuridica e politica, oltretutto su iniziativa liberale), 

 2. il richiamo al coinvolgere i cittadini nella loro quotidianità economica (innovazione chiave della libertà negli scambi senza attribuirle un ruolo imperiale, in seguito soffocata dalla pratica di governo burocratica), 

3. il distinguere le prospettive future tipo politica estera (nel presupposto di arrivare ad una apposita modifica dei Trattati), 

4/5/6 i valori condivisi tra sinistra, liberali italiani, verdi, per realizzare ora l’avvicinamento ai cittadini. Per valori abbiamo indicato:

una politica impegnata sull’affrontare il tema del clima diffondendo le azioni volontarie di ciascuno con fermezza senza cadere nel fondamentalismo ecologico, 

una rinnovata attenzione al rendere effettiva l’assistenza sanitaria al cittadino, evitando le disfunzioni pubbliche e le consorterie private; 

un aggiornamento nell’ assicurare l’apporto dei cittadini introducendo il reddito universale sotto un livello prestabilito e realizzando in modo compiuto il salario minimo.

Voglio evidenziare che l’inclusione di questi valori condivisi rappresenta un tratto distintivo fondamentale del pensiero liberale, in contrapposizione alle ideologie. La cultura liberale, pur essendo intrinsecamente legata alle normative, manifesta la sua vera essenza nelle azioni che promuovono la libertà nelle relazioni umane.

Infine, proponiamo una settima integrazione: l’alleanza tra sinistra, liberali e verdi. Questa alleanza è essenziale per contrastare l’assorbimento culturale, un approccio radicato nel progressismo. I Liberali Italiani hanno sempre sostenuto che il liberalismo è intrinsecamente politico e non può essere ridotto a un mero aggettivo di altre ideologie o partiti.

Da anni, i Liberali Italiani sottolineano come il liberalismo, nella sua essenza, sia un concetto politico fondamentale e irrinunciabile per un autentico sviluppo democratico. Non può essere ridotto o banalizzato a un semplice aggettivo utilizzato da ideologie o partiti che non si identificano pienamente con i principi liberali.

Né i socialisti né i verdi incarnano pienamente la cultura politica liberale. Di conseguenza, l’alleanza proposta per le elezioni europee tra sinistra, liberali e verdi rappresenta un significativo passo avanti verso un vero impegno liberale. Questa alleanza non dovrebbe rimanere nascosta nelle ombre delle trattative riservate, ma piuttosto affermarsi chiaramente attraverso un simbolo elettorale trasparente, in modo che gli elettori possano riconoscerne l’importanza e il potenziale per innovare il progetto dell’UE.

Il simbolo elettorale ha un ruolo cruciale: serve a delineare chiaramente la posizione dei liberali, distinguiendosi da strategie di assimilazione e contrastando la lista LDE, che pur citando i principi liberali, non sembra rappresentarli appieno. Questo diviene evidente analizzando il loro “Manifesto per l’Europa”, caratterizzato da idee vaghe e non focalizzate sulla libertà di scambio, sul rispetto dei Trattati centrati sul cittadino e sulla situazione attuale in Ucraina, profondamente segnata da corruzione.

In conclusione, il nostro desiderio è che questi Stati Generali possano affrontare e risolvere le questioni da noi sollevate.

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Il futuro UE nel segno dei Trattati di Roma

Modifiche proposte dai LIBERALI ITALIANI al documento predisposto da Critica Liberale in vista degli Stati Generali del Liberalismo del 13 -10- 23

CAMBIAMO ROTTA ALL’EUROPA

CON GLI INDIRIZZI INIZIALI DEI TRATTATI DI ROMA

DALL’EUROPA DEI GOVERNI ALL’EUROPA DEI CITTADINI –

ALL’INTERNO DELL’UE UN’AREA DI PAESI UNITI IN UNO STATO FEDERALE DEI CITTADINI

PREMESSA

I nazionalismi nel ‘900 hanno provocato indicibili tragedie, facendo precipitare l’umanità nel suo punto più basso.

Il fanatismo e l’egoismo scaturiti nello spazio geopolitico europeo a causa di quello che Einaudi giudicava «l’immondo idolo dello stato sovrano» hanno portato per due volte gli stati europei a distruggersi tra di loro, con milioni di morti e l’annientamento di ogni etica pubblica e privata.

Da questa constatazione, recuperando i valori fondamentali della critica e della libertà per tutti, alcuni spiriti illustri concepirono il disegno necessario, ancor prima che ideale, dell’unità europea.

E le istituzioni di quella che è divenuta l’attuale Unione Europea nacquero, alcuni anni dopo il secondo conflitto mondiale, da uno sforzo di cooperazione e di rinuncia parziale a un bruto perseguimento dell’interesse nazionale, lungo la strada del coinvolgere i cittadini a cominciare dalla loro quotidianità economica.

L’accordo fu perseguito dalle componenti più avanzate delle tre grandi tradizioni di cultura politica del continente, liberalismo cosmopolita, socialismo internazionalista e popolarismo universalista.

La formazione dell’Europa unita  è stata però lentissima, mai realizzata pienamente e dopo 35 anni sostanzialmente abbandonata con il prevalere degli interessi nazionali e in anni recenti di fatto travisata, con la riduzione dell’idea dell’unità europea a semplice conglomerato di stati rappresentati dai loro governi.

Gli Stati Uniti d’Europa devono essere ben altra cosa: il riconoscimento di una  identità condivisa fondata storicamente sui valori nati e cresciuti in seno ai paesi europei, ben rappresentati dalla divisa della libertà, dell’uguaglianza dei diritti  e della fratellanza, che hanno fatto del popolo europeo l’antesignano di modelli di vita fondati sui diritti dei viventi e sulla conseguente creazione e distribuzione di un benessere che non ha storicamente uguale.

In Europa è poi sorta una nuova cultura politica: l’ambientalismo, che ha richiamato le “culture classiche” ad una cosciente responsabilità nei confronti del Pianeta e delle generazioni future.

Il tradimento di questi ideali soffocato dalla pratica di governo burocratica ha provocato come reazione, anche all’interno dei paesi UE, la rinascita dell’immondo idolo nazionalista, che, come una metastasi, sta provocando caduta di valori, messa in discussione e svuotamento della stessa democrazia, invasione della incultura di massa, miseria crescente, prevalenza del ventre sulla mente, risorgenza del razzismo.
Il neonazionalismo, il sovrainnesto, sono logicamente, storicamente e politicamente la contraddizione di una Europa davvero unita imperniata sul cittadino.

Liberalismo, socialismo, ecologismo e popolarismo oggi in Europa hanno un dovere storico: allearsi per creare davvero uno Stato Federale del cittadino come esempio per il mondo e come antidoto alle metastasi crescenti di populismi lontani dai conviventi.

Come fare? Non c’è tecnicismo a Trattati invariati che consenta la piena inversione di marcia.

Serve una ripresa dell’iniziativa politica, schiettamente e coraggiosamente politica, per definire nuove regole capaci di rianimare lo stanco tessuto di regole di una Unione senza più né anima né forza, prigioniera delle burocrazie.
Un’alleanza politica che nei prossimi mesi  contrapponga un vero disegno all’avanzata della demagogia nazionalista , si liberi delle burocrazie e nei rapporti internazionali, sia paladina della libertà negli scambi senza confonderla con quella cui si pretende di far svolgere un ruolo imperiale.

QUATTRO PUNTI CHIARI ESSENZIALI:

1. Bisogna avere il dovere e il coraggio di dichiararlo: il disegno iniziale è stato reso impossibile da regole che rendono difficili, se non impossibili mutamenti strutturali e hanno indebolito ogni capacità decisionale.
È poi intervenuto un allargamento ad altri paesi che ha tenuto conto di interessi geopolitici ed economici che erano e sono non sempre compatibili col disegno culturale e politico che era e deve essere alla base dell’Europa unita.
Ciò ha provocato una perdita di peso dell’Europa e una sua sempre maggiore irrilevanza politica ed economica nel passaggio sul pianeta da due poli a uno e ora a un policentrismo molto conflittuale che sta aggravando le tentazioni imperialistiche e nazionalistiche.
La strategia di un ulteriore allargamento, anche se ancora indeterminato nel tempo, accresce definitivamente l’impossibilità di un’Europa unita.
Non si può più far finta di non saperlo.

2. Occorre che all’interno della UE i cittadini europei si esprimano per formare uno stato con istituzioni federali, fondato sullo stato di diritto liberal-democratico, che abbia un’unica cittadinanza, moneta unica, fiscalità unica, e voto a maggioranza e democrazia sovranazionale , ponendosi l’obiettivo dell’unicità di bilancio, di politica estera, di sicurezza.
Lo stato federale sarà composto dai paesi all’interno della UE che avranno deciso positivamente , con un unico referendum dei propri cittadini, per un tragitto politico che porti rapidamente a una costituzione per un unico stato federale, che come già avviene per la Zona euro convivrà con i paesi che non avranno accettato questo progetto.

3. I nuovi gruppi nel Parlamento europeo dovrebbero essere la rappresentanza di veri partiti europei, e i rispettivi partiti nazionali dovrebbero essere solo diramazioni di quelli.
Ciò comporterà la destrutturazione dei gruppi politici oggi esistenti, che costituiscono un coacervo di potere che contiene al suo interno rappresentanze politicamente assai disomogenee.

4. Occorre portare come primo punto nel dibattito preelettorale e nella propria agenda politica la contrapposizione non più tra sovranità ed europeisti, ma tra sostenitori di questa Unione inefficace e Unione dei cittadini.
Senza una vera iniziativa l’Unione dei cittadini, che innalzi aspettative, visione politica, impegni programmatici seri, declinati in diritti di libertà e di democrazia per tutti, e perciò finalmente comprensibili , le prossime elezioni europee del 2024 non potranno che essere l’occasione del trionfo dei nazionalismi. Il cui passo successivo, come la storia ci insegna, sarà quello di inasprire le relazioni reciproche e ridare corso all’eterna guerra europea.
Come abbiamo constatato nessuna conquista di libertà,  di pace e di civiltà è raggiunta per sempre. Gli eunuchi del senso comune se ne facciano una ragione, e scelgano finalmente tra  UE  dei cittadini e barbarie.
La creazione di uno Stato Federale Europeo, forte e compatto, è l’unica possibilità, per il nostro pianeta, di riportare un equilibrio geopolitico atto a limitare altre guerre e a consentire le condizioni per una stagione di progresso planetario che sappia affrontare seriamente le emergenze del cambiamento climatico e dell’emigrazione di massa.

Il campo innovatore a cui appartengono i socialdemocratici, i liberali ed i verdi che governano attualmente insieme in Germania, Belgio e Lussemburgo ma che potrebbe aprirsi ai popolari contrari ad un accordo di centro-destra e alla sinistra europeista,  dovrebbe promuovere una comune alleanza politica per un sistema europeo  rinnovato – in contrasto con il testo originario del Trattato di Lisbona che prevedeva un collegio di diciotto membri – in cui si è stabilito che il collegio sia composto da un commissario per paese e che la lista dei membri della Commissione sia adottata dal Consiglio “di comune accordo con il Presidente eletto” della Commissione.

Il programma minimo è presto detto.

Rovesciare le politiche comunitarie passate e sciogliere tutte le contraddizioni oggi tollerate. E farlo presto:

a) Abbandonare il metodo degli Spitzenkandidaten che costringerebbe ogni famiglia politica a presentare un suo candidato e scegliere piuttosto la via di un candidato consensuale alla Presidenza della Commissione europea nelle riunioni dei leader socialisti,  liberali  e verdi  che precedono i vertici del Consiglio europeo riflettendo anche sull’ipotesi di una unificazione delle presidenze europee (Commissione e Consiglio europeo)
b) Definire le priorità comuni per la prossima legislatura europea da sottoporre al Presidente scelto a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo come condicio sine qua non per eleggerlo in assemblea. In sintesi tali priorità sono lo stato di diritto, lo spazio di libertà e giustizia che metta al centro  il cittadino individuo collegando le politiche quotidiane con i valori  condivisi. Vale a dire, la fiscalità, il bilancio federale, un piano Nord-Sud, il welfare europeo, un nuovo trattato  per la cooperazione e la sicurezza in Europa. Ed insieme il far condividere la cura del clima ai cittadini, diffondendo le azioni volontarie – e non l’attitudine dirigista – onde prevenire e controllare l’inquinamento in termini scientifici, e preservare costantemente l’ecologia ambientale; il non dettare norme sulla qualità del cibo confondendo l’informazione delle caratteristiche salutari con una sorta di moda nelle forniture dei servizi al pubblico, il non avere la pretesa  di sviluppare un programma educativo standard dal sapore dirigista per stili di vita sani,  lo stabilire norme sanitarie minime a livello dell’UE e il prevedere competenze condivise tra UE e Stati, il gestire un efficace sistema sanitario pubblico diffuso e il vigilare sul corretto funzionamento territoriale sia delle iniziative pubbliche che del valore sanitario delle strutture private,  ruoli complementari ma essenziali per far sì che il cittadino europeo usufruisca della migliore assistenza nelle cure sanitarie;  l’assicurarsi che tutti i cittadini dispongano dei mezzi minimi di sopravvivenza (perché mentre la povertà costituisce un evento ineliminabile tra le difficili sfide del vivere, i mezzi minimi di sopravvivenza sono l’ultimo confine per mantenere la vitalità e la capacità di esprimersi quale cittadino) e dunque garantire il reddito universale  ad ogni  europeo, il quale non disponga almeno di un reddito pari ad un importo prefissato dal Parlamento, che è il confine di sopravvivenza (ciò per allargare il più possibile il numero di cittadini in grado di esercitare il proprio senso critico a disposizione dell’intera convivenza UE), e insieme far sì che il salario minimo (i cui parametri saranno superiori all’importo confine del reddito universale) serve a garantire una vita dignitosa, rispetto al costo della vita e alle retribuzioni più alte e perciò a  favorire un rapporto equilibrato senza privilegi di posizione, tra lavoro prestato e il suo costo sostenuto dal datore di lavoro, un equilibrio alla base dell’iniziativa economica aperta nella UE.
c) Presentare alle elezioni europee candidati comuni come membri della futura Commissione europea ribadendo nel Consiglio europeo e nel Consiglio il sostegno al metodo delle liste transnazionali
d) Condividere il progetto del superamento – prima delle nuove adesioni all’Unione europea – del Trattato di Lisbona proponendo di seguire il metodo democratico costituente al posto del metodo paralizzante intergovernativo e ribadendo la centralità della collaborazione fra Parlamento europeo e parlamenti nazionali anche attraverso la convocazione di “assise interparlamentari” come quelle che si svolsero a Roma nel novembre 1990 su suggerimento di François Mitterrand
e) Rilanciare l’idea presentata nelle Conferenza sul futuro dell’Europa di un referendum pan-europeo per la ratifica di un nuovo Trattato di natura costituzionale.

Su questa base facciamo appello alle organizzazioni rappresentative della società civile e a tutti gli elettori affinché sostengano nella campagna elettorale europea i partiti che avranno condiviso il programma qui esposto affinché questo campo possa conquistare la maggioranza assoluta nella nuova assemblea e condizionare con il voto dei suoi eletti l’agenda e la composizione della Commissione europea.
Così facendo si introdurrebbero nella campagna elettorale europea gli elementi di un vero dibattito e di una vera alternativa fra l’immobilismo sovranista e l’innovazione federalista dei cittadini.

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ANALOGIE  TRA  QUANTISTICA  E  LIBERO  CONVIVERE

L’assegnazione ad Alain Aspect del Premio Nobel 2022 per la Fisica è il punto conclusivo del dibattito sulla meccanica quantistica tra due giganti della Scienza, Einstein e Bohr. Iniziato nel 1927,  non fu pura accademia ma toccò i meccanismi più profondi del come conoscere la realtà. Così profondi che, sviluppandosi nei decenni successivi, hanno già portato (e continuano ancora ) ad una mole di scoperte tecnologiche del massimo rilievo basate sugli studi nel campo quantistico, con importanti e continue applicazioni pratiche nella vita quotidiana di noi umani.   

Non solo. La quantistica concerne le dimensioni microscopiche, ma tali dimensioni sottostanno anche al mondo attorno a noi. Dunque le scoperte quantistiche possono fornire indicazioni determinanti pure alla dimensione umana.  E perciò sui criteri utilizzabili nel convivere. Pertanto, farò un cenno essenziale ai contenuti del dibattito del 1927, agli avvenimenti successivi e al Nobel di Aspect (per farlo recensirò il recentissimo piccolo volume delle Edizioni Dedalo scritto nel 2019 dallo stesso Aspect),   e infine arriverò alle indicazioni analogiche circa i criteri nel costruire il nostro convivere.  

Dal dibattito tra grandi scienziati al Premio Nobel. Il dibattito del 1927 al Congresso Solvay (o  più esattamente nel quinquennio 1925-1930) verteva sui fondamenti della meccanica quantistica. Da non molto era divenuta acquisita l’idea  del dualismo onda-particella, sia della luce (proposta da Einstein) che delle particelle materiali (proposta da De Broglie). E dopo era stata sviluppata un’equazione (da Schrodinger) che  esprimeva l’evolversi in termini matematici di un sistema quantistico, in particolare calcolando i livelli energetici di un elettrone entro l’atomo. E stabiliva che una particella ruotava (lo spin) in  un senso o nell’altro, ma anche insieme nei due sensi finché non veniva misurata (detta sovrapposizione quantistica). L’equazione funziona perfettamente. Ma come va interpretata dal punto di vista fisico? Sta qui il nodo e l’importanza del dibattito tra Einstein e Bohr.

Einstein sosteneva che siccome l’equazione non   fornisce un risultato univoco, bensì ogni volta due possibili valori alternativi, ciò indica che la teoria quantistica è incompleta. Doveva esserci una variabile nascosta. E, vista l’inesistenza all’epoca di tecniche sperimentali adatte, per provare l’incompletezza ipotizzava esperimenti ideali, convinto che una teoria fisica compiuta è per forza deterministica anche su scala atomica. Bohr replicava con il principio di complementarietà, per cui gli aspetti corpuscolare e ondulatorio di un fenomeno fisico coesistono ma sono mutuamente esclusivi (vale a dire sono entrambi indispensabili per  descrivere il fenomeno ed includono il principio di indeterminazione di Heisemberg,  secondo cui non è possibile misurare con cura velocità e posizione insieme). L’interpretazione di Bohr  esprimeva di fatto una descrizione probabilistica della natura. Bohr andava anche oltre e suppose che  fosse lo strumento di misura  a determinare la natura effettiva dall’oggetto, se onda o particella.

Negli anni successivi il dibattito Einstein Bohr proseguì vivace , pur suscitando interesse ridotto dati i grandi successi operativi indotti dall’equazione. Nel 1935  Einstein, insieme ai collaboratori Podosky e Rosen, illustrò una nuova confutazione in uno storico articolo (conosciuto come EPR). L’equazione della fisica quantistica porta ad individuare tra le coppie di particelle uno strano stato, consistente in correlazioni che, una volta nate,  permangono anche quando tra le due componenti ci sono  grandi distanze (stranezza denominata “intricazione”  da Schrodinger e oggi più nota come entanglement). Einstein  concludeva che  tale correlazione è spiegabile solo ammettendo che le particelle abbiano proprietà supplementari non contemplate nell’equazione ma che determinano l’uno o l’altro dei suoi due risultati equiprobabili (da qui la necessità di completare il formalismo quantistico). Bohr argomentò subito  l’impossibilità di una simile conclusione (seppure con minore efficacia rispetto al ’27), e al momento il confronto rimase congelato. Anche viste le strabilianti conseguenze innovative dell’equazione quantistica e del dualismo onda particella.

 A differenza della fisica classica, le conseguenze dell’equazione quantistica permisero di capire una serie di fatti fino ad allora inesplicabili.  Il perché l’elettrone non cade sul nucleo, vale a dire la stabilità della materia, o il perché gli isolanti non sono conduttori, oppure come la luce viene emessa e assorbita, oppure capire la superconduttività, oppure l’uso dei semiconduttori. Permise in seguito  di arrivare ai transistor ed infine alla luce  laser.

Un trentennio dopo , nel 1964, il fisico Bell si accorse che la conclusione dello scritto EPR , portava a stabilire, con un semplice ragionamento matematico, l’esistenza di un limite massimo per le correlazioni tra le particelle intricate (dette diseguaglianze di Bell). In seguito , nel 1982, Aspect e un suo dottorando riuscirono per la prima volta a produrre dei fotoni singoli. Con questi vennero avviate delle sperimentazioni che confermarono intanto la natura duale onda-particella di ciascun fotone e in seguito (altri 25 anni dopo, quando ci furono i mezzi necessari) pure il ruolo decisivo della strumentazione usata nella misura al fine di determinare il carattere dell’oggetto misurato (che era stata appunto la supposizione di Bohr).

Inoltre,  effettuando subito altri esperimenti, Aspect e il suo gruppo riuscirono presto ad osservare che le correlazioni tra le particelle intricate superavano le disuguaglianze di Bell. Smentendo perciò la tesi dello scritto EPR. Quindi non c’era bisogno di completare la teoria quantistica (come sostenuto da Einstein), la quale nel suo ambito risultava già completa. Insomma, il mondo quantistico microscopico  è probabilistico.  A questo punto, nel libro qui recensito, Aspect annota che “questo risultato è ancor più sorprendente del dualismo onda-particella. Sembra vi sia uno scambio istantaneo tra due particelle distanti…. Qualunque sia la  distanza fra le particelle, esse si comportano cme un tutto indivisibile, talmente inseparabile che il legame fra esse pare sfidare la relatività. Il fenomeno viene chiamato non località quantistica”.

Nel complesso,  il lavoro di Aspect ha soprattutto messo insieme il modo di produrre un singolo fotone, la prova definitiva  della dualità onda particella , la conferma sperimentale dell’intricazione, quando c’è, tra due particelle della medesima coppia, la capacità di produrre separatamente tali coppie misurandole una alla volta e in genere di manipolare singoli oggetti quantistici.  Tutto ciò ha prodotto grandi novità.  Quella fondamentale (per la quale Aspect ha avuto il premio Nobel, insieme a Clauser e Zeilinger) è che moltiplica lo sviluppo dell’informazione quantistica, mettendole a disposizione un sistema di calcolo provvisto di una dimensione superiore.

Dimensione superiore  che si fonda sul fatto che la memoria di una macchina  quantistica non è più basata sul bit ordinario (che ha due valori possibili, 1 oppure 0, alternativi tra loro) bensì sul bit quantistico, il qbit (che ha ancora due valori  possibili, 1 oppure 0,  ma possibili allo stesso tempo, vale a dire come un fotone intricato che sovrappone i suoi due stati di valore).

Di conseguenza, operando con il qbit   sono disponibili molte più combinazioni: ad esempio con due qbit, 0-0, 0-1, 1-0, 1-1, con tre qbit  otto possibilità 0-0-0, 0-0-1, 0-1-1, 0-1-0, 1-1-1, 1-0-1, 1-0-0, 1-1-0, con quattro qbit sedici possibilità, e così via aumentando le possibilità in base ai qbit disponibili. Intricando dieci qbit otteniamo mille024 possibilità, intricando venti qbit otteniamo 1milione48.576 possibilità, eccetra. Quindi   la memoria dell’informazione quantistica opera nel medesimo istante su un numero molto maggiore di casi  e così diviene capace di risolvere in tempi umani problemi di calcolo complicatissimi non risolvibili dai computer tradizionali negli stessi tempi. In conclusione, con l’informazione quantistica è essenziale il numero dei qbit intersecati. Da tener presente la difficoltà di raggiungere l’obiettivo, al punto che negli ultimi quarantanni tutti i maggiori laboratori del mondo sono riusciti ad intersecare solo una ventina di fotoni.

Non è un caso che  lo strumento operativo basato sull’informazione quantistica, cioè il computer quantistico, è un’invenzione che sta maturando solo da circa 25 anni, prima a livello teorico, e poi con macchine reali che iniziarono ad essere introdotte in ambito commerciale. La capacità operativa del computer quantistico  sta crescendo parecchio nell’ultimo quinquennio.

Le analogie con il costruire libere istituzioni. Fermiamoci qui nel recensire il libro della Dedalo e passiamo a riflettere sulle indicazioni analogiche ricavabili circa i criteri da adottare nel costruire il nostro libero convivere istituzionale. La cui dimensione è sì assai superiore a quella della quantistica ma ad essa è connessa nel profondo dell’universo materiale e nelle relazioni tra gli umani viventi . La circostanza che ad oggi la fisica ordinaria della terra e quella quantistica siano differenti sotto più aspetti, si motiva non soltanto per le diverse dimensioni di rispettiva validità, ma anche (e forse soprattutto) per essere nate  in due epoche storiche successive.

Durante i lunghi secoli in cui la prima fisica si è sviluppata – sostituendo progressivamente i libri sacri religiosi e le mitiche tradizioni imposte dai potenti di turno –  le osservazioni sperimentali hanno consentito di costruire un edificio di regole più volte rivisto dai ricercatori ed affinato secondo varie formule matematiche. Poi  quando all’inizio del ‘900 è iniziata la seconda fisica, essa è stata concepita ad una dimensione microscopica ed è subito apparsa avere una natura differente, fin dalle formule matematiche  descrittive, dalla fisica ordinaria esistente.  Molti grandi fisici dell’epoca giudicavano incompleta  la quantistica, a cominciare da Einstein,  secondo il quale il miglior modo di completarla era trovare una nuova formulazione matematica che portasse la quantistica ad unificarsi con la fisica ordinaria. Ebbene, il lavoro di Aspect ha posto fine alla convinzione di Einstein, provando che era nel giusto l’interpretazione di Bohr della quantistica.  E lo ha sancito il premio Nobel del 2022.

Ne consegue che il nesso tra fisica ordinaria e fisica quantistica  di certo non va cercato in una teoria unica. Va piuttosto studiato il tipo di nesso esistente tra le due fisiche nel profondo dell’universo materiale, che rimane lo stesso. Naturalmente questo studio spetta agli scienziati del ramo, i quali continuano a sperimentare nuove ipotesi, per raggiungere delle conoscenze ancora più ampie, che, se confermate, vedranno la luce nel tempo futuro. Peraltro,  le scoperte quantistiche acclarate finora, debbono indurre in tutti una grande riflessione sul come i meccanismi della quantistica a livello microscopico abbiano analogie nel definire le relazioni tra gli umani viventi. E’ assurdo confinare il brulicare della vita alla dimensione esteriore del mondo. Perché il brulicare ha radici che penetrano nella profondità delle piccolissime dimensioni.  E perciò diviene fisiologico impegnarsi a cogliere le analogie con la quantistica quando si lavora al costruire le istituzioni quadro della convivenza umana. Analogie da sottoporre di continuo alla verifica sperimentale, e di cui tenere il massimo conto.

La prima analogia ineludibile, è il riconoscere come, nel costruire il convivere,   sia indispensabile stare ai fatti reali , rifuggendo la pratica plurisecolare di costruirlo applicando le teorie dei libri sacri religiosi oppure le ideologie. Tutte culture  per natura propense a legare la vita umana a prospettive esterne alla realtà, illusorie e portatrici di schiavitù di vario tipo più o meno esplicite. A cominciare dal percepire la realtà come continua (radice del non aver colto per duemila anni l’esistenza dei quanti di energia), cosa che invero non sussiste e che è frutto della fisiologica impossibilità degli organi di senso umani di rilevare le microscopiche distanze, inclinando a vedere integralmente compatto qualsiasi sistema.

La seconda analogia, nel costruire gli istituti del convivere, è il riconoscere che la realtà è dominata dalla probabilità e non ricorre a forme di  determinismo automatico nei modi e nei tempi.  Ciò significa che il sistema della libertà tra i cittadini è il solo adatto a governare il convivere in termini fecondi (in quanto non deterministico). Purché si caratterizzi non nell’esibirne il nome ma nel fondarsi davvero sulle manifestazioni e sulle scelte individuali di cittadini autonomi. E dunque aborrendo  il mero conformismo  verso le tesi diffuse dai gestori del potere e non confondendo mai la libertà con idee di altra base,  quali il riferirsi a masse indistinte di cittadini.

La terza analogia verte sull’insegnamento della quantistica. Esso mostra che le onde esistono solo in quanto insieme di soggetti diversi uno dall’altro, che allo stesso tempo  , siano essi intricati o meno, manifestano traiettorie simili mantenendo la propria diversità.  Nella convivenza umana,  questa terza analogia conferma la seconda e porta alla scelta di abbandonare ogni progetto  politico fondato su masse indistinte piuttosto che sui cittadini individui.  Fa comprendere come l’esistenza di traiettorie simili  in un insieme di  soggetti diversi, non intacchi il dato che la propulsione all’agire risiede nelle scelte dei singoli soggetti diversi. Scelte nel complesso probabilistiche, non deterministiche.  E pertanto non dovute ad una inesistente completa uguaglianza dei soggetti  autori, bensì al fatto che i soggetti autori si esprimono disponendo ognuno di un uguale diritto legale nelle relazioni del convivere e per il resto manifestando scelte diverse in un ampio arco di possibilità.

La quarta analogia tra quantistica e convivere , visto che nella vicenda quantistica è provata la non esistenza della piena prevedibilità,  sta nel non ritenere il predisporre un progetto sufficiente a realizzarlo e perciò nella consapevolezza che ciascun progetto si realizza  a passo a passo. Ciò implica  per la libertà progettuale, che ogni  esecutore materiale abbia un  ruolo specifico. Nonché la necessità che l’esecutore resti autonomo pur mantenendo una rete di relazioni e che partecipi  alla convivenza esprimendo sé stesso in modo propositivo, senza limitarsi al dissenso.

La quinta analogia con la vicenda quantistica è non smettere, al passar del tempo, di ricercare il conoscere ciò che ci circonda (a cominciare dall’individuare le risorse ed i mezzi di sussistenza). Il modo per farlo è praticare la scienza sperimentale e utilizzare i suoi ritrovati tecnologici, senza cedere alla propaganda contro di loro dei clericali, basata sulla paura del nuovo e sul proseguire per forza la tradizione. Di fatti, l’aver incluso il probabilismo comporta l’ineluttabilità del cambiare e quindi impone l’adottare quale fattore chiave ineludibile il  tempo che scorre (oltretutto visto che l’intricazione, negando la stretta connessione spazio tempo supposta da Einstein, ha reso non sempre operativo il concetto di distanza nello spazio). E lo scorrere del tempo richiede di continuo nuove energie e risorse per alimentare i meccanismi vitali.

La sesta analogia con la vicenda quantistica sta nell’accettare che una traccia nel mondo ogni umano la lascia solo con i suoi comportamenti e il suo manifestarsi pubblico (condizione  equivalente alla necessità di misurazione per conoscere quale sia lo spin della particella). Ciò esclude il poter fare a meno di un’istituzione che raccolga le regole del convivere tra cittadini diversi. Vale a dire la ricorrente suggestione  di abbandonare quel fattore stato che ha preso piede nei secoli.  

La settima analogia con la vicenda quantistica si applica all’espandersi  capillare dei collegamenti elettronici  a livello mondiale, colmando distanze enormi, connettendo sistemi politici opposti e ponendosi al di là delle condizioni socio economiche dei vari territori. E’ un espandersi che rimane distinto dall’intricazione del quantismo. Che peraltro  – a partire da metà anni 1970 con l’avvio del connettersi di terminali e computer mediante reti diverse e poi dall’inizio dell’ultimo decennio ‘900 con il World Wide Web, i cellulari e il GPS – si è differenziato sempre più dal modo di telecomunicare preesistente, con un’interconnessione assai diffusa capace di offrire servizi informativi e lavoro intellettuale a distanza, in tempi pressoché istantanei. Quindi aumentando ruolo e peso dei cittadini individui, con le conseguenti problematiche dell’integrare le  regole del convivere.  

Il comportamento dei liberali. Delineate così  le sette analogie fondamentali tra la meccanica quantistica  (quale è ad oggi) e i criteri con cui va governata la convivenza umana, risalta evidente che in radice esse collimano con il metodo liberale nel rapportarsi all’andamento del mondo reale. Peraltro va fatto un richiamo  sostanziale. Sia l’analogia con la quantistica che l’anima del metodo liberale, rispettano i tre criteri della libertà, della singolarità individuale e della diversità di ciascuno. Ne consegue che il collimare con il metodo liberale non può essere mai disgiunto dalla diversità, e che per tale via (la riconosciuta esistenza di altri soggetti che non sono liberali né riescono ad avere comportamenti liberali) evita  nel convivere concentrazioni dominanti o addirittura monopolistiche. Pertanto  il fatto che l’organizzazione del convivere debba modellarsi sul metodo liberale, non può trasformarsi nel  prevalere di una forza politica specifica e non  da  alcun privilegio. La presenza di una formazione esplicitamente a favore del metodo liberale, anche se piccola, ha peraltro la funzione chiave di mantenere l’adozione di una coerente impostazione del sistema di convivenza nei confronti delle analogie con la quantistica prima elencate.

E’ ovvio che anche i sostenitori del metodo liberale siano  tenuti ad agire nel pieno rispetto   del metodo. Per cui non possono in alcun caso stravolgere il senso della libertà di scambio, dell’individualismo responsabile, della diversità aperta,  e farli divenire libertà imperiale, individualismo prevaricatore, diversità di un clan. Mantenersi coerenti al metodo della libertà nei suoi vari aspetti di tolleranza e di pacatezza, di spirito critico e di provvisorietà –  mai ricorrendo alle logiche dei libri sacri religiosi o ideologici e ad atteggiamenti  espressivi violenti e chiusi al dibattito – , è una via irta di sfide ardue, ma è l’unica in grado di far progredire a passo a passo le condizioni materiali della convivenza umana. Nella consapevolezza che , come per la quantistica, continueranno le scoperte innovative  nell’ambito del convivere istituzionale.

 Oggi, per i liberali, gli argomenti o più urgenti in tema di definizione di regole di convivenza adeguate, sono l’Intelligenza Artificiale e il come affrontare la forte pressione contro il libero convivere prodotta da culture non solo antiliberali ma perfino antidemocratiche. L’Intelligenza Artificiale è una protesi delle facoltà umane sempre più efficace purché mantenuta sempre imperniata solo su tali facoltà e da esse dipendente. La forte pressione contro il libero convivere va contrastata con il fermo e continuo richiamare la pratica dei principi della libera convivenza e insieme con il blocco di forme esibite  nei luoghi educativi, che siano chiara propaganda contro l’aperto relazionarsi tra diversi.

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Trappole al cittadino nell’8xMille

Nel 2023, sul sito del Governo sono opportunamente illustrati natura e funzionamento dell’otto per mille a diretta gestione statale. La natura è la quota del gettito Irpef che ogni cittadino può scegliere di destinare allo Stato. Il funzionamento è   mettere la firma nel box dedicato allo Stato e , se il contribuente lo vuole, anche indicare il codice per la destinazione specifica: sul sito sono previste cinque possibilità, tra cui “Beni culturali”. L’illustrazione prosegue dettagliando ognuna di queste cinque possibilità e , a proposito dei Beni Culturali, indica tra le opzioni possibili il “Fondo edifici di culto o mobili, anche immateriali, che presentano un particolare interesse, ai sensi del Codice dei beni culturali”. Sembra una descrizione impersonale senza problemi, ed invece nasconde una trappola per la convivenza di cittadini autonomi.

La trappola si cela nel fatto che questo Fondo, il FEC  – che ha le radici nella soppressione (risalente al periodo 1855- 1873)  degli enti ecclesiastici secolari non finalizzati alla cura delle anime e nella confisca del patrimonio accumulato fino ad allora (onde eliminare i privilegi della manomorta dei beni cattolici), che è stato ripreso nel Concordato del 1929 e fissato poi, dopo il nuovo Concordato 1984, nell’art. 55 della legge 222/1985 – ha come missione istituzionale, la conservazione, il restauro, la tutela e la valorizzazione delle chiese ex monastiche o ex conventuali, annesse cioè ai monasteri e ai conventi soppressi dal 1855 al 1873. Perciò il FEC è dedicato ad edifici di interesse culturale che, vista la storia del nostro paese,  rientrano nell’esercizio del culto cattolico (di fatti il Fondo è sì un ente-organo del Ministero dell’Interno, però amministrato con un Consiglio di nove membri di cui tre designati dalla Conferenza Episcopale Italiana). Peraltro la trappola non consiste né in questa caratteristica di per sé e neanche nell’accollarsi  dello Stato tramite il Fondo di parte degli oneri del manutenere tali edifici. La trappola  consiste nell’inserire l’opzione “Fondo edifici di culto” entro la possibile scelta ottoxmille allo Stato  accoppiata all’altra possibile scelta dell’ottoxmille alla Chiesa.

Perché una trappola? Perché il cittadino che vuol finanziare la Chiesa (nei  tre settori di legge, il sostentamento del clero, le esigenze di culto, gli interventi caritativi) può farlo attribuendole il gettito del suo ottoxmille. Chi non sceglie  la Chiesa e invece da il proprio ottoxmille allo Stato, intende  contribuire a finanziare lo Stato. Tuttavia, l’opzione “Fondo edifici di culto” modifica la situazione. Di fatto introduce la possibilità di finanziare di nuovo la Chiesa mediante lo Stato. Il che contrasta con l’intento di chi sceglie di dare l’ottoxmille allo Stato. Insomma è una maniera furbastra per agevolare la Chiesa Cattolica. Né si può tirare in ballo la funzione adottata dallo Stato di contribuire in via ordinaria alla conservazione degli edifici religiosi storici. Perché questa conservazione è una funzione di sostegno all’esercizio di ciascuna  confessione, cui far fronte mediante le decisioni del Governo con il gettito fiscale (siccome si tratta di edifici usati tutt’oggi per svolgere i culti), mentre il finanziamento tramite il Fondo edifici di Culto viene attribuito al cittadino contribuente, e così fa credere che si alleggeriscano le decisioni pubbliche a favore della Chiesa.  Dunque, una trappola per il cittadino autonomo, cui vien fatta credere una cosa mentre la realtà è un’altra. E’ perciò necessario che i laici lo denuncino e ne stiano lontano.

Inoltre, visto che si tratta dell’argomento Fondo edifici di culto, va osservata un’altra cosa circa il suo patrimonio. Al momento attuale, dopo un quarantennio dall’ultima legge, non è affatto chiaro a chi, tra Stato e enti ecclesiastici, appartengano molti cespiti componenti tale patrimonio. Di fatti, visto che  la personalità giuridica è stata estesa ad ogni singola parrocchia e diocesi, nel decennio seguente alla 222/1985, interpretando il Consiglio di Stato l’amministrazione  consegnò in proprietà alcuni edifici sacri agli enti cui era stata riconosciuta la personalità giuridica. Dopo il 1995 tale procedura fu sospesa, viste le notevoli reazioni alla dismissione di immobili di grande rilevanza. Allora, il Ministero dell’interno sistemò i rapporti con l’autorità ecclesiastica mediante atti di concessione in uso a titolo gratuito e a tempo indeterminato. Ma la definizione della materia, per una serie di complicazioni procedurali ed indecisioni dei vari enti coinvolti negli anni – dalla Presidenza del Consiglio alle diverse Commissioni interessate per qualche titolo – resta ancora irrisolta. Di conseguenza sono non del tutto definite anche le problematiche degli oneri manutentivi (tanto che esiste pure qualche contenzioso). Anche sul punto il mondo laico dovrebbe chiedere di fare presto chiarezza.

Nel complesso, è evidente che nella materia ottoxmille il rapporto Stato Chiesa Cattolica è pervaso da consistenti ambiguità metodologiche. Questo articolo tratta del FEC, ma a giugno ho parlato di un altro raggiro al cittadino, quello dell’inoptato, un meccanismo pensato per vanificare nella sostanza le scelte compiute davvero dal contribuente e finanziare più largamente la Chiesa Cattolica. I due meccanismi sono analoghi nell’intrappolare i cittadini.  Danneggiano il rapporto effettivo tra Stato e Chiesa e non sono casuali, dato che favoriscono soprattutto i traffici dei clericali – incistati nei gangli della pubblica amministrazione – che sono massimi fautori dell’agire nell’ottica del potere di chi lo detiene a scapito dei cittadini individui.

E’ l’ora che i laici smettano di lamentarsi della Chiesa e agiscano contro i veri nemici clericali.

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Un programma liberale alle elezioni UE 2024

Con la fine dell’estate, si apre di fatto la campagna elettorale per le elezioni europee del giugno 2024. Il modo corretto di iniziarla non è però accapigliarsi sulle alleanze, bensì impegnarsi a definire i programmi con i quali affrontarla per far scegliere ai cittadini il futuro dell’UE.  Con questo articolo proponiamo quattro punti che individuano un programma della cultura liberale.

Il primo punto è ridurre nell’UE il peso degli stati membri e aumentare quello degli elettori; in sostanza imperniare l’UE sui cittadini ed accrescere le decisioni prese dai conviventi. Ciò comporta, in economia, far convergere i paesi membri per dotarsi della medesima struttura fiscale, per completare il mercato europeo dei capitali, per smettere di utilizzare organismi, quale l’attuale Meccanismo Europeo di Stabilità, estranei per struttura al diritto UE (quindi assai lontani dai cittadini). Insomma, l’UE va costruita sulle scelte dei cittadini e non sulle burocrazie europee. Che è la grande innovazione del progetto UE. Inoltre, nei rapporti internazionali, l’UE deve essere paladina della libertà negli scambi senza confonderla con quella cui si pretende di far svolgere un ruolo imperiale. È solo la libertà di scambi che esercita la propria fisiologica superiorità sulle autocrazie e così promuove il carattere occidentale dell’UE. 

Il secondo punto è far condividere la cura del clima ai cittadini.Perché ora il sistema UE per combattere il peggioramento climatico è assai carente sotto due aspetti. Uno è il considerarlo il frutto esclusivo della dissennata produttività umana nel rapportarsi all’ambiente e nell’usarne le risorse; l’altro è ricorrere ad un rimedio pensato in sede teorica (soprattutto dalle burocrazie di Bruxelles) a prescindere dal complesso dei bisogni nati dalle interrelazioni quotidiane tra i conviventi. Il cui sottostante disegno politico ha una sola dimensione. Fare del problema climatico lo spartiacque tra i cittadini disposti a stare insieme secondo il conformismo ed i cittadini conservatori dei propri privilegi e quindi sordi ai pericoli degli sbalzi climatici.

Una simile inadeguatezza rende l’impegno UE sul clima non incisivo.  Affrontare in concreto la sfida della rapidità del cambiamento climatico e il ruolo umano, esige di superare la cultura del presente e di essere invece in grado di riflettere sul come si manifestano i rischi derivanti dal clima e sul come adattarsi. Al contrario, l’idea apocalittica e quella negazionista sono ambedue gravemente errate, e rifuggono, contrapposte, il tener conto dei modi di convivere degli individui. È indispensabile coinvolgere i pervasivi stili di vita dei diversi cittadini, per riuscire ad individuare i percorsi terapeutici che eliminino i danni dei meccanismi produttivi o li riducano significativamente.

Il Parlamento Europeo dovrà coinvolgere i cittadini in tutte le pratiche atte a diffondere i rimedi correttivi degli effetti di eventi climatici estremi, partendo dal ricorrere al potenziare l’uso delle fonti rinnovabili e dell’idrogeno per produrre energia e aprendo una stagione di investimenti (anche da parte dei cittadini) a sostegno della transizione energetica. Il diffondersi delle azioni volontarie nell’UE – e non l’attitudine dirigista – è il presupposto per prevenire e controllare l’inquinamento in termini scientifici, e preservare costantemente l’ecologia ambientale.

Il terzo punto è rinnovare la rete della sanità, ampliando il sussulto vitale UE indotto dalla pandemia Covid19. Ai sensi del Trattato vigente, il ruolo UE nella politica sanitaria è un sostanziale coordinamento richiesto dalla libera circolazione delle persone e delle merci. Il dilagare del Covid19 ha indotto l’UE a varare con tre provvedimenti un pacchetto (settore della sanità incluso, seppure in parte) di 2.364,3 miliardi €, abbandonando la rigida austerità amministrativa insensibile alla realtà dei conviventi e non rispettosa delle aspirazioni originarie dell’Europa. Con il medesimo criterio, va potenziato l’impegno UE nel settore della sanità. Vale a dire va dato l’opportuno rilievo al ruolo operativo dei cittadini individui in quanto soggetti da curare e fulcro della mentalità sanitaria diffusa. La sanità ha come obiettivo la terapia del fruitore, non il suo indottrinamento preventivo sulla base delle decisioni di Bruxelles. Quanto agli alimenti, l’UE deve dismettere la volontà di dettare norme sulla qualità del cibo anche per via fiscale negando i gusti e le usanze individuali o territoriali e confondendo l’informazione delle caratteristiche salutari con una sorta di moda estesa alle forniture dei servizi al pubblico. Quanto all’obiettivo di sviluppare, coordinare e finanziare ulteriormente i programmi sanitari di ricerca e innovazione esistenti, esso contraddice il concentrare l’investimento in ambito pubblico e non-profit. Inoltre, l’UE non può avere la pretesa pressoché incredibile di sviluppare un programma educativo standard quanto a stili di vita sani, il che di nuovo ammanta di dirigismo l’azione terapeutica. Sono invece corrette le intenzioni UE di stabilire norme sanitarie minime a livello dell’UE e prevedere competenze condivise tra UE e Stati. Però si fa ancora confusione tra sussidiarietà e ruolo degli attori locali, regionali e nazionali (evitando il riferimento diretto ai cittadini), nonché tra la cooperazione transfrontaliera e la garanzia in sede UE dell’accesso alle cure specie quelle per interventi molto gravi e per i correlati costi finanziari. Né va tralasciato che è una fuga in avanti l’impegnarsi a riconoscere la disponibilità universale dei medicinali proprio in quel settore esteri, introdotto nella UE trenta anni fa, che esprime la concezione degli Stati, in palese contrasto   con quella dell’UE dei cittadini, contrasto non sanato neppure dal Trattato di Lisbona a fine 2009 né ad oggi.

In conclusione, ogni futuro eletto nel Parlamento Europeo con questo programma  dovrà impegnarsi perché la modifica in corso dei Trattati in campo sanitario assegni ad organi UE eletti dai cittadini la piena compartecipazione nell’indirizzare e nel vigilare sulle problematiche inerenti i cittadini degli Stati membri. A cominciare dal garantire che in ogni paese gli investimenti nel settore della sanità pubblica, inclusa la ricerca, non si discostino da un minimo prefissato dalla Commissione UE (norma che interessa l’Italia, oggi distante assai dall’incidenza media sul Pil negli altri paesi).

Principalmente, l’UE dovrà mantenere chiara, in campo sanitario, a distinzione tra i due suoi ruoli fondamentali. Quello di gestire un efficace sistema sanitario pubblico diffuso professionalmente e quello di vigilare sul corretto funzionamento territoriale sia delle iniziative pubbliche che del valore sanitario delle strutture private (se erogatrici di servizi pubblici, da selezionare aprendo a nuovi soggetti). Ambedue i ruoli, nella loro complementarietà, sono essenziali per far sì che il singolo cittadino europeo possa usufruire della migliore assistenza nelle cure sanitarie.  Questione essenziale del convivere per assicurare che l’individuo abbia gli stessi diritti legali e che si realizzi così una vera democrazia.

Il quarto punto del programma elettorale è l’attività economica, visto chel’Europa nasce nel 1957 sulla libera circolazione di persone e di merci. Oggi, pure la libertà di circolazione – dimostratasi ineludibile per promuovere il benessere – presenta aspetti ancora arretrati in tema di impatto sui vari cittadini. A cominciare dai trattamenti fiscali delle attività di ciascun soggetto, fisico o societario, che hanno aliquote diverse a seconda degli Stati membri UE. Poi c’è la tassazione del digitale, nella quale  è emerso il ritardo dei vertici istituzionali, troppo a lungo disattenti al ruolo di un’UE legata agli interessi dei cittadini, e non bloccata dagli interessi corporativi delle multinazionali e degli Stati. Oggi è in corso una trattativa in ambito OCSE per un accordo globale su due pilastri, da definirsi prima delle elezioni UE del 2024. Un pilastro per redistribuire i diritti di imposizione tra i paesi dove i gruppi multinazionali realizzano profitti; l’altro per stabilire la tassazione minima del 15% e ridurre il rischio di erosione dell’imponibile e di trasferimento degli utili. È importante monitorare che tale accordo giunga positivamente a conclusione e venga rispettato.

Rispetto all’UE dei cittadini, è poi decisivo vigilare sul reddito di ciascun cittadino. Qui l’UE è rimasta al passato. Nel senso che fu una grande novità sostituire la pratica pauperistica introducendo il reddito di ciascuno quale essenziale contributo del cittadino all’economia della convivenza. Da allora sono passati più di centocinquanta anni e il successo del nuovo sistema porta oggi a porre un interrogativo diverso. Siccome il fulcro della convivenza è la vitalità del cittadino ed è interesse forte UE assicurarsi che tutti i cittadini dispongano dei mezzi minimi di sopravvivenza (perché mentre la povertà costituisce un evento ineliminabile tra le difficili sfide del vivere, i mezzi minimi di sopravvivenza sono l’ultimo confine per mantenere la vitalità e la capacità di esprimersi quale cittadino), allora come riuscirci?

La risposta è il reddito universale. L’UE deve garantirlo ad ogni cittadino europeo, il quale non disponga di un reddito superiore ad un importo prefissato dal Parlamento, che è il confine di sopravvivenza.  In sostanza il reddito universale sarà un importo che garantisce i mezzi minimi di sopravvivenza. L’obiettivo è allargare il più possibile il numero di cittadini in grado di esercitare il proprio senso critico al fine di contribuire alle risorse a disposizione dell’intera convivenza UE (rammentando che le risorse possono non essere di natura economica in senso stretto, poiché l’esercizio del senso critico fornisce contributi in una pluralità di campi). Insomma, il reddito universale non va parametrato alla produttività di ciascuno, bensì alle sue necessità per vivere.  È la forma moderna di quella che a metà ‘800 fu la lotta al pauperismo.  Il suo obiettivo specifico è innovativo e non si confonde con la lotta alla disoccupazione oppure con lo smuovere il discrimine culturale di una famiglia in origine povera oppure con la problematica del salario minimo (sul compenso economico dei lavoratori).

Quanto al salario minimo, dopo l’approvazione di un’apposita direttiva in Parlamento e poi nel Consiglio Europeo a fine 2022, ogni Stato membro UE ha tempo per recepirla fino all’autunno 2024. Ad oggi, sono cinque i paesi che non prevedono il salario minimo (tra cui l’Italia) e non sono obbligati a recepire la direttiva ma solo a monitorare la situazione di fatto e a renderla nota. Inoltre, esistono differenze sul livello di salario minimo tra i paesi che già lo prevedono e, in riferimento al potere d’acquisto, si constata che la metà di questi è sopra la media UE. Stabilire il salario minimo competerà al Parlamento espresso dai cittadini dei vari Stati entro parametri prefissati (comunque superiori all’importo confine del reddito universale) , pensati per garantire una vita dignitosa, rispetto al costo della vita e alle retribuzioni più alte.

Si tratta di un provvedimento di cui il presente programma condivide l’intento. Non perché sia il primo passo contro le diseguaglianze (retribuzioni differenti esprimono prestazioni differenti di individui differenti, le diseguaglianze sono fisiologiche), ma quello per favorire un rapporto equilibrato senza privilegi di posizione, tra lavoro prestato e il suo costo sostenuto dal datore di lavoro. Un equilibrio alla base dell’iniziativa economica aperta nella UE. Questi nuovi strumenti, reddito universale e salario minimo, ampliano la tutela dei cittadini e comportano che la libera circolazione UE  esplichi in pieno la propria efficacia.

Questo programma ha l’obiettivo di dare anche all’Italia una rappresentanza nell’UE che pratichi il liberalismo e di essere una premessa perché anche il nostro paese abbia un domani una rappresentanza parlamentare della cultura liberale. Perché la cultura liberale è un sostantivo politico e non un’aggettivazione di qualcos’altro.

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