Sui detrattori del sistema del voto di tutti i cittadini

Tutti questi signori stanno ritornando all’epoca pre empirista, in cui il fine essenziale era pensare all’eterno con l’obiettivo di avere il titolo per gestire il potere dell’oggi. Senza dubbio una propensione del genere fa parte dell’umano, solo che l’empirismo aveva attivato il nuovo sistema per superarla in larga parte ed ha riportato successo. Però il sistema empirico è faticoso, poiché richiede una manutenzione continua nell’aggiornarlo e nell’attuarlo. 

Così nell’ ultimo centinaio di anni nell’Occidente,  solo il settore scientifico è stato in sostanza capace  di mantenere una corretta applicazione del nuovo sistema  e non per caso i risultati sono stati e sono in continua crescita. Nel settore della vita ordinaria, invece, è progressivamente tornato a prevalere il seguire le antiche abitudini del conformismo che esalta gli assetti di potere esistenti nel quotidiano e perciò la notorietà personale invece della conoscenza. Tipici esponenti ne sono chi adotta la cultura religiosa in campo civile e chi comunque, sognando di far divenire perfetto il mondo vivente,  propone ogni giorno ideali antiindividualisti più  o meno legati al socialismo del sol dell’avvenire e pochissimo rispettosi della libertà civile. 

In tale clima, vige il pontificare sugli avvenimenti quotidiani solo mirando a misurarne la corrispondenza al supposto dover essere emergente dalle mode elitarie (atteggiamento gonfiato da mezzi di comunicazione impantanati nel fare sempre e solo spettacolo). E siccome i sistemi elettorali rientrano nella strumentazione inventata nel periodo che ha visto l’affermazione del sistema empirista puntando al conoscere di più affidandosi alle scelte dei cittadini individui (con risultati importanti), ne consegue che tali sistemi non rientrano nelle mode elitarie e perciò le elites, pur senza esporsi troppo, persistono nel far circolare l’illusione di poter prescindere dal sistema elettorale e di affidarsi invece solo agli esperti.  

Lo strumento sondaggi, che imperversano talvolta senza neppure essere stati fatti o comunque fatti secondo convenienza, serve appunto a soddisfare i gruppi degli esperti amici e pure riempire paginate dei mezzi di comunicazione , mostrando una propria capacità quasi divinatoria. Così è caduta in disuso la pratica tradizionale dello scovare una notizia e di verificarla. E il risultato del votare è sopportato a stento quando non rispetta le elites amiche.

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Circa un articolo odierno sul Corriere (a Sabino Cassese)

Egregio Professore,

Lei pone una domanda (“il diritto internazionale ha fallito la sua missione pacificatrice nel mondo?”) senza chiarire in partenza quale natura abbia il soggetto della frase. Di fatti, il diritto internazionale c’è come teoria mondialista illiberale che vuol ripetere i secolari rapporti di potere tra gli stati, e in tal caso la presunta missione pacificatrice è solo un paravento diplomatico per ammantare le effettive pratiche belliche. Viceversa,  in termini liberali il soggetto non esiste (ha mai visto il diritto internazionale votato dai cittadini?) ma allora non può avere missioni. 

Insomma, non è possibile eludere l’esperienza nel tempo, secondo cui la pace consegue alla crescita della libertà (non la precede) e la libertà lievita a poco a poco e con fatica solo attraverso la maturazione della consapevolezza di individui che convivono nella diversità confrontandosi in base ai risultati ottenuti.

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In memoria di Nicola Del Basso

Nicola Del Basso è stato un infaticabile cultore dei principi della libertà, degli episodi chiave che ne hanno segnato la storia e dei personaggi di grande rilievo che in periodi diversi ne hanno promosso la concreta applicazione. Infaticabile soprattutto nel diffondere la conoscenza  di questi principi, di questi episodi e di questi personaggi, riprendendo infine il metodo peripatetico del conversare a passeggio  riflettendo e ragionando.

Lo ha fatto fin da giovane nei tardi anni sessanta. Iniziò prendendo parte attiva alla politica nella Gioventù Liberale di Benevento all’epoca del PLI di Malagodi, che, opponendosi al centro sinistra, per la prima volta nella repubblica  aveva mostrato che l’opposizione non antisistema integra la democrazia libera e la distingue. Della GLI fu Segretario Provinciale. E sulla linea della tradizione di Giovanni Amendola e di Raffaele De Caro contraddistinta da un liberalismo dinamico nel sostenere la libertà civile, fu nel 1968 tra i sostenitori della rielezione alla Camera di Gennaro Papa, e all’inizio degli anni ’70 tra i promotori della prima Radio libera beneventana. Nel 1972 divenne il Segretario Particolare del Sottosegretario all’Industria on. Papa  .

Dal praticare i principi della libertà, Nicola Del Basso traeva una naturale cautela nell’agire politico. Una cautela aliena sì dall’imporre una visione, come invece fanno le ideologie o le religioni, ma non per questo meno sensibile al percepire il formarsi nel tessuto del convivere dei nodi di illibertà. E dunque, nel caso specifico della società che era il PLI del periodo centrale degli anni ‘70, non meno sensibile all’avvertire il progressivo crescere della incoerenza con il liberalismo aperto.

Guidato da tale attitudine, Nicola entrò a livello di Partito nella minoranza contrapposta alla maggioranza Malagodi, Bignardi, Badini Confalonieri, Brosio , per poi divenire nel 1975, al Congresso GLI di Salsomaggiore,  uno degli degli avversari di punta della linea di destra giovanile prevalente negli ultimi anni. A partire da Salsomaggiore, le minoranze PLI riuscirono prima a bloccare lo scivolamento dell’intero Partito su posizioni incoerenti con il liberalismo e poi, nei successivi nove mesi, a completare il rinnovamento del PLI con il cambio di Segreteria e l’elezione di Zanone nel 1976.

Nel quindicennio successivo, Nicola Del Basso, ormai maturo, proseguì nell’opera di fattivo sostegno ai principi di libertà civile, lavorando attivamente quale esponente del PLI , a livello italiano quale membro del Consiglio Nazionale e a Benevento quale dirigente provinciale e poi Segretario PLI. Sempre mantenendo il deciso sostegno ad un’azione liberale volta a mantenere fluidi i meccanismi dei rapporti interindividuali dei cittadini. Perché Del Basso era ben certo che la libertà dei cittadini è inseparabile dall’esistere di un’istituzione pubblica che ne stabilisce le regole e che le aggiorna, affidandosi ogni volta alle valutazioni e alle scelte dei suoi conviventi, periodicamente reiterate.

Dopo lo scioglimento del PLI e la caduta della prima repubblica nel 1994, Nicola Del Basso manifestò di nuovo l’attitudine alla cautela nell’esaminare il quadro politico in essere. Non formulò a priori un giudizio negativo contro la discesa in campo di Berlusconi , ma ne osservò i comportamenti nella loro concretezza. Da questi finì per giungere alla conclusione che, al di là dei suoi meriti in sede privata, Berlusconi non aveva la qualità di politico fautore di effettive strategie a favore della libertà civile. Non era un liberale.

E così Nicola Del Basso, nel suo Sannio, continuò ad essere costantemente presente con frequenti  iniziative pubblicistiche e culturali, che, dai primi anni duemila, lo hanno mantenuto sul proscenio dell’impegno per la libertà. E di cui gli scritti contenuti nella presente pubblicazione sono un esempio significativo, proprio perché vertono con efficacia sui caratteri rilevanti dei principi di libertà civile. Ripartibili in tre gruppi: ricordo in chiave critica del passato, risalto al ruolo del cittadino libero, richiamo alla necessità di continuo sostegno ai principi.

Il primo gruppo. La libertà civile ricorda la storia inquadrandola in precisi giudizi critici sugli attori, sugli avvenimenti e sulle conseguenze di ciascun episodio e dei periodi nel complesso. Nella pubblicazione degli articoli di Del Basso vengono trattati tre casi.

Le due decisioni funeste  seppure con esiti differenti, di entrare in guerra nel 1915 e nel 1940. Nei suoi due articoli, Del Basso ripercorre con pochi tratti i rispettivi quadri cui il nostro Paese andò incontro. In apparenza assai diversi, ma ambedue accomunati da disegni emotivi nella strategia politica e da impreparazione in termini militari ed economici, che finirono per danneggiare il Paese.

Il 24 maggio 1915, il governo Salandra, voluto dalla Corona la quale da mesi manovrava intensamente per compiacere gli interventisti che manifestavano nel paese con l’appoggio della grande stampa, di poteri economici (inclusi numerosi ambienti cattolici  in dissenso con il Papa) , massoneria, minoranza socialista, notissimi letterati e futuristi, pose fine al neutralismo e dichiarò guerra all’Impero Austriaco, nonostante che dieci giorni prima  quattro quinti dei parlamentari avesse platealmente ossequiato Giolitti che era favorevole al restare neutrali.

Nel suo articolo Del Basso non dettaglia le fasi del conflitto (che fu vinto sul campo solo dopo la sostituzione del gen. Cadorna, ossessionato dalla strategia delle offensive a prescindere, con il gen. Diaz di gran lunga più attento alle reali condizioni dei soldati e degli armamenti), ma giustamente sottolinea l’inutilità della vittoria (l’Italia avrebbe ottenuto lo stesso, attraverso trattative politico- diplomatiche con le potenze vincitrici, i territori storicamente italiani abitati da popolazione italiana, quali il Trentino e la Venezia Giulia) e oltretutto si sarebbe risparmiato il regalo del fascismo, prodotto dai profondi disagi economico sociali creati dalla guerra e dall’esaltazione irredentista.

Il 10 giugno 1940, Mussolini decise di entrare nella seconda guerra mondiale convinto che Hitler fosse a poche settimane da una trionfale vittoria in Francia e che perciò l’Italia avrebbe partecipato alla divisione del bottino senza troppa fatica. Questo calcolo dissennato, ribadito in pochi mesi da ulteriori avventure in Albania, in Grecia, in Slovenia e poi dal dichiarare  guerra agli Stati Uniti e all’URSS, ha fatto del 10 giugno 1940 la data più sciagurata della storia moderna italiana,  perché – oltre ad una serie di altri guai  – ha causato la divisione del Paese in una guerra civile dagli effetti persistenti nonché l’emergere di forse politiche non liberali e illiberali, estranee alla mentalità liberale. Va ricordata la profezia di Giolitti nella primavera del 1915: “La guerra potrà trasformarsi in un danno anche riuscendo vittoriosa”.   

Il terzo richiamo ai ricordi della storia è la questione delle foibe (amplissime cavità tipiche dei terreni calcarei, soprattutto del Carso) che fino al 2004 è stata volutamente ed in mala fede,  rimossa dalla memoria storica italiana.  Poiché si trattava dell’uso crudele e criminale  che ne fecero i partigiani iugoslavi del maresciallo Tito , i quali, sullo scorcio del seconda guerra, vi massacrarono migliaia di italiani (e anche sloveni e croati) , non solo fascisti e collaborazionisti, ma anche cittadini comuni e persino partigiani non comunisti. Le vittime veleggiano verso le 10000.  Commenta Del Basso, una vera e propria pulizia etnica. Il tema delle foibe  da spunto ancor oggi ad accese polemiche, per il motivo che il conformismo totalitario preme per nascondere la verità all’insegna di un presunto bene delle classi subalterne contrarie alla libertà borghese.

Il secondo gruppo degli articoli. Il risalto al ruolo del cittadino nei caratteri dei principi di libertà, Nicola del Basso lo pone in evidenza nei suoi articoli qui pubblicati, trattando delle dittature, dell’offensiva contro la cultura laica e delle celebrazioni del 25 aprile e del XX settembre.

Sulle dittature, Nicola Del Basso scrive parole definitive: “lottare contro tutte le dittature, quelle vecchie, sconfitte e fallite, e le nuove sempre più emergenti (…quali il fondamentalismo islamico), come la dittatura della maggioranza”. Naturalmente definitive per chi è liberale davvero. E incardinando la libertà sulla diversità, quella diversità che spiega perché occorre aborrire la dittatura della maggioranza. Che fa capire anche perché Nicola faccia bene a criticare di passaggio “il contrastare la dittatura del relativismo”, in quanto è la tipica espressione dei deterministi i quali non vogliono il relativismo non volendo (senza dirlo)  gli individui e la loro diversità.

Sull’offensiva contro la cultura laica, Nicola Del Basso è icastico. La definisce   “intollerante” e richiama  “il presidio della laicità dello Stato a garanzia dei diritti civili “ . Concludendo che “la libertà individuale è un principio che nessuna piazza può mettere in forse”.

Sulle celebrazioni del 25 aprile e del XX settembre, gli articoli del nostro Nicola ammoniscono che non devono ridursi a retorica. E ricordano che la tentazione della violenza risolutiva insidia tuttora il campo della libertà “soprattutto attraverso un fondamentalismo di tipo medievale” che si manifesta anche attraverso la coartazione morale. Quanto al XX settembre, rimane  la distinzione irrinunciabile tra temporale e spirituale, tra Stato e Chiesa, a fondamento del “primato civile dello Stato di diritto, rispettoso di ogni fede ed anche dei non credenti”. La celebrazione di queste date devono spingere ognuno a riflettere sulle mete raggiunte e su quelle da raggiungere

Il terzo gruppo degli articoli di Del Basso consiste nel richiamo al continuo sostegno dei principi di libertà. Non è una banalità, dato che anche troppi liberali sorvolano. Sono succubi dei retaggi di chi, siccome illude che il mondo che sia perfetto ed eterno, consiglia di restare nel proprio guscio coltivando ciò che abbiamo e le proprie certezze.  Ebbene è indispensabile impegnarsi ovunque quotidianamente, e talvolta anche nelle piazze, per dar sostegno alla libertà individuale e alle formazioni sociali in cui si manifesta. Perché non sono un destino, vanno costruite.

Inoltre, c’è anche un’altra esigenza permanente per i principi di libertà. Trovandoci in una democrazia in cui le scelte le fanno i conviventi attraverso  il  giudizio elettorale, è essenziale che funzioni la libertà di stampa per assicurare ai conviventi la conoscenza degli avvenimenti sui quali debbono poi scegliere. Da rilevare che nel nostro paese, purtroppo, mentre la libertà di stampa  sussiste, il suo esercizio da parte di editori e giornalisti non è oggi abbastanza accurato. 

Beninteso, tracciare i principali caratteri della libertà, non li rende statici. Nicola Del Basso non dimenticava che la libertà non solo è individuale, ma che è intersecata in modo organico con la diversità di ciascuno. Del resto, il suo spirito cauto nell’osservare la realtà, costituisce una forma di rispetto importante della brulicante diversità insita tra gli umani e nell’ambiente intorno. E in maniera analoga, anche il legame profondo con il territorio di Benevento era una forma di libertà individuale, perché equivaleva a riconoscere le proprie radici quale garanzia del rapportarsi con i conviventi in territori più vasti. 

Ricordare Nicola Del Basso è senza dubbio qualcosa di dovuto non solo a Benevento. Magari non si è soffermato sullo svilupparsi concettuale del liberalismo, che pure è fisiologico, ma nel diffondere la pratica dei principi chiave della libertà è stato un primattore e lo resta.  

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Celebrando il XX settembre

Stamani venerdì alle 11,15 in Piazza XX  settembre lato Chiesa, sarà depositata una corona d’alloro sulla targa commemorativa della presa di Porta Pia nel 1870. Seguiranno gli interventi di due oratori, Simone Lenzi, Assessore al Comune di Livorno e Alessandra Veronese , Cattedratica  dell’Università di Pisa, che illustreranno in sintesi il significato della celebrazione.

La manifestazione non vale per ricordare il passato ma quale indicazione verso il futuro. Lo spirito di oggi, richiamando quello di allora, conferma la sperimentata efficacia della laicità civile che si affida alla libertà dei singoli cittadini. Per governare e convivere occorrono istituzioni  e politiche tolleranti, sempre impegnate  a sciogliere i molti nodi delle illibertà e a combattere le pulsioni  autoritarie, così da essere il terreno più adatto a consentire ai liberi cittadini l’osservazione del mondo circostante per conoscerlo di più.

 Inoltre, alla luce dei recenti impegni elettorali  assunti  nel dibattito pubblico, le quattro associazioni promotrici  auspicano che il Comune di Livorno costituisca quanto prima il Tavolo della Laicità, con il quale tali principi avranno concreta e rapida attuazione. Infatti, al giorno d’oggi, i principi laici sono distanti dalle impostazioni religiose ma non meno dal sorpassato anticlericalismo tipico dell’epoca in cui era la Chiesa Cattolica ad evocarlo per contestare l’idea di Cavour di Libera Chiesa in Libero Stato. Il Tavolo della Laicità sarà lo strumento per riaffermare che oggi le scelte del convivere spettano solo ai cittadini conviventi e alla loro diversità strutturale ed irrinunciabile. Si radicano in base ai risultati ottenuti.

ArciAtea, Circolo Einaudi, Circolo G.E. Modigliani, Livorno delle Diversità

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Cronologia del Liberalismo (capitolo 4.2 b.2.h)

Undicesima parte della CRONOLOGIA ESSENZIALE DEL LIBERALISMO

4.2 b 2 h    L’Italia nella prima guerra mondiale. 4.2 b 2 h  1  .  I sette mesi 1915 –Nei mesi del passaggio dal neutralismo (estate 1914) a interventismo (metà primavera 1915), l’esercito italiano si potenziò sia nell’organizzazione umana che negli armamenti, tuttavia la situazione nel complesso restava  parecchio carente. In sintesi, era molto forte la mancanza di bocche da fuoco di medio e grosso calibro, praticamente non c’erano mitragliatrici né si era in grado di produrle in tempi stretti, non si disponeva di mezzi per distruggere i reticolati e le altre difese accessorie del nemico (quasi incredibile tenuto conto che le battaglie in corso da oltre nove mesi in Francia e Polonia avevano provato come avercele fosse decisivo), la notevole arretratezza dell’aviazione, sia perché si era puntato sui dirigibili e non sugli aereoplani sia perché non venivano ancora usati gli italianissimi aerei Caproni i cui brevetti spopolavano in America ed Inghilterra (in Italia entrarono in funzione tardivamente). Insomma, ciò è un’ulteriore riprova che l’entrata in guerra non derivò da pressioni dell’apparato militare, bensì da una manovra imposta dalla Corona (che fu determinante), grande stampa, poteri economici (inclusi numerosi ambienti cattolici  in dissenso con il Papa) , massoneria, minoranza socialista, notissimi letterati e futuristi, interventisti uniti sulla parola d’ordine di completare il risorgimento e di portare all’unità del paese.

Stando così le cose, la caratteristica principale delle truppe italiane era l’entusiasmo aggressivo di chi ha una missione. Circostanza acuita dall’essere Capo di Stato Maggiore il gen.  Luigi Cadorna, un piemontese assai conservatore, molto legato a Casa Savoia, il quale pretese di combattere la guerra a modo suo attraverso lo Stato Maggiore nel Veneto orientale, per emanare ordini fondati su una disciplina rigidissima e per mettere in atto una strategia imperniata sull’ assalto frontale ad oltranza che fiaccasse gli asburgici, al prezzo di enormi  perdite tra gli  italiani. Dunque un entusiasmo militarmente disciplinatissimo assai diverso dall’esaltazione degli interventisti.  

La strategia di Cadorna dovette ben presto fare i conti con il massiccio sistema di fortificazioni austriaco al confine. Che era lungo 800 chilometri dallo Stelvio al mare ed era per lo più in posizioni elevate in mano agli austriaci. Le fortificazioni erano soprattutto trinceramenti in cemento e in calcestruzzo protetti da estesi campi di mine, da più ordini di reticolati in filo metallico e da un poderoso armamento in mitragliatrici. Il tutto assistito da una fitta rete di comunicazioni telegrafiche, telefoniche ed ottiche, che consentivano rapidissimi concentramenti di fuoco.

Di conseguenza, il celere sfondamento delle difese austriache progettato da Cadorna, venne bloccato e presto la guerra divenne uno scontro di logoramento in cui il sogno delle spallate italiane si infrangeva contro i baluardi nemici. Così i guadagni territoriali furono esigui. Oltretutto dovendo l’esercito italiano dare aiuto agli alleati dell’Intesa nella guerra in Russia (in cui stavano prevalendo gli Imperi centrali) e negli scontri in Serbia (nonostante la contrarietà di Cadorna, focalizzato sulla sua guerra in Italia) e in particolare valutando pure l’entrata in guerra dell’Italia anche contro la Turchia ottomana (dovuta al complicarsi della situazione in Africa Settentrionale) che finì per impegnare parecchio la Marina, e infine l’occupazione dell’Albania.  

A gennaio 1916 l’agenzia pubblica di informazioni Stefani riconosceva, con un eloquio assai laudativo, che in otto mesi di dura lotta l’esercito aveva mantenuto inalterato un  contegno aggressivo pur in inferiorità rispetto al nemico, quanto a posizioni e preparazione del terreno. E scriveva “L’esercito italiano guarda al nuovo anno con legittimo orgoglio per le gesta compiute e con incrollabile fiducia nell’avvenire. Inspirandosi all’esempio di S. M. il Re, primo fra tutti in ogni evenienza di guerra, e sorretto dalle cure costarti ed affettuose del Paese, dalle ardue prove superate trae incitamento a moltiplicare gli sforzi per l’avvenire sino al completo raggiungimento della gloriosa mèta additatagli della volontà della Nazione“. 

Come si vede un approccio propagandistico per nascondere le difficoltà in atto e che neppure menzionava quanto stava verificandosi dal punto di vista politico e di quello economico. Alla fine del 1915, cattolici e neutralisti ricominciavano ad agitarsi in chiave politica, e i socialisti ufficiali tennero dimostrazioni disfattiste, espellendo dal partito i compagni volontari di guerra, negando ai compagni morti sul campo le onoranze funebri, attaccando i cosiddetti guerrafondai. Sul piano economico, furono varati diversi inasprimenti fiscali di una certa consistenza ed emesso un terzo prestito nazionale al 5% per 25 anni con interessi esenti da imposizione fiscale. Provvedimenti che al momento vennero accolti con forte disponibilità (la Camera votò con larga maggioranza salvo una parte consistente dei giolittiani ed i socialisti) anche assistita da una selva di comitati provinciali, ma che ponevano le basi per future difficoltà economiche (nonostante l’esaltazione plebiscitaria che ne fecero i suoi fautori). 

Da segnalare inoltre che, sempre nelle ultime settimane del 1915,  proseguirono le polemiche pubbliche del Papa con il Regno riguardo la libertà di esercizio del proprio magistero vigendo la legge delle Guarentigie.  L’occasione fu il Concistoro  di inizio dicembre, in cui Benedetto XV, pur dando atto delle buone intenzioni italiane, riaffermò che la Chiesa necessita dell’autonoma giurisdizione per  esercitare davvero la propria funzione.  In aula, il Ministro V.E. Orlando confermò la piena validità della legge  del 1870 . E sottolineò   che proprio la guerra in corso era la conferma che Benedetto XV “mantiene intatto il suo prestigio e goda di tanta libertà e indipendenza. Così noi abbiamo assistito in Roma, ad un funerale ordinato dal Santo Padre in suffragio di tutti i caduti della guerra, senza eccezione, compresi i nostri nemici”. 

4.2 b 2 h  2  L’anno 1916 – Nel primo semestre  si consolidarono  da una parte la tendenza sul campo militare ad assumere sempre più  posizioni statiche di trincea e ad atti di eroismo diffusi ma privi di disegni strategici davvero propulsivi, e dall’altra la tendenza del dibattito sul fronte interno a dare spazio alle voci dissonanti nel coro di parole d’ordine esaltate dominante nella primavera 1915.  

Sul campo i combattimenti si svolgevano per lo più a grandi altezze,  intorno ed oltre i 2000 metri, ponendo enormi difficoltà dato il periodo invernale  nel gestire gli aspetti materiali di lotta alle temperature rigide in tema di approvvigionamenti edilizi, di vestiario, di alimentazione e di cure sanitarie. Cadorna imperniava i propri piani sul dover fronteggiare un’offensiva austriaca sul Carso, anche se una parte del suo Comando suggerisse di attrezzare il massiccio del Pasubio, tra il territorio Vicentino ed il Trentino, per accogliere forti contingenti di truppe a difesa. Venne fatto non in via prioritaria. Del resto al momento pareva un aspetto non centrale, visto che il fronte di guerra era molto vivace in moltissimi punti di un vasto arco. Dalle alture a nord-ovest di Gorizia, e in genere sul fronte Giulia, alla zona tra San Michele e San Martino del Carso, a est di Monfalcone , alla Val Sugana, al Col di Lana, all’Isonzo,. alla pianura verso  il Tagliamento , proseguendo al massiccio della Marmolada e fino  all’Adamello. Da tener presente, inoltre,  che proprio in quel semestre si sviluppò la guerra aerea, che portò ai primi  bombardamenti sui centri abitati, diffuse un clima di terrore tra la popolazione e determinò una concezione di guerra più complessa. 

Nel medesimo primo semestre 1916,  andò cambiando  il clima del sostegno militare. Non si affievolì ma assunse toni meno enfatici. In più, in una manifestazione a favore del prestito, Salandra espresse il fondamento del suo governo : la capacità del “partito liberale monarchico, che ha fatto l’Italia e che dovrà compierla, di tenersi unito in  tutte le sue tendenze divergenti, perché una parte sola, non basterebbe al compito da assolvere. Gli altri gruppi o partiti. vengano con noi. Noi dobbiamo accoglierli. Dopo sarà quello che i fati vorranno“. Parole che indispettirono gli altri gruppi sostenitori del conflitto, dettero fiato alle proteste dei socialisti alla Camera tra marzo ed aprile (i soldati sono retribuiti in modo inadeguato e gli interessi delle classi lavoratrici non tutelati), rafforzarono le manovre sotto traccia per la sfiducia a Salandra. 

L’ atmosfera restò di effettiva stagnazione sul piano militare e su quello politico, fin quando a metà maggio l’Austria lanciò una offensiva sugli Altipiani trentini con lo scopo di punire il tradimento italiano dell’anno prima. Era un’offensiva robusta preparata fin da gennaio accumulando mezzi ed uomini. Cadorna, nonostante i ricorrenti allerta, si era ostinato a non annusarne le chiare avvisaglie, nella ferma convinzione che gli Austriaci avrebbero dovuto attaccare sul Carso (un tipo di errore ripetuto in seguito). Per alcune settimane, l’esercito italiano subì l’attacco e vi resisté solo per l’abnegazione e il valore di molti. 

Nel paese, sia pure con informazioni frammentarie, crebbero le critiche a Cadorna e al Governo che nella gestione del fronte aveva tollerato l’essere messo in disparte. Cadorna, protetto dalla Corona, non fu toccato,  Salandra cadde i primi di giugno (mentre si avviava la controffensiva in Trentino) per il dissolversi dei suoi sostenitori alla Camera (una mozione sul bilancio non fu votata da circa 150 deputati della maggioranza  e 93 uscirono dall’aula subito prima del voto). Il successore fu Boselli, parlamentare decano, prima più volte ministro, liberale di destra moderata, che rinnovò i componenti del Governo per due terzi, nominando per la prima volta un importante cattolico, Meda alle finanze, e inoltre un socialista interventista, Bissolati (che  teorizzava la pausa nella politica, “il fervore delle competizioni politiche tace di fronte alla voce della Patria immortale; tutti oggi dobbiamo stringerci insieme in una concordia sincera ed operosa per un’Italia…Bene raggiunta la mèta, ciascuno tornerà al suo posto nella politica”).

Va rilevato che l’impostazione politico culturale di Boselli e del suo Governo di Unità Nazionale, si imperniava sull’unità dei conviventi. Allineata ai desideri di Casa Savoia , e seguendo il tradizionale approccio delle concezioni di potere, di per sé inadatto ad affrontare il cambiamento e quindi destinato a crisi rovinose. Viceversa, il fulcro del liberalismo aperto (in sostanza  perseguito dai giolittiani)  è l’osservare i fatti reali e lo sperimentare le valutazioni e le ipotesi individuali che ne derivano, misurandole attraverso i risultati. Perciò pure il Governo Boselli praticava una concezione liberale incoerente.

Sul campo, l’esercito, dopo aver bloccato l’offensiva punitiva, lanciò ancora una  controffensiva con molto entusiasmo ed impegno, peraltro ottenendo ancora risultati  limitati all’occupazione  di Gorizia ad agosto. Cadorna accentrò il suo ruolo di comando, gestendolo con estrema fermezza, al punto da attribuire i non esaltanti risultati ad un insufficiente rigore nel combattere dei suoi sottoposti. Al fine di stimolare una reazione adeguata, cominciò a praticare il sistema della decimazione tra i combattenti, un metodo d’origine romana estraneo al codice militare e in sostanza selvaggio. All’inizio non fu evidente ma venne presto a galla perché causò decine di migliaia di vittime. Oltretutto, non ravvivò l’andamento bellico e al contempo ispessì  il distacco tra Stato Maggiore e Governo. 

Nelle stesse settimane, vi furono diverse novità circa i fronti militari. In accordo con gli alleai dell’Intesa, corpi di spedizione furono inviati in Macedonia e subito dopo in Turchia. Poi ci fu l’ulteriore complicazione del rapido precipitare dei rapporti tra  Italia e Germania, sospinto anche dagli Alleati e dagli interventisti di sinistra che puntavano alla rottura con i tedeschi (mentre la diplomazia di Berlino lavorava da fine primavera con diversi stati per arrivare alla pace). Così si passò da scaramucce su come trattare reciprocamente questioni pensionistiche e immobiliari, alla denuncia italiana del trattato doganale e di navigazione. In conclusione a fine agosto l’Italia dichiarò guerra alla Germania. Nel frattempo proseguivano le offensive sull’Isonzo, esaltate ma prive di effetti concreti, salvo ogni volta morti a decine di migliaia, assai superiori a quelli austriaci. Fino a novembre ci furono altre battaglie sull’Isonzo, strategicamente con effetti quasi nulli (a parte  perdite sempre pesantissime) e gli insuccessi portarono ad interrompere le operazioni belliche sul fronte sino alla primavera  seguente.  L’andamento delle operazioni sul Mediterraneo ed in aria era invece più soddisfacente.

Nel frattempo il Presidente del Consiglio e molti Ministri svolgevano una capillare ed appassionata propaganda in giro per l’Italia. Sostenevano che la pace avrebbe dovuto accompagnarsi alla fine dell’impero austroungarico. E che intanto il Governo lavorava per mantenere adeguati livelli di tenore di vita economica, seppur restringendo i consumi. Di tutta evidenza il clima politico era esaltato nel paese e incerto in campo bellico. Cosicché, a dicembre inoltrato, anche la Camera a maggioranza rinviò di sei mesi il voto su una mozione  per “iniziare una discussione che, ispirata a criteri di ragione e di umanità, ci avvicinasse in qualche modo alla cessazione del disastro della guerra” In parallelo, negli ultimi giorni dell’anno, il Segretario di Stato degli Stati Uniti trasmetteva in Italia e in diversi altri paesi europei, una nota del Presidente  Wilson in cui suggeriva alle potenze belligeranti di trovare  una composizione positiva ai dissensi all’insegna del desiderio condiviso di proteggere i rispettivi popoli. La nota venne accolta positivamente sia dall’Alleanza che dagli Imperi Centrali ed avviò un inteso lavorio diplomatico.

4.2 b 2 h  3  L’anno 1917 – Ad inizio anno, Vittorio Emanuele III insignì i singoli stendardi di tutti reparti al fronte di medaglie d’oro, d’argento e di bronzocon distinte motivazioni. Al tempo stesso, tuttavia, furono emanati decreti di richiamo alle armi di classi dal 1871 al 1899 con diversi compiti e venne lanciato un quarto prestito nazionale creando un apposito titolo di debito pubblico, il quale, peraltro, non fu sottoscritto in pieno, nonostante il ricorso alla conversione dei prestiti precedenti. Nel complesso il debito pubblico gonfiato dalle spese di guerra, era già enorme, ed alla lunga  sarebbe stato impossibile farvi fronte  ricorrendo allo slancio guerriero. Comunque sul terreno  nei primi due mesi l’attività  di combattimento risultò  assai ridotta, intensificandosi un po’ a marzo da parte austriaca. 

Peraltro grandi novità maturarono in altri ambiti. Si è già visto  nel capitolo 4.2a l’abdicazione dello zar Nicola II, con cui iniziò la rivoluzione russa con le sue grandi conseguenze seppure con effetti non immediati sulla guerra con gli Imperi Centrali. Nel frattempo, il lavorio diplomatico sull’iniziativa del Presidente Wilson  stava proseguendo con apparente slancio, quando i primi di febbraio la Germania comunicò di ravvisare nei paesi nemici un’intimazione di lotta  più aspra e che pertanto  da quel momento “ogni traffico marittimo in certe zone dell’Atlantico e nel Mediterraneo Orientale sarebbe stato combattuto con tutte le armi.” E precisava “che i piroscafi delle Potenze neutrali entrandovi lo farebbero a loro rischio”. Gli Stati Uniti ruppero subito le relazioni con la Germania e dopo alcune settimane l’affondamento della Vigilantia convinse il Presidente Wilson che non era più possibile restare estranei, oltretutto, come detto, per proteggere i grossi finanziamenti  all’Intesa. I primi di aprile gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco dell’Alleanza, con ritmi  lenti ma incalzanti, Italia inclusa. 

Esattamente nel medesimo periodo, su impulso sottotraccia del nuovo imperatore austriaco  Carlo I tramite il cognato Principe di Borbone in Francia, si attivò una trattativa per arrivare ad un trattato di pace, con il Presidente francese Poincaré, allargata all’Inghilterra di Lloyd George  e in seguito anche all’Italia. Dopo diversi contatti i paesi dell’Intesa concordarono di chiedere all’Austria il rispetto delle condizioni già previste con il Trattato di Londra del 1915 (l’Italia avrebbe avuto per compenso Aquileia ed alcune isole adriatiche) , però le trattative si protrassero fino all’estate e a quel punto la situazione dei rapporti tra i vari paesi era parecchio mutata. Infatti, le tumultuose vicende della rivoluzione in Russia avevano consentito una forte penetrazione dei bolscevici,  di cui era nota la forte propensione al ritirarsi dalla guerra  con la Germania. E così gli Imperi centrali  si misero in attesa di questa decisione per loro assai favorevole, al fine di dislocare le truppe nei settori occidentali e meridionali. 

Nel frattempo, in accordo tra gli eserciti dell’Intesa, a metà aprile era iniziata un’offensiva sui vari campi di battaglia in Europa. Quella dell’Italia iniziò il 12 maggio nella zona del  Piave. I primi risultati furono notevoli né furono scalfiti dal tentativo austriaco di una manovra diversiva nel Trentino, presto finita. I successi italiani proseguirono per tutto il mese e si estesero al Carso, facendo fallire le risposte austriache. Però furono inferiori alle attese di Cadorna. A giugno gli austriaci ottenero qualche risultato, seppure effimero, di fronte ai cedimenti di alcuni reparti italiani. Cadorna non riusciva a capacitarsi di tali episodi tra gli ufficiali e le truppe. Considerata la meticolosità con cui preparava le offensive, il loro non riuscire (vi furono pure episodi di ammutinamento) doveva essere attribuito solo a fattori esterni che indebolivano il morale dei militari. La responsabilità era del governo che non arginava la propaganda disfattista  dei socialisti ed anche del Papa che insisteva contro la guerra. Il fatto è che Cadorna si era rinchiuso in una concezione statica del modo d’essere militare e vi si cullava protetto dagli stretti rapporti con la Corona. Per di più il Re era sì molto spesso presente di persona tra le truppe, ma anche lui, vicino a un’idea tradizionale e sorpassata del militarismo, avulsa dal popolo, pareva non cogliere gli eccessi del Generale Cadorna. Il quale intensificò la pratica della decimazione imponendola come un obbligo “quando non era possibile accertare le responsabilità individuali di un determinato crimine“. Cosa che di per sé provocava gravissimi effetti negativi. 

In realtà, Cadorna non riusciva a percepire la dinamica del cambiamento fisiologicamente in essere nella società. Non avvertiva l’impossibilità di mantenere inalterati rapporti e strutture maturati fino a qualche decennio prima. Non perché non fossero abbastanza avanzate o disattente al progresso scientifico. Ma perché stava nell’ordine delle cose sviluppare il mutamento e affidarsi sempre più non a chi, singoli, famiglie o categorie, aveva comandato per diritto divino bensì alle indicazioni e alle scelte degli individui conviventi. Non erano sbagliati gli ideali del Risorgimento e l’impegno a completarlo, lo era il volerlo imporre a milioni di italiani che neppure li conoscevano oppure che li interpretavano distorcendo le ragioni culturali del loro successo. La situazione era poi resa più complicata dal fatto che il suffragio universale aveva nell’immediato favorito tra le forze politiche i movimenti non liberali (socialisti, cattolici, irrazionalisti) che non curavano la maturazione individuale bensì l’ingrossare il gregge dei sudditi fedeli. E che in questo modo rendevano ostico il funzionare del Parlamento e del suo cercare compromessi (proprio perché vi si svolgeva un confronto tra diversi che privilegiavano l’incomunicabilità). 

I politici liberali non contrastavano – come avrebbero dovuto fare per coerenza – una tale impostazione chiusa alla diversità, ed anzi contribuivano a praticarla non di rado. Fu emblematico un episodio di rilievo.  A giugno il Ministro degli Esteri Sonnino emanò il proclama di Argirocastro in Albania. Terminava  con l’appello “tutti accorrete all’ombra dei vessilli italiani e albanesi per giurare fede perenne a quanto viene oggi proclamato in nome del Governo italiano per un’Albania indipendente con l’amicizia e la protezione dell’Italia” . Ora, l’Italia era presente in Albania nell’ambito dell’Intesa, non a titolo singolo. Il proclama trovò un’accoglienza molto fredda dalle altre potenze dell’Intesa (le quali sostennero che il proclama aveva puro carattere militare  e non pregiudicava in alcun modo la futura soluzione della questione balcanica). Ma soprattutto provocò forti proteste all’interno del governo italiano (con quattro ministri dimissionari) e sfociò in un rimpasto pilotato. Insomma, Sonnino non aveva tenuto conto sotto più aspetti della diversità dei soggetti coinvolti, sul piano dell’Intesa e sul piano della composizione del Governo. Ubbidiva solo a quella che riteneva essere in teoria la posizione più opportuna nella prospettiva di libertà dell’Albania, dimenticando che la libertà si costruisce con scelte complesse e non è un atto deterministico. 

Diversamente dal settore terrestre, le battaglie di giugno e di luglio dettero risultati positivi per quanto concerne l’aviazione e la marina.  E proseguirono nei mesi successivi. Il punto traballante restava il territorio nord orientale in Italia. La conferenza dell’Intesa a fine luglio decise che l’Italia avrebbe dovuto predisporre due nuove offensive sull’Isonzo (le numero 11 e 12) per   distrarre le truppe austriache prevalenti sul fronte russo   e, all’inizio della seconda metà di agosto, Cadorna avviò l’offensiva sull’altopiano della Bainsizza (nord est di Gorizia). L’offensiva – nella quale  venne per la prima volta messo in campo il corpo degli Arditi , specializzati nel condurre assalti con coraggio estremo e spirito avventuroso – fu la più massiccia fino ad allora, riportò un successo iniziale, ma si arenò dopo due settimane e venne seguita da un’altra con il medesimo esito. Dai primissimi di settembre, peraltro, era iniziata a profilarsi una nuova situazione, che il Comando di Cadorna non percepì. Gli Austriaci, comunque logorati dagli attacchi italiani, chiesero aiuto alla Germania per sferrare un grande attacco contro l’ala nord dello schieramento italiano, giudicato “manifestamente debole” quanto a consistenza e dislocazione. In poche settimane il contingente austroungarico passò da 23 divisioni e circa 1800 bocche da fuoco a 37 divisioni e oltre 3000 bocche da fuoco.  

Tuttavia Cadorna si fossilizzava su quello che chiamava il disfattismo, sull’opera dei sobillatori tra i ranghi dell’esercito e muoveva accuse al Ministro dell’Interno incolpandolo di troppa tolleranza. Non si accorgeva di cosa si pensasse nel mondo circostante. Le sue convinzioni militari includevano le sue grandi capacità organizzative, ma erano intoccabili e si imperniavano sul dovere, sul prestigio e sulla sacralità di destini del Regno. Cadorna non dava spazio ai caratteri delle persone e non teneva conto di avere un esercito non di professionisti bensì di richiamati. Su questi parametri misurava il senso delle sue offensive, che, al di là delle  gravissime perdite, dovevano essere un obbligo morale, non scalfibile neppure dalla resistenza nemica. Così, ancora una volta non riusciva a vedere per tempo come si muovevano gli austriaci e cosa andavano preparando. Sottovalutò i sintomi di quanto si profilava.

Intanto anche nel paese cresceva il dibattito politico sulla guerra. Erano molto pressanti gli interventisti  e la stampa in loro appoggio, i quali  sostenevano le tesi di Cadorna contro  i disfattisti , contro i pacifisti, contro la debole politica del Ministro degli Interni Orlando e, alla radice, contro Giolitti, che da Cuneo a metà estate aveva ripreso ad esporre le sue tesi: era urgente prendere atto della precaria situazione economico sociale dell’Italia e preparare la pace, tra l’altro per prevenire e scongiurare le tensioni rivoluzionarie che si andavano sempre più  palesando a sinistra, specie a Torino, sull’onda delle speranze suscitate dalla rivoluzione in Russia.  I giornali interventisti specie contro il Ministro degli Interni erano soprattutto il Corriere della Sera, il Secolo, il Popolo d’Italia, il Giornale d’Italia. Il Governo Boselli mantenne la sua linea di fermezza non esasperata in un’ottica del completare il Risorgimento, ma alla Camera il dissenso serpeggiava sempre più e i primi di ottobre si costituì un nuovo gruppo parlamentare formato da un insieme di giolittiani, neutralisti, cattolici, in tutto un centinaio di deputati.  Si dissero intenzionati a “difendere l’istituto parlamentare e le garanzie liberali contro tendenze che sembrano voler sostituire sempre più ai governi parlamentari i governi dittatoriali“. 

Sul fronte, per un mese da metà settembre, ci fu una relativa calma, inframmezzata da scontri di pattuglie e da duelli di artiglierie. A fine settembre, Cadorna avvertì la probabilità di un attacco dei nemici austriaci, ma non tutti ai vertici del Comando la pensavano così.  Quindi Cadorna rinunciò a proseguire nell’offensiva fermata a Bainsizza  e si limitò a predispose “risoluti contrattacchi locali per mantenere la difesa nei limiti dell’indispensabile economia”.   Serpeggiava non poco scetticismo sull’attacco austriaco  e ancora il 21 ottobre l’ufficio del Comando Supremo esprimeva formali riserve  sulla presenza di divisioni germaniche. Finché tra il 20 e il 21 ottobre, alcuni disertori rumeni dell’esercito austriaco segnalarono, carte alla mano, l’imminente offensiva nemica, segnalando luoghi, orari e divisioni coinvolte.  Allora si iniziò a spostare armamenti  e a fare trasferimenti, ma ancora il giorno dopo Cadorna definì “improbabile e, in ogni caso, non temibile un’offensiva austro-tedesca”. Si arrivò dunque alle prime ore del 24 ottobre, incerti sul da farsi.  

L’attacco dell’esercito degli Imperi Centrali iniziò nella notte con furiosi cannoneggiamenti  e l’impiego di granate con gaz tossici, provocando danni gravissimi ai reparti italiani.  La reazione dell’artiglieria italiana fu molto debole e talvolta inesistente (la nebbia ostacolò le batterie inducendole ad un’azione cieca, mentre il nemico colpiva con precisione avendo localizzato tutto prima). Nella giornata le truppe austro germaniche  sfondarono nella zona di Caporetto e iniziarono a dilagare. Un generale italiano scrisse sugli errori commessi : “Troppa grossa artiglieria in posizioni avanzate. Troppi uomini addossati sulle prime linee. Sguarnite oppure vecchie e malandate, le linee e fortificazioni retrostanti  destinate alla difesa successiva. Troppe unità sull’altipiano della Bainsizza, in confronto di quelle messe a custodia della valle Isonzo. Troppo gravitante a destra la II Armata, mentre al centro e al nord si annunciavano gli attacchi nemici in gran forza”.Nella sostanza, la certezza raggiunta per caso all’ultimo giorno, non poteva servire e non servì. Nei cinque giorni successivi la sconfitta si mutò in disfatta . L’esercito pezzo a pezzo si ritirò fino al Tagliamento, arroccandosi sulla riva destra e avvalendosi anche delle ondate di piena che impedirono agli avversari  di attraversarlo. Una buona parte del Veneto era già persa.

Dal Comando, Cadorna emise un comunicato in cui era scritto: la mancata resistenza di reparti della II Armata, vilmente ritiratisi senza combattere, ignominiosamente arresisi al nemico o dandosi codardamente alla fuga, ha permesso alle forze austrogermaniche di rompere la nostra ala sinistra del fronte Giulia” (una tesi talmente surreale che il Ministero la riformulò la violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della II Armata hanno permesso alle forze austrogermaniche di rompere la nostra ala sinistra del fronte Giulia).

Il 25 ottobre vi fu un dibattito alla Camera mentre cominciavano ad arrivare le notizie dal fronte. Un dibattito pacato, dal quale emerse solo il dissenso dei socialisti di Turati. Ma quando si votò la mozione che approvava l’opera del Governo, i voti favorevoli furono  96 e i contrari 314.  Una conferma dei segnali delle settimane precedenti. Boselli si dimise e il Re rientrò immediatamente dal fronte ove si trovava. 

Due giorni dopo il Re dette l’incarico di formare il Governo a Vittorio Emanuele Orlando, sostenitore della guerra ma di origini neutraliste. Il 30 formò il Gabinetto in cui manteneva gli Interni ,  confermava diversi vecchi ministri e tra i nuovi inseriva Nitti quale Ministro del Tesoro, il quale pochi giorni prima intervenendo alla Camera aveva detto “La guerra in Europa è sorta come un grande movimento reazionario, ma finisce come un grande movimento democratico e di libertà. Procuriamo di non metterci contro questa fiumana di uomini che, a guerra finita, tornerà dalla trincea, cerchiamo invece di arginarla”. Posizione non lontana dai giolittiani. In sintesi, il Governo Orlando nacque come un alt alla cedevolezza verso le impostazioni irrazionali dell’interventismo, anche se non ad una esplicita contrarietà delle sue radici. 

Il 3 novembre  l’esercito austrogermanico prevalse nella battaglia del Tagliamento e gli Italiani arretrarono sulla linea del Piave. La Marina pattugliando le coste fornì un contributo forte alla riuscita del ripiegamento in maniera ordinata. Ma comunque  la disfatta aveva assunto proporzioni clamorose nella perdita di uomini (morti, feriti e prigionieri di cui non pochi generali),  di materiali (artiglieria, autocarri, aerei) provocando  la fuga verso la Pianura Padana, di centinaia di migliaia di civili  seguiti da quasi 400.000 profughi dai territori caduti in mano nemica. Il Consiglio dei Ministri si espresse per l’avvicendamento di Cadorna. 

Poi, quasi all’improvviso, nello spirito dei soldati, sferzati dalla gravità dell’insuccesso militare, si avviò un mutamento. Al di là degli ordini del Comando rigidi sulle solite impostazioni disciplinari, iniziò a diffondersi   la consapevolezza che in quella guerra  era in ballo assai di più dell’onore e dei principi del buon guerriero, dal  momento che la posta era il ruolo stesso della società Italia, del suo popolo e dei suoi valori . 

Il 6 novembre a Rapallo si riunirono i  vertici dell’Intesa (per l’Italia Orlando con altri ministri più il sottocapo di Stato Maggiore, per l’Inghilterra Lloyd George e i principali generali, per la Francia il Presidente del Consiglio l’ambasciatore a Roma e il maresciallo  Foch, il capo degli eserciti interalleati) che risultò interlocutoria principalmente perché l’Italia non sapeva fornire informazioni esaurienti circa la situazione al fronte (perciò si decise di riunirsi a Peschiera due giorni dopo per consentire la presenza di Vittorio Emanuele che si trovava al fronte). Stabilì solo di costituire un Consiglio Supremo di Guerra tra i Governi per monitorare mensilmente l’andamento sui campi di battaglia, di cui chiamò a far parte  anche Cadorna, nel mentre tuttavia venne approvato l’esonero da Comandante in Capo.  

A Peschiera , l’8 novembre, il Re riuscì con chiarezza a fornire le informazioni sulla situazione al fronte, con equilibrio ed oggettività. Dette chiarimenti anche sulla  sostituzione di Cadorna , pur della cerchia dei fedelissimi  alla Corona e difeso strenuamente dagli interventisti, con il generale Armando Diaz, da lui preferito appunto perché, non elaborava mirabolanti strategie, ma sapeva capire gli animi dei suoi soldati, fattore essenziale per un esercito di richiamati e non di professionisti (forse fu la  miglior scelta del Re). In un simile clima, fu  presa la decisione fondamentale che Inghilterra e Francia avrebbero fornito truppe ed armamenti sul fronte in Italia, cosa che fino ad allora si erano rifiutate di fare. 

In quelle stesse giornate proseguiva la metamorfosi nei comportamenti delle truppe italiane, che si manifestava in un impegno via via più robusto nelle azioni sul campo. Tanto che l’esercito austrogermanico , all’offensiva fino a Natale, tentò in ogni modo di superare la linea del Piave sullo slancio dei successi riportati dopo Caporetto, ma fu costretto a prendere atto con molto stupore che nell’esercito italiano la mentalità era cambiata radicalmente e che era arduo superarne la resistenza.  Tra l’altro, per l’inoltrarsi dell’inverno e per il logorio di un’avanzata senza supporto logistico sospese la grande offensiva, pensando di riprenderla a primavera, facendo nel frattempo affluire truppe e materiali dopo la chiusura del fronte russo.Un effetto analogo ci fu nei dibattiti alla Camera. In quel periodo divennero assai più concordi sulla necessità di reagire con ogni sforzo concreto (significativi gli interventi di tutti gli ultimi Presidenti del Consiglio, tra i quali Giolitti disse “Non è tempo di discorsi; ma di guardare con la calma dei forti alla realtà e di agire con suprema energia e prontezza”). 

Tra fine novembre e i primi di dicembre si svolse a Parigi la Conferenza interalleata tra i 17 stati aderenti all’Intesa. Venne raggiunto un dettagliato accordo sulle cose da fare sui campi di battaglia. Il 7 dicembre gli Stati Uniti dichiararono guerra all’Austria. Negli stessi giorni la pace della Russia bolscevica con la Germania, galvanizzò il mondo socialista e in Italia irrobustì i socialisti che proclamavano la prospettiva della vittoria del proletariato contro l’ala ancora legata alla concezione riformista all’insegna dell’idea che “l’Austria sarà sempre una minaccia di conflitti perché le “nazionalità da essa incorporate non sono indipendenti“. In ogni caso le posizioni socialiste filo rivoluzionarie restavano una piccola minoranza. Alla Camera, il Governo ottenne una nuova fiducia con l’87% dei voti. Un passo per una concezione liberale coerente.       

4.2 b 2 h  4  L’anno 1918 – I primi di gennaio apparve la pubblicazione fatta in dicembre a Mosca dal Governo bolscevico  del Trattato di Londra del 1915, rimasto segreto fino ad allora.  Venne scoperto che, contrariamente a quanto si era ufficialmente sostenuto, l’Italia puntava, oltre a Trento e a Trieste,  anche ad altri diversi territori (tra cui l’Alto Adige o la. Dalmazia Settentrionale) i cui abitanti non erano italiani rimasti sotto l’Austria dopo la terza guerra di Indipendenza.  Di conseguenza, a Londra l’Italia aveva seguito una politica imperiale e non solo patriottica (vale a dire fuoriuscita dal completare il Risorgimento e tipica dei tradizionali Stati di potere). La cosa non piacque a molti, tra i liberali e nella sinistra. Il Presidente del Consiglio preferì ricordare a tutti che per il momento la guerra non era stata ancora vinta e che porsi gli obiettivi dell’Alto Adige o della Dalmazia era un utile argomento per riuscire a vincerla contro l’Impero asburgico oppressore delle nazionalità. Tuttavia la questione non era pacifica, nel senso che gli alleati erano inclini a rivedere il Trattato di Londra  per far esistere un grande Regno Jugoslavo.  In ogni modo Sonnino ottenne dal Comitato Interalleato il 2 febbraio che il Trattato di Londra sarebbe stato modificato solo con l’assenso dell’Italia. Il vero motivo, disse lo stesso Sonnino alla Camera qualche giorno dopo, è che le rivendicazioni dell’Italia desiderano solo mantenere la sicurezza alle frontiere e non violare i principi di autodecisione dei popoli. 

Intanto a gennaio, l’esercito aveva proseguito a riorganizzarsi a fondo a partire dalla vita di tutti i giorni. Il Generale Diaz fu pari alle attese e si prese cura dei bisogni delle truppe e dei loro cari allargando il periodo delle licenze , bandì le decimazioni, stipulò assicurazioni  sulla vita per ogni soldato, si preoccupò che il rancio arrivasse nei tempi giusti e appetibile, che il vestiario bastasse, che la corrispondenza funzionasse. In più Diaz   si mostrò attento a non far correre rischi inutili ai soldati (la riprova ne fu il ridursi delle perdite umane ad una piccola frazione di quelle dell’epoca Cadorna). Dopo metà gennaio si riaccesero i combattimenti che confermarono il nuovo spirito dell’esercito italiano. Tanto che a fine gennaio le truppe italiane lanciarono   la prima offensiva dopo la ritirata sul Piave ed ottennero anche un buon successo. Il medesimo andamento si ripropose in sostanza nel mese di febbraio. 

Nel medesimo periodo, alla riorganizzazione veniva sottoposta anche la struttura del Regno. Limitando molto la libera circolazione degli stranieri nemici, bloccando il costo degli affitti, requisendo immobili di lusso di proprietà germanica, intervenendo con forza nel calmierare i prezzi di vari generi di consumo, introducendo la tessera di macinazione del grano, la tassa di bollo sui biglietti degli spettacoli pubblici, potenziando la produzione agraria. Inoltre  vennero aumentati gli stipendi ai dipendenti pubblici, le indennità ai ferrovieri, si utilizzarono i mutilati per incitare alla resistenza. Infine fu emesso  il quinto prestito nazionale, che , nel nuovo clima, ebbe un gran successo e  raggiunse i 6 miliardi. Rispetto al picco dell’esaltazione interventista, pareva crescere il riflusso e riprendere fiato l’impostazione politica di tipo liberale. Nonostante, nel primo semestre ’18,  si verificassero non rari bombardamenti su diverse città italiane e in mare venissero affondati una cinquantina tra piroscafi e velieri

Da parte loro gli Imperi Centrali tennero a fine febbraio a Bolzano un vertice di tutti i massimi capi militari austriaci tedeschi ed ungheresi per definire una grande offensiva contro l’Italia, con l’impiego di 60 divisioni. Ciò senza tenere in alcun conto (errore che si rivelerà grave) dei massicci sbarchi in Francia delle truppe e delle armi americane che arrivavano in appoggio all’Intesa. Prevaleva la scarsissima considerazione per l’Italia. A Bolzano fu stabilito di far precedere la grande offensiva da robuste azioni dimostrative al Passo del Tonale (per scendere su Brescia) e in Val Lagarina (per scendere su Verona) mentre l’attacco principale doveva essere sul Brenta e raggiungere in poco più di una giornata il Vicentino;  contestualmente altri attacchi dovevano effettuarsi nella zona di Treviso e nel basso Piave. La preparazione fu estremamente dettagliata, dal punto di vista tecnico   ed altrettanto nella cura dell’aspetto psicologico della truppa (fu stampato un libro minuzioso con due ipotesi finali per gli italiani: il tracollo immediato oppure la disfatta in dieci giorni. In entrambi i casi la conclusione erano ingressi trionfali a Venezia e a Milano). Tanto accurata che venne rinviata più volte e alla fine fissata per il 15 giugno. Si sarebbe attaccato dallo Stelvio agli Altipiani e dal Piave al mare.  Mentre maturava il piano degli Imperi Centrali, tra gli italianiil complesso degli sforzi riorganizzativi dette frutti alla svelta. Sul campo, tra marzo e maggio si erano moltiplicati i successi in diversi singoli episodi via via di maggior importanza. Tanto che all’Italia fu richiesto di inviare truppe sul fronte francese. Ove al momento l’esercito tedesco stava riportando diversi successi su quello dell’Intesa guidata dal maresciallo  Foch. 

Questo nuovo modo d’essere dell’esercito italiano emerse subito non appena iniziò l’attacco degli austriaci (che, per una fortuita azione di spionaggio, non riuscì del tutto di sorpresa). Infatti, quando iniziarono i cannoneggiamenti – dalla Valle del fiume Astico (basso trentino e area del Piave) fino al mare – furono immediatamente contrastati da una consistente risposta delle artiglierie italiane . In più, anche le fanterie austriache non riuscirono ad effettuare il previsto attacco travolgente. La ragione principale fu che le truppe italiane avevano abbandonato la logica delle trincee ed erano preparate a difendersi in capisaldi autonomi lungo un’ampia porzione di terreno organizzata in modo da poter sollecitare se necessario l’immediato intervento dell’artiglieria. Così, su tutto l’ampio arco dei luoghi di battaglia, l’offensiva degli Imperi Centrali trovò in ogni punto resistenze insormontabili. Anche quando riuscirono in tre diversi punti circoscritti ad attraversare il Piave, le truppe imperiali non riuscirono né a consolidare le conquiste né a collegare i diversi territori, e quindi non furono in grado di evitare alla fine di essere ricacciati indietro. In otto giorni la grande offensiva degli austroungarici era fallita, anche per il consistente apporto degli aviatori italiani.  

In conseguenza della vittoria sul Piave,  durante luglio gli scontri nel Veneto furono sempre più favorevoli agli italiani in quasi tutti i punti del fronte (oltretutto arrivarono i rinforzi americani). Ma ci furono ripercussioni anche in Francia. Non solo favorendo pure lì i successi del contingente italiano, ma fornendo motivazioni psicologiche anche all’esercito francese. Come conseguenza, in Francia gli eserciti dell’Intesa si ripresero da metà luglio , ed alla fine del mese iniziarono con successo  la controffensiva che prosegui nei  mesi successivi. Del resto uno scenario simile si stava ripetendo anche sugli altri fronti, come quello albanese ed anche su quello turco. In Albania gli italiani riscattarono la fama assai compromessa dopo Caporetto e ottennero successi ripetuti, in quel periodo e in quello seguente. Nei territori ottomani, insieme ad inglesi e francesi, gli italiani contribuirono a realizzare un’offensiva insistente che portò in tre mesi a notevoli risultati. 

In Italia, questa nuova situazione  allertò il Governo e il Comando Supremo di Diaz.   Oggetto della discussione era il quando lanciare  una grande offensiva contro il nemico.  Nel Governo, come al solito, il contrasto era tra chi voleva un’azione prudente per salvaguardare la piena efficienza delle truppe (ad esempio, il Ministro Nitti e in genere i giolittiani) e chi premeva  per un’azione  il prima possibile che battesse l’Austria ( ovviamente  i Ministri più vicini all’interventismo, come Sonnino , fermo liberalconservatore, oppure Bissolati, acceso socialista riformista). Il  grosso del Comando Supremo  ipotizzava  di  preparare un’offensiva a primavera del 1919. Vi era poi l’insistenza del Capo degli eserciti dell’Intesa, Foch, il quale sollecitava l’offensiva italiana (senza però fornire aiuti appositi di truppe francesi). Diaz , come d’abitudine, era molto cauto e valutava l’ampiezza del fronte , le condizioni materiali delle truppe a disposizione, lo stato dei nemici conosciuto. E  il quadro complessivo della guerra sui vari fronti europei.  

Gli Imperi Centrali  stavano perdendo da ogni parte. In Francia (ove addirittura gli eserciti dell’Intesa erano riusciti a penetrare nel territorio tedesco), in Turchia (ove era minacciata direttamente Costantinopoli), nella penisola balcanica (mettendo all’angolo la Bulgaria, che non a caso, priva di mezzi e abbandonata, firmò l’armistizio il 29 settembre). Visto il quadro (ed in specie la forte sfiducia che risultava serpeggiare in Austria) , Diaz ritenne raggiunte le condizioni minime per agire con un sufficiente livello di sicurezza strategica. A fine settembre dette incarico segretamente al suo Comando di predisporre il piano per l’offensiva. Che nella settimana seguente venne fissata per il 24 ottobre. 

Come scriverà poi il Comando Supremo, le istruzioni per la battaglia erano basatesulla sorpresa e sulla rapidità dell’azione. Quanto alla sorpresa, era assicurata dal carattere stesso della manovra prevista, che si scostava in ogni parte da tutte quelle fino allora eseguite nella guerra. Per ottenere la necessaria e decisa rapidità di sfondamento, contava sull’accurato addestramento delle truppe compiuto per mesi . Lo sfondamento risoluto delle linee nemiche equivaleva  alla vittoria, perché, vinto il primo urto, il nemico avrebbe subito interamente.

La battaglia preparatoria iniziò sul Monte Grappa  la. mattina presto del 24 ottobre con il fitto fuoco dell’artiglieria e l’offensiva di diverse brigate su differenti cime. Anche per le pessime condizioni metereologiche che determinarono la piena del Piave (non del tutto imprevista) e l’impossibilità di effettuare il previsto passaggio di consistenti forze di appoggio, la resistenza del nemico fu fortissima e tenne per tre giorni bloccati gli italiani. Però la loro insistenza nell’azione dimostrativa, fece guadagnare tempo e rese possibile, a partire dalla sera del 26 ottobre, il gettare alcuni ponti sul Piave, prima cinque e altri sei nella giornata del 27, attraverso i quali iniziò a passare sulla riva sinistra la fanteria di diverse Armate. Il 28 ottobre divampò una battaglia molto serrata, il cui fulcro fu la zona di Vittorio Veneto (a nord di Treviso). La resistenza degli austriaci fu per qualche ora molto forte ma, al passar del tempo, cominciò a prevalere la tenacia dei soldati italiani. Il 29 ottobre si profilò nettamente il successo italiano. Il 30 ottobre ebbe inizio la disfatta dell’esercito degli Imperi Centrali (lungo il fronte dispiegava un milione di soldati), che subì sfondamenti in più punti e iniziò a dissolversi. Il 31 ottobre la battaglia era di fatto conclusa,  lasciando in mani italiane molte diecine di migliaia di prigionieri e una quantità imponente di materiale bellico (e nella notte, a meno di 200 km in linea d’ara, a Pola, gli italiani affondarono in porto la corazzata nemica Viribus Unitis).

Un altro membro della coalizione degli Imperi Centrali , la Turchia, firmò la resa il 30 ottobre. E in Italia, l’esercito austriaco ormai certo della sconfitta, chiese dal 30 ottobre l’armistizio che si concluse nel tardo pomeriggio del 3 novembre a Villa Glori (Padova) entrando in vigore dal primo pomeriggio del 4 novembre. Diaz emise un sintetico bollettino di vittoria che chiuse di suo pugno con la famosa frase: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”. Una settimana dopo la resa della Germania completò il tracollo degli Imperi Centrali.

La prima Guerra Mondiale era finita sui campi di battaglia, con il successo dell’Alleanza più sensibile alla libertà dei cittadini. Ma, avendo non poco trascurato la piena coerenza con i principi del liberalismo aperto, lasciava dietro di sé, come in Italia, enormi problemi politici della convivenza che per alcuni decenni pesarono negativamente sulla libertà. Giolitti era stato profetico nella primavera di tre anni e mezzo prima : “La guerra potrà trasformarsi in un danno anche riuscendo vittoriosa”. Un concetto attuale ancor oggi. 

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Intervista a Livorno, Effetto Venezia

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Di nuovo i ritmi vitali nel mondo social e in quello reale

I cellulari sono un enorme progresso nell’esprimersi individuale e nell’interagire, oltretutto a velocità elevata. Con una grande differenza rispetto l’epoca delle onde radio di Marconi. Allora i contatti a grande distanza senza fili che portarono alla radio e alla TV, restarono alla logica dell’antica pratica delle assemblee in piazza: un solo grande emittente per volta, ciascuno con una più o meno vasta platea di utenti.

Con il cellulare, il protagonista è il singolo utente, che, seguendo i vari canali sul proprio cellulare,  riceve e spedisce messaggi ad altri utenti, dando vita ad una rete fittissima. Lo fa molto alla svelta, talvolta con frenesia, non di rado instaurando un legame ipnotico con lo stare sui social. Sempre manifestando di slancio convinzioni ed emozioni, senza riflettere abbastanza e soprattutto senza esercitare il proprio spirito critico. Un simile atteggiamento crea toni esasperati ed un livello eccitato , che confliggono con il dare notizie oggettive e l’arrivare a confronti ragionati. Soprattutto, inibisce un aspetto cardine del mondo reale: la necessità di soppesare quanto si osserva facendo maturare lo spirito critico di ciascuno.

Il punto è decisivo. La conoscenza (con effetti assai positivi sul convivere) avanza usando il metodo sperimentale. E questo si incardina sullo spirito critico nell’osservare, nel fare ipotesi per risolvere i problemi e nel valutare i risultati via via ottenuti. Di conseguenza, il fatto che una parte crescente dei conviventi diminuisca molto l’uso dello spirito critico, arreca una ferita grave al sistema sperimentale.

Oltretutto, le già folte schiere a sostegno dei social, vengono vieppiù infoltite dal comportamento di troppi giornalisti. Citano ripetutamente una mole di notizie trovate sui social, senza filtrarle con una valutazione di effettiva fondatezza. E siccome la libera informazione dei cittadini è l’anima della libertà, risulta assai negativo che la libera informazione sia intaccata alla radice, sia nelle fonti che nella diffusione acritica. 

Urge limitare – meglio far regredire – l’espandersi nel mondo reale dei ritmi dei social. Dunque occorre un serio  impegno culturale per evitare un utilizzo distorto dell’innovazione epocale che è il cellulare. Principalmente da parte da chi da un ruolo centrale all’individuo nella crescita equilibrata ed innovativa. 

Innanzitutto ogni cittadino va reso consapevole che il cellulare non è uno strumento di conformismo totalitario ma di libertà che favorisce le relazioni tra gli individui e gli scambi. Perciò chi  usa  il cellulare non deve pensare che il mondo dei social  sia alternativo a quello reale. Il ritmo dell’immediatezza nei social non può nascere a scapito di caratteri umani di cui non si può fare a meno , a cominciare dall’esercizio dello spirito critico. Che, a parte le differenze individuali, richiede  tempi fisici  insopprimibili. E’  illusorio sognare il trasloco in un teorico mondo parallelo fatto a piacimento e privo dei vincoli del materiale vivere tra diversi.

Il secondo grande impegno spetta ai giornalisti fedeli alla  professionalità storica. Devono esser l’esempio perché i rispettivi prodotti editoriali non diffondano la cultura frenetica dei social e riscoprano l’antica lezione del controllare in partenza le notizie. E’ un fattore essenziale per riallineare il giornalismo ai ritmi della vita scrollandosi di dosso il comunicare ossessivo sui cellulari.

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I  RITMI  VITALI  NEL  MONDO  SOCIAL  E  IN QUELLO  REALE

In linea di massima tutti avvertiamo superficialmente che questi ritmi non sono i medesimi. Ma non riflettiamo davvero sul significato. Eppure si tratta del pernio del cambiamento nei rapporti civili derivante dal prorompente diffondersi  dei cellulari negli ultimi trentanni. 

In generale, i cellulari sono un enorme passo avanti tecnologico nella capacità di esprimersi individuale e nella possibilità di interrelazione tra diversi soggetti, oltretutto ad una velocità elevata. Peraltro portano anche a problematiche inesplorate, come sempre avviene con le grandi invenzioni.

All’epoca delle onde radio avviata da Guglielmo Marconi, questo specifico problema non si pose. La grande innovazione consentiva per la prima volta contatti a grande distanza senza fili. Pur tuttavia, date le condizioni strumentali di allora, ancora ridotte rispetto ad oggi, tali contatti in pratica potevano  svolgersi  tra una sola fonte trasmittente alla volta e una larghissima platea di ascoltatori. Dunque non smantellavano la logica dell’antica pratica delle assemblee in piazza e dei proclami. Nei decenni successivi, l’enorme successo di quella duttile tecnologia radiofonica originò la formazione di grandi organizzazioni nazionali per esercitare quel servizio, seguita nei vari paesi da serrati dibattiti sul come regolarle in modo che esercitassero al meglio la loro funzione all’interno  delle istituzioni e dei rapporti tra pubblico e privato. Non molto dopo la nascita della radiofonia, un percorso analogo venne ripetuto dalla nuova tecnologia TV . In ambedue i settori si finì per arrivare (dopo vive controversie) ad una ampia e fattiva coesistenza  tra le reti a proprietà pubblica e quelle dell’iniziativa privata.  Tutte e due le tipologie mantenevano peraltro la stessa struttura di un solo grande emittente per volta, ciascuno con una più o meno vasta platea di utenti.

L’uso del cellulare ha impresso una  svolta. Il protagonista indiscusso è divenuto il singolo utente, che, seguendo i vari canali sul video del proprio cellulare,  riceve e spedisce messaggi ad altri utenti, dando vita ad una rete fittissima. Per lo più lo fa molto alla svelta, talvolta con frenesia, non di rado instaurando un legame ipnotico con lo stare sui social. Sempre manifestando di slancio convinzioni ed emozioni, senza riflettere abbastanza e soprattutto senza esercitare il proprio spirito critico. Un simile atteggiamento determina nei social una esasperazione dei toni ed un livello eccitato , che confliggono con la possibilità di dare notizie oggettive e di arrivare a confronti ragionati sugli argomenti discussi. Soprattutto, inibisce un aspetto cardine del mondo reale: la necessità di soppesare quanto si osserva attraverso il far maturare lo spirito critico di ciascuno.

Il punto è decisivo. Da quasi quattro secoli la conoscenza avanza in modo forte e continuativo adoperando il metodo sperimentale (con effetti assai positivi anche sul convivere). E il metodo sperimentale si incardina appunto sullo spirito critico nell’osservare, nel fare ipotesi per risolvere i problemi e nel valutare i risultati via via ottenuti. Di conseguenza, il fatto che una parte crescente dei conviventi diminuisca parecchio l’uso dello spirito critico fino a soffocarlo, arreca una ferita grave al sistema sperimentale. Il quale non si fonda solo sui comportamenti degli addetti al ramo, bensì richiede un coerente clima nel vivere di tutti i giorni.

Oltretutto, le schiere a sostegno dei social, di per sé già folte, vengono ancora infoltite dall’uso che dei social fanno i giornalisti. Citano ripetutamente una mole di notizie trovate on line, senza sottoporle prima ad una valutazione di effettiva fondatezza. E siccome la libera informazione dei cittadini è il presupposto cardine per mantenerli a conoscenza degli avvenimenti e dare la capacità di giudizio che è l’anima della libertà, risulta assai negativo che la libera informazione sia intaccata alla radice, sia nelle fonti che nella diffusione acritica delle notizie.  Pertanto urge limitare – meglio far regredire – l’innaturale espandersi nel mondo reale dei ritmi dei social.

Tale obiettivo esige un serio  impegno culturale, diffuso e coerente, per evitare un utilizzo distorto dell’innovazione epocale che è il cellulare. Principalmente da parte di chi, come i liberali, è stato ed è il solo fautore italiano del ruolo centrale dell’individuo in una crescita del Paese equilibrata ed innovativa.  

Innanzitutto occorre rendere consapevole ogni cittadino che il cellulare non è uno strumento di totalitarismo conformista ma all’opposto uno strumento di libertà che favorisce le relazioni tra i cittadini individui e gli scambi tra di loro d’ogni tipo. Insomma un ricupero di cultura realistica nel convivere tra diversi. Perciò chi  usa  il cellulare deve evitare con cura la trappola di pensare che il mondo dei social  possa essere  alternativo a quello reale. Occorre restare consapevoli che il ritmo dell’immediatezza nei social non può nascere a scapito di altri caratteri della personalità di cui, nella vita umana, non è possibile fare a meno , a cominciare dall’esercizio dello spirito critico. Tale esercizio, a parte le differenze tra gli individui, richiede  tempi fisici  di riflessione di per sé insopprimibili. Dunque l’uso del cellulare non può far dimenticare che si è arrivati a disporne attraverso l’approfondita comprensione delle condizioni fisiche complessive della realtà, le quali restano un vincolo imprescindibile. E’ un illudersi assurdo tentare di traslocare in un teorico mondo parallelo fatto a piacimento e privo dei vincoli del materiale vivere tra diversi.

Il secondo grande impegno spetta ai giornalisti fedeli alla  professionalità storica. Devono esser l’esempio perché i rispettivi prodotti editoriali non diffondano la cultura invasata dei social. Devono  insegnare ai colleghi esaltati a rifuggire la frenesia dei social e a riscoprire l’antica lezione del controllare in partenza le notizie date agli utenti. Si tratta di un fattore essenziale per riallineare il giornalismo ai ritmi della vita scrollandosi di dosso l’ospite dispettoso del comunicare frenetico sui cellulari.

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Una Dichiarazione sempre attuale

1 – Un auspicio – Negli Stati Uniti la ricorrenza annuale del 4 luglio è festa nazionale, a ricordo  della firma della Dichiarazione di Indipendenza dalla Corona Britannica (1776). Ebbene, è auspicabile richiamarla anche in Italia. Perché è un documento assai attuale sia per il processo di redazione che per l’originalità dei contenuti. Soprattutto con lo sguardo rivolto al futuro.

2 – Il testo della Dichiarazione di Indipendenza – All’epoca 13 colonie, tutte nella costa est del nord America e nei territori contigui, si sollevarono contro la Corona inglese, rivendicando che i tributi pagati avrebbero dovuto  esser legati al poter avere rappresentanza parlamentare in madre patria , mentre non l’avevano. Di conseguenza, le 13 Colonie iniziarono la Dichiarazione facendo una constatazione fondamentale, da leggere alla luce dello spirito inequivoco che la percorre. “Tutti gli uomini sono creati eguali; essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”. Dunque, affermano le Colonie, il Creatore è il presupposto, ma la vita umana si basa sulle relazioni, improntate all’uguaglianza nei diritti legali individuali ed  esercitati nel segno della libertà di ciascuno finalizzata alla di lui Felicità.

La Dichiarazione prosegue con un altro punto fondamentale. “Per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati”. Dunque il governo ed il potere derivante non emanano dalla divinità, bensì dai cittadini. Poi la Dichiarazione fa una precisazione decisiva: “ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”. Parole di limpida specifica delle circostanze in cui il popolo dei governati può procedere a mutare il governo e sostituirlo con uno più attento alla sua sicurezza e alla sua felicità. Infine la Dichiarazione contiene un ulteriore gruppo di valutazioni che inquadra con precisione quali comportamenti tenere, come tenerli e le relative tempistiche.  “Certamente, prudenza vorrà che i governi di antica data non siano cambiati per ragioni futili e peregrine; e in conseguenza l’esperienza di sempre ha dimostrato che gli uomini sono disposti a sopportare gli effetti d’un malgoverno finché  siano sopportabili, piuttosto che farsi giustizia abolendo le forme cui sono abituati. Ma quando una lunga serie di abusi e di malversazioni, volti invariabilmente a perseguire lo stesso obiettivo, rivela il disegno di ridurre gli uomini all’assolutismo, allora è loro diritto, è loro dovere rovesciare un siffatto governo e provvedere nuove garanzie alla loro sicurezza per l’avvenire. Tale è stata la paziente sopportazione delle Colonie e tale è ora la necessità che le costringe a mutare quello che è stato finora il loro ordinamento di governo.

Qui va rilevato innanzitutto l’affermazione che le valutazioni sui governi si basano sull’esperienza. E poi che esse non si formano sui capricci, bensì  sul reiterarsi al passar del tempo di atti tesi all’assolutismo (dimentichi del buongoverno). Dunque, si sancisce che le valutazioni devono essere frutto di maturazioni alla prova degli avvenimenti, e non stabilite in base alla lettura di libri religiosi o ideologici.   

Proseguendo sulla linea della concretezza delle cose, la Dichiarazione elenca in dettaglio la storia “di ripetuti torti ed usurpazioni dell’attuale re di Gran Bretagna, tutti diretti a fondare un’assoluta tirannia su questi Stati. Sono citate con precisione tredici gravi iniziative o mancanze giurisdizionali tese a quel fine, vale a dire rendere più difficile od impedire l’equo esercizio dei diritti nei confronti dei cittadini e da parte loro. Tra l’altro, “assoggettando le Colonie ad una giurisdizione estranea alle  leggi, acquartierare nelle Colonie grandi corpi di truppe armate, interrompere il commercio delle Colonie con tutte le parti del mondo, imporre tasse senza il consenso delle Colonie, sopprimere le carte statutarie, abolire le validissime leggi, mutare dalle fondamenta le forme di governi, sospendere i corpi legislativi, e legiferare in ogni e qualsiasi caso”.

In aggiunta, la Dichiarazione formula precise accuse nei confronti del Re inglese. Ad esempio. “Egli sta trasportando vasti eserciti di mercenari stranieri per completare l’opera di morte e di tirannia già iniziata con particolari casi di crudeltà che sono del tutto indegni del capo di una nazione civile…..Un principe, il cui carattere si distingue così non è adatto a governare un popolo libero”.

Dopo aver pure citato l’inutilità dei tentativi di un rapporto di amicizia con i fratelli britannici,  dimostratisi sordi alla voce della giustizia e del sangue comune, alla fine la Dichiarazione enuncia la decisione conclusiva: “Noi, Rappresentanti degli Stati Uniti d’America, riuniti in Congresso generale, appellandoci al Supremo Giudice dell’Universo per la rettitudine delle nostre intenzioni, nel nome e per l’autorità del buon popolo di queste Colonie, solennemente rendiamo di pubblica ragione e dichiariamo: che queste Colonie Unite sono, e per diritto devono essere, stati liberi e indipendenti; che esse sono sciolte da ogni sudditanza alla Corona britannica, e che ogni legame politico tra esse e lo Stato di Gran Bretagna è, e deve essere, del tutto sciolto; e che, come Stati liberi e indipendenti, essi hanno pieno potere di far guerra, concludere pace, contrarre alleanze, stabilire commercio e compilare tutti gli altri atti e le cose che gli stati indipendenti possono a buon diritto fare. E in appoggio a questa dichiarazione, con salda fede nella protezione della Divina Provvidenza, reciprocamente impegnamo le nostre vite, i nostri beni e il nostro sacro onore”. La Dichiarazione venne firmata dai 56 delegati delle 13 Colonie. 

3 – La svolta impressa dalla Dichiarazione – Ho ripercorso il testo della Dichiarazione a passo a passo, dato che questo mio articolo non ha lo scopo di celebrarla, si prefigge di  approfondirla al fine di comprenderne appieno la svolta che ha rappresentato (e la sua validità odierna). Fino ad allora, in Inghilterra a partire dalla Magna Carta Libertatum (1215)  era cresciuto il ruolo del Consiglio del Regno, una sorta di Parlamento, e si era sviluppata la democrazia rappresentativa, nella quale l’elezione dei rappresentanti dava più spazio ai cittadini (sempre con lentezza, con fatica e con scontri armati, tra i contrapposti forti interessi della Casa regnante, dei nobili, del clero, del ceto borghese con più numeri e con risorse economiche più ampie). Poi , dopo la gloriosa rivoluzione svoltasi senza spargimento di sangue, il Re sottoscrisse la Dichiarazione dei Diritti (1689), che stabilì il carattere contrattuale del potere della Corona e avviò la supremazia del Parlamento rappresentativo eletto su base territoriale da cavalieri e cittadini. Durante il secolo successivo, le idee favorevoli al Parlamento circolarono e si diffusero   anche   altrove. Tuttavia era un concetto relativo a Stati e popoli esistenti da secoli, di cui si proponeva di mutare gli assetti istituzionali. Viceversa, le 13 Colonie affrontarono per la prima volta la questione a livello assai più ampio. Partirono dal sostenere che fosse indispensabile riconoscere la rappresentanza parlamentare nella madre patria ai coloni che ad essa pagavano tributi. E per affrontare lo scontro, finirono per estendere il criterio parlamentare alla federazione di stati che dettero vita agli Stati Uniti d’America.

Nel complesso, prima della Dichiarazione di Indipendenza non si era mai arrivati ad una formulazione tanto organica e in sostanza puntuale dei caratteri distintivi della libertà nel convivere innestata sui cittadini. All’epoca proseguiva a diffondersi il portato di una scoperta frutto del vivere nei secoli. Quella che il governare la convivenza funziona meglio quando viene affidato al popolo degli umani e non è più eterodiretto, né da qualche libro sacro né da qualche potente per tradizione (in origine arrivato a prevalere tramite la forza fisica, economica o militare) oppure per conquista con mezzi possenti. Ebbene, le 13 Colonie americane fissarono tale scoperta, estendendola al di là della capillare casistica della legislazione in Inghilterra  ed inquadrandone i nuovi meccanismi cardine di principio nella Dichiarazione di Indipendenza.

Il primo cardine  fu il separare il Divino dall’umano nella gestione della convivenza terrena. L’esistenza di un Dio era confermata con fermezza ma con altrettanta fermezza non era legata alle decisioni umane in materia di vita insieme nelle istituzioni. In pratica era la linea del deismo inglese, secondo cui la fede in Dio dipende dall’istinto di tutti gli uomini e può non contraddire la ragione e la libertà di coscienza. In sostanza il deismo è contro l’idea di rivelazione o i misteri connessi, critica le chiese tradizionali ma non è contro la religiosità in sé. In sintesi, la separazione insita nella Dichiarazione equivaleva a confinare il Divino nel settore (amplissimo) di quanto gli umani al momento non conoscono, senza farlo interferire con le scelte normative ed operative riguardo i rapporti interpersonali e con il giudicare gli atti di governo. Una affermazione chiave, favorita da due circostanze. Una, la fortissima impronta protestante tra i coloni, che già aveva smosso le acque del clericalismo accrescendo il ruolo autonomo di ogni persona nel disporre le proprie capacità di natura. L’altra, un periodo dopo l’arrivo di Cristoforo Colombo troppo breve, perché nel mondo delle Colonie vi fosse una penetrazione diffusa e radicata di istituzioni religiose cattoliche (che, quali   rappresentanti in terra del Dio, propendono  al propagandare la verità di fede e così a rafforzare il conformismo civile).

Il secondo cardine fu legare le scelte del vivere in società allo sperimentare. In altre parole il decidere segue l’osservare gli accadimenti, abbandonando la logica del progetto eterno da attuare ad ogni costo. Comportamento indispensabile per poter conoscere di più il mondo, gli altri, sé stessi e per raggiungere meglio la propria felicità, specie essendo consapevoli dell’enorme numero di cittadini diversi di cui è formato il popolo.  Questo secondo cardine fu anch’esso una novità, seppure non totale. Di fatti, da un lato richiamava lo spirito della commow law inglese  assai vicino alle tradizioni di vita quotidiane  e al loro filo  interpretativo affidato al lavoro dei giudici  e degli avvocati, dall’altro innovava  ponendo l’esigenza di inquadrare le scelte da fare non solo nella tradizione ma piuttosto in normative  di volta in volta votate in parlamento.

Il terzo cardine fu specificare che il governo sulla terra spettava agli umani, in linea di principio nella loro interezza e non ristretti a qualcuno di loro. L’attenzione perciò era posta sulle procedure adatte a svolgere questo compito, mantenendo l’idea secondo cui l’intera materia era di per sé cangiante e che dunque necessitava l’autodeterminazione tramite valutazioni e controlli ripetuti in base ai fatti, ai luoghi, al momento e alle persone coinvolte. Peraltro rispettando sempre il principio che il corrispondere tributi era inseparabile dall’avere rappresentanza parlamentare.

Il quarto cardine fu il sottolineare la necessità di effettuare tali valutazioni e controlli con animo paziente e libero da preconcetti, in modo che l’attività sperimentale svolga i suoi effetti senza farsi sviare dall’ansia del trovare i risultati preferiti e che di conseguenza i dati sperimentali portino a decisioni adatte rispettare il criterio della libertà e, attraverso di essa, quello della felicità del popolo.

Il quinto cardine fu  introdurre per la prima volta il principio della divisione dei poteri nella gestione dello Stato, individuato  pochi decenni prima da Montesqieu. Un’ulteriore conferma del riconoscere   l’insussistenza   dell’antica teoria   secondo cui   le strutture dello Stato avrebbero dovuto essere un blocco unitario nelle mani di chi detiene il potere.

4 – Gli Stati Uniti d’America – La Dichiarazione del 1776 formò un amalgama  dei cinque cardini considerandolo applicabile non solo in un singolo stato ma in ambito federale di più stati, anche senza cancellare le rispettive specificità. Un amalgama che operò con successo nella successiva guerra di Indipendenza dal Re d’Inghilterra e nella vita ordinaria dei vari Stati già Colonie. Negli anni seguenti tra i 13 Stati maturò la convinzione della necessità di formulare le strutture fondamentali delle loro istituzioni.  

Così undici anni  dopo (1787) venne promulgata la Costituzione federale  degli Stati Uniti  d’America, nella quale i principi della Dichiarazione sono tradotti in un complesso di leggi e di istituti coerenti alle  indicazioni in essa contenute (un ramo esecutivo – il Presidente con poteri ben definiti –, un ramo legislativo composto da due assemblee, il Senato formato da due rappresentanti per Stato e la Camera con un numero di rappresentanti proporzionato agli abitanti, un ramo giudiziario diffuso ai vari livelli delle istituzioni e con al vertice la Corte Suprema; i componenti di ogni ramo eletti al rispettivo livello con incarico a tempo, eccetto l’incarico della Corte Suprema attribuito dal Presidente ad ogni singolo componente e mantenuto dal nominato per tutta la sua  buona condotta). Inoltre, venne introdotto per la prima volta il principio secondo cui le norme della Costituzione appartenevano ad un ordine superiore rispetto a quello delle leggi ordinarie (dunque valevano per ogni Stato federato).

Nel periodo immediatamente successivo – esattamente dal 1789 al 1791 –, nella Costituzione vennero aggiunti dieci emendamenti per specificare diritti fondamentali nella vita del popolo che  il Governo non poteva violare. Due in particolare sono assai significativi. Il IX  stabilisce che un diritto del popolo  può sussistere anche se non è enumerato nella Costituzione (il che significa che la  Costituzione non è la sola fonte del diritto). Il X stabilisce che I poteri che la costituzione non attribuisce agli Stati Uniti né inibisce agli Stati, sono riservati ai singoli Stati o al popolo (il che specifica ulteriormente la natura federale degli Stati Uniti, ove i diritti costituzionali si applicano in tutti gli Stati, ma vi sono poi i diritti di ciascun Stato). Restando inalterato l’indirizzo delle norme costituzionali allora in essere, sono stati poi apportati, nei quasi duecentoquarantanni trascorsi dopo, degli aggiustamenti maturati nel frattempo. Peraltro è stata sempre mantenuta la responsabile prudenza di valutazione prevista nella Dichiarazione di Indipendenza, tanto che ad oggi gli emendamenti alla Costituzione sono  27  in totale.

5 – Gli sviluppi istituzionali diversi nell’Europa continentale – 5.1L’illuminismo negli Stati Uniti. La Dichiarazione di Indipendenza prima e la Costituzione degli Stati Uniti d’America poi, sono un prodotto palese dei principi dell’illuminismo, ma lo sono nell’accezione inglese che accentua il campo civile e perciò è attenta all’esercizio delle libertà. Non a caso negli Stati Uniti l’illuminismo rispettava il criterio dell’accorta e continua valutazione dei dati sperimentali.  Per contro, l’illuminismo continentale si impegnava  innanzitutto a valorizzare le conoscenze sempre più vaste e a svolgere un ruolo di alta consulenza sui principi per mezzo della ragione (così da renderli il più possibile conosciuti) ma focalizzandosi innanzitutto sulla ragione stessa piuttosto che sui risultati dell’applicarla.   

Per questo motivo, pur rientrando le vicende delle 13 Colonie nel movimento europeo di trasformazione politico istituzionale degli Stati (anche nell’aspirazione ad essere un esempio per il resto del mondo), lo svilupparsi della lotta politica in Francia fece venire a galla la differente natura dell’illuminismo continentale. E di conseguenza la differente influenza delle due Rivoluzioni americana e francese  sugli avvenimenti svoltisi da allora nel mondo intero. 

5.2 L’arrivo alla Rivoluzione francese – Verso la fine degli anni ottanta del ‘700, in Francia il regime di  monarchia assoluta ebbe una massiccia crisi economica che provocò diffusissime condizioni di miseria. In larga misura la causa era che da tempo il Regno  spendeva parecchio di più delle entrate (la sola Corte costava il 6% delle uscite) e che i tentativi di vari ministri delle Finanze di aumentare l’imposizione fiscale distribuendola soprattutto su nobiltà e clero, non vennero mai approvati per la decisa opposizione di quei due stessi stati.

Così, a  maggio 1789, per la prima volta dopo 170 anni, il Re convocò gli Stati Generali di una società suddivisa in tre stati, nobiltà, clero e terzo stato (cui appartenevano i 9/10 della popolazione). I rappresentanti di ogni Stato venivano eletti da chi ne faceva parte localmente ma poi, negli Stati Generali, ogni Stato aveva un solo voto deciso dai rispettivi rappresentanti. Quindi permaneva il dominio stabile del duo nobiltà e  clero, cosa in contrasto evidente con le idee maturate nell’ultimo secolo sul ruolo degli individui. Nel giro di poche settimane, venne accettata la richiesta di voto singolo di ogni eletto avanzata dal terzo Stato, ma ormai si era innescato un movimento  di grandi proteste che in breve posero le premesse per una epocale rivoluzione civile, la presa della Bastiglia, avvenuta il 14 luglio 1789.

Durante quell’agosto, l’Assemblea abolì tutti i privilegi feudali avviando una società autonoma di cittadini, e, alla fine del mese, su un testo preparato dal marchese  di La Fayette (che aveva preso parte alla guerra per l’Indipendenza degli Stati Uniti ed era anche cittadino americano), la stessa assemblea approvò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che da allora sarà un riferimento per molte costituzioni europee moderne.

5.3 La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo – La Dichiarazione inizia con le parole “i rappresentanti del popolo francese costituiti in Assemblea Nazionale”,parole che trasformano una società di corporazioni e di ordini, in una  di cittadini riuniti in un solo popolo. Dopodiché l’art. 1 sancisce che “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”, l’art. 2 che “Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, laproprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”, l’art.3 che Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione, l’art.4 che La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla Legge”, l’art. 5che – “La Legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società”.,  l’art. 6 che La Legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla formazione della Legge. Essa deve essere uguale per tutti. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti”, l’art.10 che “nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose”, l’art.17 che la proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta indennità”.

In generale, è un testo che somiglia non poco alla Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti di tredici anni prima. Però che contiene anche disposizioni discordanti, riferibili al modo continentale di intendere l’illuminismo. Alcune di queste saranno all’origine dei mutamenti strutturali intervenuti pochissimi anni dopo in Francia e alla base di un percorso politico culturale del tutto diverso in Europa rispetto a quello negli Stati Uniti. Esemplifico. Per prima cosa, lo strumento francese, la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, era riferito non solo al popolo come nella Dichiarazione di Indipendenza, bensì all’intera umanità.  Poi l’art. 1 introduce il presupposto che gli uomini “rimangono” liberi ed uguali nei diritti (un tipico concetto prodotto dalla ragione), sorvolando sul fatto  che tale effetto non è affatto scontato nella realtà ma dipende dal quadro normativo che governa le relazioni interpersonali. L’art. 3 colloca la sovranità nella Nazione senza definire esattamente la Nazione stessa (di nuovo un concetto prodotto dalla ragione, al di là di costruirlo in concreto) ma facendo intendere che la Nazione sia al di sopra dei suoi cittadini.  L’art. 5 prevede che la legge non abbia il diritto di nuocere alla società, senza specificare cosa intende con la frase nuocere alla società (ancora un concetto fondato sulla ragione quale origine del dover essere). L’art. 6 definisce la legge espressione della volontà generale, senza chiarire cosa sia precisamente la volontà generale salvo darle il carattere di entità preordinata agli umani conviventi (in sostanza fa derivare la volontà generale dalla ragione che la determina a tavolino, a scapito dell’autonomia agli umani).

La lettura della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo fa constatare che già nel ’89 era radicato il pensiero del filosofo Jean Jacques Rousseau (morto già nel 1778) che a parole predicava il nuovo (egli sosteneva perfino che un futuro migliore richiedeva il distruggere il passato) ma nel concreto faceva  rivivere, dando loro un nuovo aspetto, molte concezioni del passato intrinsecamente antiscientifiche ed antiindividualiste. A cominciare dall’eterno ritorno dell’utopia quale ideale di vita, in radicale contrasto con la fecondità del conoscere illuminista poco incline a voli utopici. Da cui nacque l’idea di volontà generale , tipica espressione di una ragione teorica estranea allo sperimentare davvero la realtà.

5.4  Cambi di idee nella  Rivoluzione, primo quinquennio – Il Re controfirmò la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, ma continuò ad esercitare il suo ruolo abituale. Sul subito principalmente attraverso  il suo diritto di veto nei confronti dell’Assemblea Nazionale e in seguito tessendo trame restauratrici, soprattutto circoscritte ai palazzi. Nell’estate del 1790 l’Assemblea fece un ulteriore passo di distinzione rispetto alle strutture degli Stati Uniti,  adottando la Costituzione civile del Clero, con cui la Chiesa cattolica divenne un’istituzione al servizio della nazione, anche se la sola autorizzata a celebrare pubblicamente feste e cerimonie. Il clero dedito ad attività assistenziali e sociali, divenne un corpo di funzionari dello Stato, stipendiato e tenuto a giurare fedeltà alla Costituzione. Inoltre erano soppressi i privilegi  degli ordini religiosi e si stabiliva che i vescovi e  i parroci fossero eletti nelle loro zone dai politici e autorizzò  solo la religione cattolica .

Al passar dei mesi, il Re si sentiva sempre più insicuro nel nuovo clima politico ormai consolidatosi ma che lui non condivideva. Così nel giugno del 1791  fuggì da Parigi tentando di raggiungere una piazzaforte al confine con il Belgio, dalla quale lanciare un’offensiva dei suoi fedeli. Venne ripreso quasi subito nelle Argonne dalla Guardia Nazionale comandata da La Fayette e riportato a Parigi, con una sorveglianza più stretta nonché sospeso temporaneamente dalle sue funzioni (provvedimento che rientrò dopo poche settimane per le dichiarazioni d’alto là fatte da diverse potenze europee). In quell’ottobre 1791 venne varata la prima  Costituzione della Rivoluzione Francese, che aveva come preambolo la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e conservava la forma monarchica, tuttavia  accentuando le caratteristiche innovative dell’impianto fondato sulla ragione teorica. Così ribadiva il concetto  della sovranità che appartiene alla nazione (“dalla quale emanano unicamente tutti i poteri”) e lo espandeva stabilendo che “nessuna sezione del popolo, né alcun individuo può attribuirsene l’esercizio”. Inoltre affermando che “il Corpo legislativo non potrà essere sciolto dal re” faceva dell’Assemblea l’effettivo fulcro decisionale della Francia. Nel complesso, con la prima Costituzione della Rivoluzione stava proseguendo la divaricazione tra le due culture dei documenti fondanti degli Stati Uniti e di quelli francesi.

E non era finita. Il clima politico in Francia volgeva al peggio, risultando molto più teso all’esterno e all’interno. All’esterno venne dichiarata guerra all’Austria perché aiutava i ribelli monarchici e all’interno  la tentata fuga del Re aveva accentuato il discredito per l’istituto monarchico.  In tale quadro, il nuovo ruolo  assegnato all’Assemblea senza contrappesi  e l’irrobustirsi della tesi di  arrivare presto alla Repubblica, portarono alla scissione  tra i deputati girondini di orientamento moderato (primavera 1792) e determinarono il completo prevalere dei sanculotti radicali. Ciò innescò l’esaltazione egualitaria del popolo indistinto al posto del cittadino. Man mano che acquisivano potere i giacobini fanatici delle idee di Rousseau, tra i francesi aumentava sempre più il ricorso all’esercizio della forza (che si accompagnava al razionalismo deterministico) mentre si lasciava in disparte l’effettivo dibattito delle idee e si trascurava molto la maturazione  civile.

Tutto questo  prese corpo negli avvenimenti del 10  agosto , quando, sotto la guida della Comune di Parigi in mano ai giacobini, la folla insieme a molti militari repubblicani assaltarono il Palazzo delle Tuileries dove il Re e la sua corte risiedevano da un triennio. Il Re si rifugiò nell’attiguo palazzo dell’Assemblea Legislativa ma i rivoltosi ebbero la meglio quasi subito massacrando diverse centinaia di guardie svizzere del Re.  Subito dopo anche l’Assemblea Legislativa accettò  la richiesta giacobina,  sostituendo il Re con un Consiglio Esecutivo e convocando le elezioni generali a suffragio universale maschile per la nuova Assemblea. L’esaltazione giacobina giunse poi all’apice dopo l’inattesa vittoria a Valmy dell’esercito pur raccogliticcio (20 settembre) contro la larga coalizione degli Stati europei che intendevano combattere la rivoluzione antimonarchica.

Nei giorni successivi, l’Assemblea Legislativa – chiamata ora Convenzione Nazionale – accentuò l’intenzione di costruire una nuova Francia in grande discontinuità con la precedente. Proclamò la Repubblica al posto del Regno, decretò l’inizio di una nuova era storica nel conteggio degli anni (ripartendo dall’anno I della Repubblica) e avviò la redazione di una seconda Costituzione francese. In quelle settimane venne deciso l’arresto del Re  e in seguito il suo processo , che si concluse con la condanna alla ghigliottina (gennaio 1793). Nel frattempo vennero conclusi i lavori per la Seconda Costituzione molto diversa da quella precedente.

Già il  preambolo riprendeva nella sostanza le idee rousseauiane attualizzate (seppure insieme ad altri aspetti  volti all’attenzione a problemi di libertà civile). Si inizia sostituendo la sovranità nazionale con la sovranità popolare espressa a suffragio universale. Si prosegue eliminando il principio della separazione dei poteri e attribuendo alla Convenzione Nazionale, siccome esprime la volontà del popolo, sia il potere esecutivo che il potere legislativo. In seguito si definiscono tutti gli uomini eguali per natura (concetto puramente teorico estraneo al mondo reale)  e  poi si antepone l’eguaglianza a libertà, sicurezza e proprietà. Inoltre si adottano norme prescrittive del dover essere Ideale. Ad esempio si sanciva cha la legge non poteva ordinare se non ciò che è giusto e utile alla società; e che non può vietare se non ciò che le è nocivo. E si proclamava  pure che quando il Governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri. Insomma, un modo di concepire la realtà in toni aulici e netti, senza dare  spazio a sfumature nelle regole e nei comportamenti. Qualcosa cioè che rientra più in quadro stereotipato lontano dal vero e piuttosto espressione della pretesa di imporre la propria volontà agli altri.

Nel mese di aprile 1793, il potere esecutivo venne affidato, oltre che al Consiglio dei Ministri, ad un nuovo organo, il Comitato di Salute Pubblica, con effettivi ampi poteri. Sempre in quelle settimane, la Seconda Costituzione  venne presentata e anche largamente approvata in un referendum. Però non venne davvero mai applicata, visto che tre mesi dopo la composizione del Comitato di Salute Pubblica venne modificata (entrandovi quale presidente Robespierre), che non riteneva la Costituzione abbastanza incline alla Rivoluzione. Quindi venne deciso che il governo sarebbe stato “rivoluzionario fino alla pace“. Con tali modalità si giunse presto al periodo del Terrore con il Triumvirato di Robespierre, che visse nel sangue all’insegna della più roboante demagogia egualitaria (furono centinaia di migliaia gli arrestati per attività controrivoluzionaria; di cui oltre 16.000 ghigliottinati e decine di migliaia morirono  mentre altre decine di migliaia morirono in prigione. L’ossessione di Robespierre era la minaccia dei nemici interni. Alcuni membri ella Convenzione Nazionale, preoccupati di  essere le  prossime vittime,  denunciarono preventivamente Robespierre a fine luglio 1974. Lo arrestarono con l’aiuto delle truppe della Convenzione e subito dopo ghigliottinarono lui e diversi suoi amici.  La morte di Robespierre pose fine alla dominazione giacobina e dette inizio alla cosiddetta reazione termidoriana (termidoro, nel calendario rivoluzionario dell’epoca, era il nome del periodo tra il 17 luglio e il 18 agosto).

I Termidoriani avevano,   riguardo all’evolversi delle passate fasi della Rivoluzione e ai progetti per il futuro, una composizione moltissimo variegata sia quanto a provenienza che a formazione. Realisticamente avevano colto che la massa dei cittadini rifiutava la concezione rivoluzionaria giacobina e pertanto proponevano il ritorno ad un governo stabile  nonché rispettoso delle regole e della libertà economica. A tal fine, eliminarono il più possibile l’impronta giacobina nelle istituzioni a Parigi e nella provincia francese, negli aspetti giuridici (abrogando la legge sui sospetti e sulla carcerazione prima del processo)  , nelle esecuzioni ( nel mese di agosto i ghigliottinati furono 6 contro i 343 di luglio) e in quelli umani (eliminando, pure fisicamente non di rado, o comunque trattando  con dileggio,  chi era stato giacobino). Al tempo stesso, il clima politico assai meno giacobino indusse al rientro in patria molti seguaci del Re che avevano trovato rifugio all’estero.

Nella medesima ottica antigiacobina,  nel febbraio 1795 i termidoriani dichiararono  la libertà di culto, ponendo fine alla Chiesa Costituzionale e separando Stato e Chiesa per la prima volta in Francia. Questa libertà di culto venne estesa pure ai ribelli della Vandea, che si erano rivoltati a causa della repressione rivoluzionaria del cattolicesimo. Tuttavia, nell’inverno ’94-95 le condizioni socioeconomiche non potevano raddrizzarsi d’un colpo, e quindi persisteva abbastanza malcontento da consentire ai restanti ambienti  giacobini di tentare un colpo di coda. Una loro sollevazione a Parigi del 1° di pratile (20 maggio) chiese alla Convenzione la distribuzione del pane e l’entrata in vigore della Costituzione del 1793. La sollevazione parigina aveva l’appoggio della Guardia Nazionale, ma venne repressa alla svelta dalle truppe della Convenzione e finì nel trimestre successivo con accese rappresaglie in tutto il paese contro i restanti giacobini.

I Termidoriani, non avendo intenzione di far entrare in vigore la Costituzione giacobina del 1793, ne redassero una nuova (agosto 1795) , prefiggendosi di evitare l’onnipotenza dell’Assemblea o di un suo esponente. Perciò la nuova Costituzione, stabilito all’inizio che “la legge è uguale per tutti”, affiancò una dichiarazione dei doveri (che includeva il rispetto dell’autorità) a quella dei diritti. E cambiò gli organi dello Stato. Il legislativo venne composto da due camere, i Cinquecento che formulavano le proposte e gli Anziani che quelle proposte potevano solo o approvare o bocciare. L’Esecutivo era un Direttorio  composto da 5 membri non sfiduciabili, scelti dagli Anziani in una rosa di 50 nomi formata dai Cinquecento. Ogni anno un membro del Direttorio decadeva a rotazione. Inoltre vi era una Tesoreria dello Stato nominata dai CInquecento Il corpo legislativo veniva eletto ogni tre anni in due fasi dai cittadini contribuenti (come nella Costituzione del 1791).   Le varie Assemblee avrebbero eletto i magistrati nei rispettivi territori. Da ricordare che questa Costituzione fu il modello che i francesi imposero negli anni seguenti alle varie repubbliche italiane.

5.5 Cambi di idee nella Rivoluzione, prosecuzione – Negli anni successivi al 1795, le  idee sul come costruire le istituzioni francesi continuarono a marciare lungo la linea della Terza Costituzione e ancora una volta non ebbero uno sviluppo univoco. Non per caso produssero prima il Consolato di Napoleone, poi un’ulteriore Costituzione nel 1799, dopo sfociarono nella formazione dell’Impero e ancora dopo nelle guerre europee, che si conclusero con la restaurazione.

Queste  vicende storiche sono talmente note nei loro dati effettivi, da non richiedere in questa sede ulteriori specificazioni al fine di approfondire aspetti del filone politico culturale seguito in Francia: nel percorso per arrivare prima alla Rivoluzione e in seguito per la struttura delle Istituzioni, il ruolo del cittadino, il peso della violenza nelle relazioni pubbliche. Risulta di una evidenza innegabile che quel filone si dipanò all’interno dell’illuminismo. Però intese l’illuminismo in un’accezione rattrappita, ben poco attenta a quanto significasse nella sua parte evolutiva.

L’illuminismo, nell’occuparsi delle cose del mondo, venne ridotto al valorizzare il ruolo della ragione  umana, solo al fine di meglio consentire al potere della maggioranza esistente al momento di applicare la tradizionali consuetudini del gestire la convivenza. Non ne venne colta la forte attitudine evolutiva. Non si cercò mai di aprirsi al confronto sperimentale delle idee e dei progetti individuali in un clima di maggiore libertà nelle relazioni umane, anche a livello istituzionale. La riprova più esplicita si trova forse nel totale cambiamento nel campo del diritto. Venne rimossa integralmente ogni fonte di diritto consuetudinaria o locale o d’esperienza professionale o di giurisprudenza (costituenti una prassi  di raccordo con la vita quotidiana) per essere sostituite dalla sola normativa della legge votata dall’Assemblea valida per tutti e in ogni momento (che unificava il diritto ma insieme lo cristallizzava favorendone l’applicazione preferita dai gestori del potere ed inibendone l’adeguarsi al tempo).    Da tale chiusura al confrontarsi sperimentale sulla realtà, ebbero origine le continue svolte politico culturali, ciascuna all’insegna della ragione al momento prevalente nell’Assemblea ed accompagnate dal progressivo ricorso alla violenza fisica pressoché esclusivo – divenuto perfino, ad un certo punto, parossistico e disumano –  per dirimere i conflitti di idee e di progetti.

Ciononostante, il mito libertario secondo cui la Rivoluzione di fine ‘700 avrebbe impresso una spinta innovativa,  per decenni dilagò al di là dei confini della Francia, arrivando in tutta Europa e insediandosi stabilmente. Peraltro  restò privo della capacità di riflettere sui limiti gravi, le contraddizioni e le arretratezze che pure aveva introdotto nella vita istituzionale e nella storia della libertà civile in Europa. Al punto che gli effetti negativi di questo mito libertario rimangono tutt’oggi. Di quell’epoca molti insistono ancora oggi nel valorizzare gli aspetti peggiori: voler governare la convivenza in termini illiberali trascurando i cittadini a favore (di fatto) delle élites e del dover essere. 

6.  La capacità di rinnovarsi di continuo stando ai fatti – 6.1 La caratteristica degli Stati Uniti. Nel descrivere quanto avvenuto nel primo quinquennio della Rivoluzione francese, ho messo in evidenza i punti in cui sono nette le distanze dall’esperienza degli Stati Uniti nel campo del far maturare la legislazione per convivere. Come ho già sottolineato, in Francia non venne colto il profondo meccanismo politico culturale espresso dalla Dichiarazione d’Indipendenza. E principalmente non fu colto il significato di cosa comportasse l’amalgama dei cinque principi da essa introdotti.

Da allora l’amalgama di quei principi è riuscito ad evitare che gli Stati Uniti, nonostante le difficoltà umane del convivere, cadessero in contraddizioni istituzionali irrimediabili sotto il profilo della libertà dei loro cittadini. E la Costituzione degli Stati Uniti – con i soli 27 emendamenti apportati attraverso la meditata valutazione sperimentale degli avvenimenti, dal 1787 ad oggi –  mantiene un funzionamento eccellente, mostrandosi ancora in grado  di governare  tensioni civili che finora rientrano nei conflitti domestici tra diversi, fisiologici  all’esercitare la libertà.

La stessa cosa non è avvenuta con i nipotini della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, fin da subito assai ondivaga negli effetti. E, nei due secoli da allora, neppure  è avvenuta a livello mondiale con le svariate altre proposte avanzate nello stesso periodo. Proposte mosse da ambizioni epocali tra loro differenti, anzi contrapposte quanto ad impostazione ideale. Però tutte intente a disegnare criteri politico istituzionali con due caratteristiche. La prima essere atti a strutturare una società umana, di livello maturo nel relazionarsi e dotata di un minimo di risorse. La seconda l’essere criteri improntati all’inimicizia più o meno esplicita verso la libertà individuale, la diversità di ciascuno, l’autonomia di ogni cittadino, il libero mercato.  Ebbene,  tutti questi criteri  alla prova della storia, in tempi più o meno lunghi e con percorsi più o meno tragici, sono completamente naufragati  nelle promesse e pure nelle illusioni. Inoltre va detto che sono criteri palesatisi del tutto  incapaci di stare al passo con i continui avanzamenti della scienza nel conoscere di più il mondo.   

Non azzardando bensì applicando il metodo sperimentale, si può fare una solida supposizione. Il motivo per gli esiti fallimentari dei criteri tanto difformi da quelli dei documenti costitutivi degli Stati Uniti, consiste nella loro più o meno totale disattenzione alla libertà politica, al cambiare  senza radicalismi e al ruolo del cittadino individuo nel valutare spesso, mediante il voto, i risultati ottenuti da chi li governa nonché le proposte sul tavolo riguardanti il futuro.  Tale supposizione non solo trova pieno riscontro in quanto avvenuto da fine ‘700 in poi, ma è pure confermata, meno direttamente ma sempre in pieno, prima dalla nascita della Comunità Europea nel 1957 e attualmente dalla natura della minaccia che incombe sull’Occidente.

6.2 – La Comunità Economica Europea e l’UE. Per inquadrare meglio la nascita della Comunità Europea, va ricordato che in Italia, già negli anni ’10,    la questione  Europa era posta da un  liberale, Einaudi (futuro Presidente della Repubblica), e da un socialista non marxista di rilievo, G.E. Modigliani (esecrato da Lenin già a quell’epoca, e dagli anni ‘40 messo all’indice dai comunisti). Poi, nel 1941 a Ventotene tre confinati oppositori al fascismo, Colorni, Rossi e Spinelli, redassero in forma organica un Manifesto per sostenere l’unificazione federale dell’Europa. In particolare  illustrarono il perché in futuro   “la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cadrà non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, ma lungo la nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta, le forme del potere politico nazionale e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale come strumento per realizzare l’unità internazionale.       

Finita la Guerra, l’idea di fare l’Europa crebbe,  ma il Manifesto di Ventotene restò lettera morta. In Italia Einaudi scrisse nella primavera 1948 che “il solo mezzo per sopprimere le guerre entro il territorio dell’Europa è di imitare l’esempio della costituzione americana del 1788, rinunciando totalmente alle sovranità militari, al diritto di rappresentanza verso l’estero ed a parte della sovranità finanziaria”. Lungimirante ma allora solitario. Nel maggio 1950,  il tema  venne rilanciato dal  Ministro degli Esteri francese Schuman,  cattolico, che propose di integrare le industrie del carbone e dell’acciaio. Un’impostazione tradizionale, anche se nel testo illustrativo aperta  alla convinzione che ” l’Europa non sarà costruita tutta insieme;  sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto“.

In ogni modo, l’anno successivo sei stati (Belgio, Francia, Germania Occidentale, Italia , Lussemburgo, Olanda) realizzarono questa proposta (CECA). Però nei quattro anni seguenti, non si sviluppò la convinzione espressa nel piano. Non solo la CECA rimase settoriale ma in più venne perseguita la strada  tradizionale di dar vita alla Comunità Europea di Difesa, CED, ancor più legata agli Stati esistenti (nonostante De Gasperi  tentasse di allargarne struttura e compiti). CECA e CED si richiamavano alle pratiche istituzionali decise dalle diplomazie che disponevano sul modo d’essere dei contraenti, talvolta introducendo embrioni di organi sovranazionali, però sempre al di fuori dalle scelte dei cittadini. Dunque assai distanti dal federalismo americano esistente da  170 anni. Nel 1954 il tentativo della CED fallì perché il suo  statuto non fu ratificato dalla Francia e di conseguenza dall’Italia.  

La costruzione dell’Europa iniziò con il Ministro degli Esteri liberale Gaetano Martino che  riunì la Conferenza di Messina con gli altri cinque Ministri degli Esteri della CECA ( giugno 1955) e dopo tre giorni di confronti tesi, ottenne una dichiarazione improntata ad una logica differente da quella federalista usuale, perché indicava un’Europa dei cittadini che iniziava dalla vita economica quotidiana. Questa linea portò nel 1957 ai Trattati di Roma della Comunità Economica Europea (firmatari i sei paesi della CECA) e in parallelo dell’Euratom, con un’impostazione che richiamava l’esperienza della Dichiarazione di Indipendenza del 1776, addirittura  con una consapevolezza maturata nel frattempo: quella del procedere a passo a passo sulla strada della libertà dei cittadini europei (la disposizione specifica per l’elezione diretta dell’Assemblea Parlamentare venne realizzata nel 1979). L’art. 2 del Trattato scriveva “La Comunità ha il compito di promuovere, mediante l’instaurazione di un mercato comune e di un’unione economica e monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli articoli 3 e 4, uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, la parità tra uomini e donne,……”. 

Insomma, i Trattati di Roma sono una cosa ben diversa dal Manifesto di Ventotene. Soprattutto nel metodo dell’operare politico. Non arrivarono a porsi  il problema della rinuncia immediata alle sovranità da parte dei contraenti ma innescarono meccanismi di libera circolazione che potenziassero al massimo le relazioni tra cittadini, non solamente economiche, e nella sostanza introdussero la necessità del tempo per consentire ai cittadini di assuefarsi ai cambiamenti  Procedere appunto a passo a passo sulla strada della libertà dei cittadini europei.

Viceversa l’Europa sognata a Ventotene era in chiave socialista nella convinzione passatista  che la “rivoluzione europea dovrà essere socialista” eche “la metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria…..Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato e attorno ad esso la nuova democrazia”.  Non a caso , prima e dopo i Trattati di Roma, il PCI attaccò in modo furibondo in Parlamento la prospettiva dell’Europa e continuò  a farlo per un ventennio. Finché il successo del costruire la Comunità, in termini economici e politici nel coinvolgere i cittadini, indusse i comunisti a mutare posizione , iniziando a diffondere l’abbaglio dell’Europa nata a Ventotene. Nonostante  la storia vera fosse un’altra.

I problemi per lo sviluppo coerente dei Trattati di Roma sono iniziati dopo la caduta del muro di Berlino (novembre 1989) e si sono manifestati dal Trattato di Maastricht (febbraio 1992) in poi. I paesi aderenti – inebriati come gli altri di Occidente per la sconfitta dell’ Impero Russo –  in superfice fecero passi avanti apportando ai Trattati le modifiche indispensabili per cambiare il nome da CCE in Unione Europea, per Istituire la cittadinanza europea, per rafforzare il Parlamento europeo, per varare l’unione economica e monetaria, premessa della moneta unica, per  avviare il Sistema europeo di banche centrali e per mantenere l’obiettivo di  “un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa”.  Tuttavia lo fecero potenziando la struttura burocratico istituzionale a livello europeo piuttosto che allargando il ruolo e il peso dei cittadini europei, come era avvenuto negli Stati Uniti. 

Il  trattato di Maastricht si basò su un quadro istituzionale unico, composto dal Consiglio degli Stati membri, dal Parlamento, dalla Commissione, dalla Corte di giustizia e dalla Corte dei conti. Inoltre istituì anche un Comitato economico e sociale e un Comitato delle regioni, ambedue con funzioni consultive. E intese pure svolgere una politica estera e di sicurezza comune e una cooperazione in materia di giustizia e affari interni. Peraltro tutti questi organismi non venivano  dal voto della cittadinanza europea  ma dagli accordi e dalle nomine  dei tavoli interstatali nonché dalle scelte politico diplomatiche  della Commissione e dalla scelte gestionale dei funzionari di Bruxelles.

Progressivamente si consolidò  la tendenza a costruire un’UE sul modello  tradizionale degli Stati di potere di una volta, restii a valorizzare i giudizi e gli indirizzi dei cittadini (infatti, nella UE,  il solo organo votato dai cittadini è il Parlamento, al quale tuttavia sono assegnati poteri assai limitati e che non governa). Rapidamente si abbandonò la rotta tracciata dalla Dichiarazione di Indipendenza e dalla Costituzione degli Stati Uniti. Una dozzina di anni dopo Maastricht,  In linea con tale abbandono, erano già almeno tre i punti di regresso in rapporto al peso della cittadinanza europea (e quindi di allontanamento dalla rotta della Dichiarazione di Indipendenza).

La corsa a far entrare nuovi membri nell’UE, che dai dodici di Maastricht nel 2004 erano divenuti il doppio esatto (negli Stati Uniti occorsero 47 anni per  raddoppiare i membri della Federazione, da tredici e ventisei), il che era frutto della frenesia di mostrarsi capaci di attrarre (e quindi potenti), anche senza valutare prima a fondo la situazione politico istituzionale del richiedente. 

Una moneta, l’Euro, introdotta nel Trattato di Maastricht quale traguardo da raggiungere nel rispetto di Criteri di Convergenza previsti nello stesso Trattato. A parte che il traguardo non è obbligatorio (la Danimarca si chiamò subito fuori), la stortura consiste nel fatto che i Criteri non indicano alcuna procedura  per  dotarsi  della medesima struttura fiscale e neppure per creare un mercato europeo dei capitali.  Senza la medesima struttura fiscale, la moneta unica è una costruzione artificiale senza anima di libertà civile. E purtroppo ancor oggi nel 2024, la struttura fiscale europea non c’è e i membri UE aderenti all’Euro non sono neppure i tre quarti di tutti gli aderenti. 

L’atteggiarsi dell’UE e delle grandi catene di comunicazione    come se l’UE fosse già uno Stato sovranazionale, mentre non lo  era e per più versi. Anzi, la mentalità che ne derivava faceva danni anche a livello della politica nazionale, siccome induceva nei rispettivi cittadini una sensazione di intenti oppressivi da parte delle strutture dirigenti dell’UE.

Questi tre punti di regresso non riregredirono nel quinquennio seguente. Prevalse l’approccio legato alle cancellerie degli Stati membri e delle burocrazie di Bruxelles, che tentò senza riuscirvi  di fare modifiche ai Trattati  con una nuova Costituzione UE in linea con gli indirizzi di Maastricht. Questo approccio venne sconfitto in due referendum in Francia e in Olanda. Allora, si ripiegò su un nuovo Trattato a Lisbona (entrato in vigore a novembre 2009) ,  nel quale restarono due indirizzi di Maastricht disattenti al coinvolgere i cittadini. Uno, l’estensione del ricorso alla votazione a maggioranza qualificata in seno al Consiglio Europeo. E due, far divenire il Consiglio europeo un’istituzione a pieno titolo con un proprio presidente. In pratica, un abbandono sempre più chiaro dell’UE dei cittadini per rafforzare quella degli Stati e degli accordi tra di loro.

Di fatto, lo sviluppo dell’UE iniziò a frenare ,  volgendo al ribasso (oggi il declino dell’UE è comprovato dai numeri, anche se si tenta invano di negare). E’ una prova che non potenziare il ruolo dei cittadini e la loro autonomia, fa  diminuire  i risultati assicurati dall’adottare la libertà dei cittadini avviata dalle istituzioni degli Stati Uniti a partire dal 1776. Ed è una chiara conferma della forza della libertà.

6.3. La libertà imperiale estranea allo spirito del 1776. Quanto alla seconda conferma della supposizione espressa alla fine del paragrafo 6.1. circa il ruolo essenziale della libertà dei cittadini nel governare, è bene riflettere sul fatto che, nell’ultimo quindicennio, la linea politica seguita sia nell’UE sia nel prevalente approccio in occidente, ha mancato di rispetto ai  fondamentali caratteri delle loro istituzioni.

6.3. a Il mancato rispetto nell’UE – Per quanto attiene all’UE, oltre al fattore negativo del completo disinteresse fino ad oggi verso il dare più peso ai cittadini nella presentazione delle liste elettorali europee e nella rappresentanza Parlamentare – e già non è poco – nei primi due terzi di questo periodo le strutture europee sono state prese dall’urgenza ossessiva di somministrare la ricetta dell’austerità nei casi di bilanci in disordine. Una ricetta sbagliata, che ha preteso di risolvere il problema, restringendo la libertà economica del paese interessato. In pratica peggiorando la condizione economica. In effetti, i conti in ordine sono necessari in una convivenza. Ma non per imporli a un certo Stato, bensì per attivare in quello Stato il dinamismo economico degli scambi.

Invece l’austerità proseguiva sulla linea iniziata a Maastricht, della rigidità delle cose da fare prescritta da chi stava più in alto nell’Unione, con il forte rischio di essere stupida nel concreto. Un atteggiamento che finisce per essere incompatibile con l’innovazione sperimentata  frutto dei liberi confronti tra una varietà di proposte sul libero mercato e dell’applicazione di una fiscalità flessibile in ambito UE. Nonostante la proterva sicurezza degli alti gradi, l’austerità ha prodotto risultati restrittivi in campo economico, oltretutto con riflessi frequenti (talvolta pesanti) nelle relazioni democratiche. Da un certo momento, l’austerità è stata  fronteggiata con il sostegno, fino a quanto fosse necessario, del sistema della BCE, che nella gestione dei fondi introdusse il realismo aperto in grado di evitare le peggiori gelate nelle relazioni civili indotte dall’austerità. E negli ultimi anni, in occasione della pandemia COVID, la nuova Presidente della Commissione mise da parte l’austerità e adottò la politica  dei fondi europei comuni per aiutare tutti i membri dell’Unione di fronte all’emergenza sanitaria. Una svolta nell’ottica di riallinearsi alle finalità di un’Europa attenta ai cittadini.  

Tuttavia, l’epoca dell’austerità ha lasciato una sua traccia permanente in un  organismo quale il Meccanismo Europeo di Stabilità, MES, estraneo per natura al diritto UE. Di fatti, in certe particolari condizioni di bisogno, un ruolo di assoluto rilievo nel negoziare i prestiti è affidato un organo a tre, la Commissione UE, la BCE e il Fondo Monetario Internazionale, dei quali già la BCE non è un organo interno dell’UE  e il FMI è addirittura fuori dall’Europa. Perciò il MES  è nella sua struttura, senza dubbio, un organo  assai lontano dai cittadini. E il fatto stesso che il MES, nell’epoca d’oro dell’austerità, sia stato approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo, conferma la forte disattenzione esistente  al tema spirito del 1776. Inoltre fa capire la sostanziale inadeguatezza   della attuale riforma del MES in corso e che l’Italia non vuole approvare senza che il MES sia modificato. Oltretutto la disattenzione allo spirito del 1776 non si limita neppure al MES. Il sistema UE prevede anche la possibilità che il Consiglio d’Europa partecipi all’elezione del Presidente della Commissione UE. Il che è un’ulteriore potenziale contraddizione con il criterio di far compiere le scelte UE ai cittadini invece che alle burocrazie   autoreferenziali europee.  

6.3. b Il mancato rispetto da grandi attori – La mancanza di rispetto ai  fondamentali caratteri delle libere istituzioni edificati alla fine del ‘700, emerge chiara anche dall’esame della politica seguita nell’ultimo quindicennio da attori di gran rilievo in occidente, quali la NATO e diversi paesi protagonisti dell’agire politico. Già nel periodo dopo Maastricht era venuta fuori la tendenza della NATO a marciare in proprio (mentre all’epoca esistono numerose testimonianze dei leader  degli Stati, secondo cui lo scioglimento nel 1991 del Patto di Varsavia, aveva fatto promettere dall’Occidente che la NATO, anche se fosse restata in vita, non si sarebbe mai più  espansa né cercato di farlo). Negli anni, la marcia  in proprio si è  irrobustita  nel sottofondo, ma la svolta c’è stata con la segreteria Stoltenberg (2014). Non solo la NATO si è espansa verso l’est Europa, ma in Ucraina si è impegnata sempre più nel sostegno agli ucraini avversari della Russia, contribuendo a far sì che non rispettassero il Trattato di Minsk2 da loro firmato  ad inizio 2015 insieme a  Russia, Francia e Germania, il cui punto centrale era l’obbligo per l’Ucraina di fare una riforma costituzionale che concedesse l’autonomia alle sue regioni orientali (i separatisti del Donbass e del Lugansk). La NATO  soffiò sul fuoco perché ciò non avvenisse, riuscendo nell’intento. Tanto che, quando l’Ucraina cambiò la Costituzione, non adempì all’obbligo. Intanto, gli stessi ambienti appoggiarono la candidatura dell’attore Zelensky (divenuto noto dopo il 2015  per una serie TV  in cui faceva la parte di Presidente dell’Ucraina, serie poi premiata negli USA e in Germania). Con una campagna di quattro mesi, la candidatura di Zelensky  ebbe successo nell’aprile 2019 (il suo nuovo gruppo sfiorò la metà dei voti) e subito il neo eletto sciolse il Parlamento .

Il neo Presidente  intensificò ancora i rapporti con gli Stati Uniti con la richiesta di fare ingresso nella NATO. Poco prima di Natale del 2021, Zelensky accusò un oligarca ucraino di aver pianificato , con l’appoggio di Putin, un colpo di Stato contro di lui; gli accusati lo smentirono duramente, controaccusandolo di preparare un attacco alle regioni orientali del paese, russofone, e di coltivare in patria metodi neonazisti. Le continue tensioni proseguirono all’inizio 2022 , nella convinzione di Zelensky  che fosse un’isteria di massa pensare ad un’invasione russa. Però il 21 febbraio Putin riconobbe l’indipendenza dei territori separatisti (quelli ai quali l’Ucraina avrebbe dovuto dare l’autonomia in base al Minsk2) e  autorizzò una missione in quei territori per garantire le popolazioni russofone. Il 22 febbraio, le truppe russe occuparono i territori indipendenti. Due giorni dopo, Zelensky invitò i cittadini russi a dissentire apertamente contro la missione di Putin.

Da allora gli scontri armati tra russi ed ucraini, parzialmente estesi al territorio ucraino, sono proseguiti senza tregua. Oggettivamente ciò è stato possibile solo per l’enorme impegno della NATO, dell’UE (spinta dagli Stati baltici conoscitori del significato di subire il “pacifico” dominio dell’autocrazia russa), degli Stati Uniti, dell’Inghilterra, del Canadà nel dare sostegno militare ed economico all’Ucraina e alla politica del Presidente Zelensky. Non solo. Questo enorme impegno, mediante le note sanzioni alla Russia, ha anche tentato di isolare la Russia e di metterne sia in difficoltà l’economia che la capacità in campo militare. Dopo due anni, va definito un tentativo non riuscito. Non solo la Russia è a giugno 2024 la quarta economia al mondo quanto a parità di potere d’acquisto, ma la pressione dell’Occidente ha indotto la Russia a stipulare grossi accordi internazionali per forniture di armamenti e anche a stringere patti di reciproca  difesa con altre autocrazie (innazitutto dalla Cina, dall’Iran  e, come non avveniva da due decenni, dalla Corea del Nord). Per di più la politica delle sanzioni alla Russia non è stata condivisa da oltre i 3/5 dei paesi del mondo e di fatto ha mostrato il sostanziale isolamento dell’Occidente nel lanciare fulmini contro la Russia. In aggiunta, purtroppo, i mezzi di comunicazione sguazzano nell’evocare i complotti dei nemici, raccontando di Zelensky che, nella surreale recente riunione in Svizzera per la pace, afferma che il Trattato di Minsk2 fu una pausa voluta da Putin per preparare l’invasione del 2022. Insomma,  la politica NATO non ha centrato gli obiettivi e i mezzi di comunicazione lo velano.

Un simile stato di cose, contrasta in radice con lo spirito del 1776 e la sua capacità di agire sperimentata in quasi due secoli e mezzo. Si badi bene. Di questo stato di cose non si può farne una colpa agli Stati governati dall’autocrazia, perché per loro è fisiologico contrastare ovunque gli Stati liberi,  ricorrendo alla disinformazione sistematica dei cittadini e talvolta alla forza militare . Il problema è costituito dai comportamenti incoerenti dell’Occidente. Il fattore distintivo dell’Occidente è porre prima di tutto la libertà del cittadino individuo , ciascuno diverso e con gli stessi diritti legali, che esercita di continuo il proprio spirito critico per aumentare la conoscenza. Di conseguenza, la libertà occidentale è fondata sui continui scambi di idee e di iniziative tra cittadini diversi.  Tale  concezione della libertà aperta, nulla ha a che vedere con la concezione alternativa della libertà di tipo imperiale, che vuole l’unità del potere e rifugge la diversità del vivere.

La libertà dell’Occidente è consapevole che esistono ed esisteranno autocrazie dedite a bandire la libertà dei cittadini dalle proprie istituzioni. Ma dovrebbe essere altrettanto consapevole che la pretesa di eliminare quelle autocrazie trasformerebbe la libertà degli scambi in una libertà imperiale, che rinnega la sua stessa essenza. La libertà fondata sugli scambi è connessa strettamente al praticare il sistema della concorrenza garantendolo in ogni occasione. Ne consegue che nei paesi occidentali, e in specie l’UE nata sul ruolo affidato al cittadino, gli interventi istituzionali vanno concepiti come un correttivo – soggetto alla valutazione elettorale – quando si formano nodi provocati dall’insufficiente funzionamento del criterio scambi così come del criterio concorrenza nel meccanismo della libertà tra i cittadini individui (nodi che, se non corretti, porterebbero ad un insufficiente grado di libertà per il cittadino, fisica e spirituale).

Allora è una grave contraddizione con lo spirito del 1776, violare apposta il criterio degli scambi in nome di principi che privilegiano un’imposizione ideologica piuttosto che il realizzarsi degli scambi.  Ad esempio, è stato un errore grave la propensione espansiva della NATO acutizzatasi nell’ultimo decennio e focalizzatasi nella presenza in Ucraina volta a sollecitare le tensioni con la Russia (pericolose proprio perché paese autarchico). E ora sarebbe molto sbagliato non rispettare i tempi previsti per l’ingresso nell’UE in modo da potere accelerare l’ingresso dell’Ucraina (oltretutto un paese discusso in tema del praticare la libertà nelle relazioni interne).

7 . L’insegnamento permanente della Dichiarazione di Indipendenza  – E’ opportuno ripensare spesso alla Dichiarazione di Indipendenza. Ha dato per prima solide indicazioni, organiche e concrete, per sviluppare l’utilizzo della libertà del popolo, estendendolo dal livello del singolo cittadino – dove già si era insediata con il ‘600 inglese e con l’illuminismo – ad istituzioni composte o solo da molti cittadini nello stesso territorio oppure da una federazione di altre istituzioni di cittadini ciascuna in territori più limitati e contigui, dotate di un ordinamento omologo.

In questo articolo ho indicato via via i punti essenziali di tali indicazioni. I  cinque cardini della Dichiarazione di Indipendenza che ho descritto al paragrafo 3, indicano il fulcro del meccanismo (in costante aggiornamento) per poter convivere in condizioni aperte e reciprocamente rispettose. L’esperienza sul campo fatta  da quell’epoca prova che lo sono ancor oggi, in misura certo non inferiore. Ecco perché sono preoccupanti i numerosi sintomi di indebolimento di importanti istituzioni messi in evidenza e che coinvolgono il clima politico culturale, non solo i meccanismi istituzionali.  

Nel settore del clima politico culturale, il sintomo di indebolimento più inquietante  è l’attitudine di gran parte dei mezzi di comunicazione. Invece di  svolgere la loro funzione di fornire ai cittadini notizie verificate, sono dominati dall’ossessione di anticipare le notizie. Con tale vincolo, esercitano un mestiere non loro. Trascurano i fatti per sostituirli con previsioni costruite solo sulla propaganda di moda al momento e sugli interessi dell’editore. Comportarsi così, in una democrazia imperniata sulla libertà individuale,  arreca un danno assai forte ai meccanismi del libero convivere. Perché il libero convivere si fonda sulle contrapposte valutazioni fatte dalla miriade di individui tra loro differenti in base alla realtà così come osservata. E queste valutazioni vengono distorte in modo duro quando, dai mezzi di comunicazione, non emerge la realtà quale è. Insomma quando, invece della realtà, si mostra un palcoscenico dove ogni cosa è un artificio. Una messa in scena che esprime l’ideologia che suppone una vita immobile sui modelli di qualcuno o qualcosa (situazione perfino agevolata dal pur sacrosanto uso dell’Intelligenza Artificiale, che quindi implica ulteriori riflessioni).  In ogni caso un’ideologia irreale e opposta a quanto ha insegnato la Dichiarazione di Indipendenza.

I sintomi di indebolimento nel settore dei meccanismi istituzionali sono vari. La devastante accresciuta attenzione per la libertà imperiale al posto della libertà degli scambi; la pretesa, secondo le circostanze, di ridurre la democrazia libera, che è indivisibile, soltanto alla politica oppure soltanto all’economia; l’ancor vasto propendere ad affrontare i problemi della democrazia in termini di  valori emotivi e non di conflitto nelle regole tra progetti espressione della libertà dei conviventi; l’ignobile esaltazione antiisraeliana pressoché ovunque radicata, anche ai vertici dell’ambiguo ONU, che aiuta chi vuol eliminare quello Stato violando i principi di rispetto per gli altri umani, e che ha impedito agli ebrei la presenza al Gay Pride 2024 fingendo di non sapere che i gay dalla Palestina si rifugiano in Israele; la “cancel culture” dilagante in paesi importanti,  che rifiuta nel profondo la natura delle cose per celebrare il ritorno alla tradizione del libro sacro e per non tener conto del tempo che passa; l’insistenza nello scegliere sistemi di etichettatura alimentare a semaforo per dare presunte indicazioni salutiste sul cosa mangiare, procedura che equivale al premere per l’abbandono del criterio usato da ogni cittadino sulla base di consolidatissime tradizioni culturali e locali;  il demagogico diffondere il principio dell’uguaglianza degli esseri umani non circoscritta ai diritti legali individuali, creando così una luminosa speranza che nega la realtà e che pratica l’assistenzialismo prodromico all’ appiattire invece dell’aiuto ai più deboli che assicura la possibilità di esprimere il proprio contributo individuale.

Sono tutti sintomi di indebolimento nel richiamare gli insegnamenti dei documenti fondativi gli Stati Uniti. Che si è tradotto nel relegare assai indietro il tema del mantenere  libero il complesso  delle relazioni nei rapporti tra i cittadini conviventi. Dato da cui nell’UE – già predisposta per un retaggio tradizionale e variegato nelle radici – è derivato il sostanziale insabbiarsi della produttività in senso lato, culturale ed economico. Perché la produttività è principalmente spinta dalla libertà attiva tra i cittadini (che per esprimersi davvero ha bisogno di un ordine del convivere organizzato con il fine della libertà mediante i confronti tra i progetti individuali e non con quello dell’ingabbiarla nell’illusoria certezza di parole d’ordine da perseguire). Ebbene, tale insabbiamento è pernicioso. Fin dall’epoca iniziale del Medioevo con il rattrappirsi della circolazione dei traffici nel Mediterraneo e l’affermarsi della guerra santa islamica, è sempre accaduto che il contrarsi del relazionarsi inibisce la crescita successiva e favorisce progettualità alternative di altri.

Ora il concetto stesso di libertà imperiale è una contraddizione in sé. Poiché la libertà indica  l’imperniarsi sui liberi contributi diffusi per conoscere di più, per produrre e creare nuovi equilibri complessivi nel tempo, mentre imperiale indica la precisa volontà di proseguire l’esercizio del potere esistente e ritenuto un ordine saggio in mano ad alcuni gruppi supposti un’élite affidabile invece che alla libertà dei cittadini, quasi il tempo non ci fosse. Insomma, l’inclinazione alla libertà imperiale è stata in sé  una malattia grave in quanto ha messo da parte lo spirito del 1776. Con  una conseguenza ancora più grave, anche se scontata. La pratica della libertà imperiale non è stata in grado di far espandere l’Occidente, di fatto rinchiudendolo nei suoi confini in relazione  al resto del mondo.

Non è finita qui. In questi anni, e in specie di recente,  il resto del mondo non è rimasto a guardare stando fermo. Soprattutto le autocrazie più grandi  non hanno usato per affermarsi il loro status, hanno preso iniziative concrete in molte zone della terra (di tipo economico e di tipo militare) e hanno dedicato risorse nonché cervelli alle nuove tecnologie, in aspetti strumentali essenziali  per l’innovazione (quali i semiconduttori). Per loro è agevole comportarsi così, appunto perché, essendo autarchie, non hanno il problema  né se lo pongono di rapportarsi con i loro cittadini autonomi, siccome il gruppo dirigente decide tutto e ritiene di esserne in grado.

Inoltre tra gli Occidentali sussiste una differenza. Che nella loro storia gli Stati Uniti, proprio perché seguaci dei loro documenti costitutivi, sono stati finora capaci di fare la cosa giusta dopo aver commesso moltissimi errori, mentre l’UE non ha esibito la stessa caratteristica. Quasi dimentica delle proprie origini, l’UE si  mostra oggi indebolita, fragile ed incline ad essere un subsistema americano contrapposto all’autocrazia vicina per territorio. Così l’UE, in diversi settori economici, è in ritardo sia rispetto agli Stati Uniti predominanti sia rispetto all’attivismo propulsivo delle autocrazie. Il modo che ha scelto per reagire al problema – attuando strategie difensive e meramente protezioniste –  è per natura inadatto a vincere. L’UE deve piuttosto adottare lo spirito libero del 1776, aprendo alle idee innovative e coinvolgendo i cittadini su norme adatte alle  aziende tecnologiche e al loro espandersi, anche attraverso adeguati partenariati internazionali. Pure gli Stati Uniti  devono riscoprirlo lo spirito libero del 1776.

Viceversa l’Occidente nel complesso non sta percorrendo questa strada. Anzi procede al contrario. Dal 2017 al 2022 (ultimi dati disponibili) in Occidente l’intervento dello Stato per indirizzare l’economia è cresciuto di sette volte  e così ha raggiunto un livello assai più alto di quello nelle altre aree mondiali (di fatto da 11 a 60 volte  secondo l’area paragonata). Siccome l’intervento dello Stato distorce la concorrenza a livello internazionale danneggiando gli Stati con bilanci meno robusti, ciò chiarisce il motivo per cui l’Occidente  è in forte difficoltà nello stringere amicizie con Paesi del cosiddetto Sud.

L’Occidente dovrebbe sempre privilegiare gli scambi, non le barriere, dato che la libertà punta al multilateralismo tra i singoli soggetti e non alle dogane. L’Occidente dovrebbe sempre privilegiare anche l’altro più nascosto aspetto costitutivo del 1776, il tempo reale che passa. Peraltro per la ragione opposta a quella di allora.

Allora, prima della Dichiarazione di Indipendenza, la cultura prevalente tendeva a non considerare il tempo congelandolo nell’eterno. Oggi, al contrario, ci si illude che la vita acceleri e che i fatti siano più veloci, ragion per cui si crede che il tempo aumenti il suo ritmo. Discende da qui l’accettazione passiva dell’informazione inflazionata e l’abitudine ai frettolosi giudizi estremizzati. Però si tratta di una mera illusione.  Nella concretezza del corpo umano, i ritmi del tempo sono immutati. Il fondamentale esercizio dello spirito critico individuale non è accelerabile (al di là delle differenze funzionali tra gli individui). Ugualmente non è accelerabile il tempo di modifica delle caratteristiche della struttura umana. Che, si badi, richiede una fase più lunga rispetto al tempo  di aggiornamento delle istituzioni del convivere (un riscontro è che l’istinto alla violenza nelle persone umane resta radicato quale residuo di comportamenti ancestrali, mentre nelle istituzioni è nel complesso in fase di avanzata riduzione). Siccome in apparenza sembra il contrario, l’ampia corrente di chi non apprezza i documenti costitutivi statunitensi, pensa sia possibile mutare a piacimento  le istituzioni secondo il volere dei potenti e non secondo  le scelte maturate dai cittadini. Ma l’esperienza  non funziona così.  

In generale, lo spirito del 1776 serva a guardare avanti, non a celebrarlo.

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La grossa anomalia nel voto livornese (a Rajesh Barbieri)

Caro Rajesh,

Come da Te richiesto, ti metto per scritto le osservazioni critiche che ti ho fatto al telefono stamani alle 8,30.

Dopo il voto amministrativo, il punto su cui riflettere a fondo non è affatto l’astensionismo, nel senso che ogni elettore può tenere il comportamento da lui ritenuto opportuno . Senza scandalo. Solo nei plebisciti si richiede il voto pressoché totalitario. In democrazia se un elettore non vota significa solo che non sa chi scegliere oppure che è contro tutti e rinuncia a contribuire a dare un indirizzo . Padronissimo. E ciò, intanto, non inficia la legittimità del risultato.

Il punto invece su cui riflettere in termini politico culturali è il dato di fatto (riportato sul sito del Comune) che gli elettori alle europee hanno dato 14.965 voti a Fratelli d’Italia mentre negli stessi minuti le stesse persone hanno dato alle Comunali sempre a Fratelli d’Italia solo 8.700 voti. In pratica ci sono stati 6.265 elettori (il 42% dei voti alle europee) che hanno votato FdI in Europa e Salvetti a Livorno. Confermato che ciò è del tutto legittimo dal punto di vista della decisione dei singoli cittadini, la cosa è talmente surreale da richiedere una riflessione approfondita per coglierne la causa e ll senso politico culturale.

Quanto alla causa, è assai probabile vada ricercata nella circostanza del Commissariamento della Sezione di Fratelli d’Italia (quasi due anni) , sintomo di un grave malessere contro la figura più di spicco, quell’Amadio da sempre politicamente missina convinta alla luce del sole, protagonista dell’operazione di candidare a Sindaco Guarducci, cattolico di centro sinistra. Tale malessere si è dimostrato radicalissimo , tanto che 6.265 elettori di FdI, piuttosto che votare Amadio (in odore di collocarsi al centro del potere amministrativo in caso di vittoria di Guarducci), hanno preferito confermare Salvetti, oltretutto non conquistati dalla candidatura dello stesso Guarducci, del resto neppure amato dall’associazionismo cattolico inseritissimo nei gangli amministrativi.

Quanto al senso politico culturale, i 6.265 elettori (inventori dell’ inedita accoppiata Fratelli d’Italia – coalizione Salvetti) sono una conferma certa della concezione distorta che una parte assai significativa dell’elettorato della destra livornese ha dello scegliere con il voto. Si. fanno dominare dai rancori ideologici su una persona e finiscono per sorvolare sulla questione (assai più rilevante per Livorno) del giudizio sulla Giunta negli ultimi cinque anni. Nè si dica che hanno invece voluto esprimere proprio quel giudizio, perché neppure i Salvettiani più acritici danno sulla passata Giunta un giudizio tanto positivo dal far superare, a chi è convintamente di destra, l’ostacolo delle proprie convinzioni di destra e indurlo a votare la sinistra.

Una prima conclusione dell’immediato riflettere su questa effettiva e rilevante anomalia nel voto in città, è che ora il Sindaco Salvetti non dovrebbe inquinare la sua legittima rielezione avvalorando la tesi di una valutazione trionfalistica del suo precedente operato, quando il tipo di risultato elettorale ha , dati alla mano, tutt’altra origine sotto il profilo politico culturale. Anzi, sarebbe auspicabile che come prima cosa rispettasse la promessa da lui fatta nel dibattito di Villa Fabbricotti tra i Candidati organizzato dal Circolo Modigliani rispondendo alla domanda sul cosa pensava circa la richiesta di istituire il Tavole della Laicità, fatta tre anni fa da una dozzina di Associazioni. Allora Salvetti disse, “Nella prossima legislatura lo realizzeremo presto”. Appunto. E’ venuto il momento di agire. Oltretutto oggi è divenuto consigliere comunale in proprio il già assessore Simone Lenzi (che aveva da mesoni più ripetuto la medesima convinzione) e in più anche gli altri candidati Sindaco si erano detti favorevoli.

Realizzando prima possibile il Tavolo della Laicità, il Sindaco Salvetti darebbe una svolta concreta alla linea dell’Amministrazione, sottolineando la Sua volontà di assumere un atteggiamento più incline ai fatti concreti e più attento a valorizzare il criterio della libertà civile. Essenziale pure per chi la snobba.

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