L’articolo sul Sole di Sergio Fabbrini qualche giorno fa, merita un approfondimento nell’ottica del liberalismo.
I problemi non nascono dalla qualità dell’articolo, che è alta. Nascono dal quadro politico che vi è evocato. In apparenza l’articolo è una lode al liberalismo, di cui sottolinea con esattezza alcune caratteristiche importanti. Nella sostanza, però, tralascia altre caratteristiche essenziali del liberalismo e, nell’analizzare la situazione politica, dimentica che nella società, in specie in Italia, vi sono ulteriori protagonisti da cui non si può prescindere, che sono tutti non liberali e perfino illiberali. Questa sarebbe già una mancanza di rilievo, se non fosse che la natura del liberalismo, attinente ai fatti e non alla teoria, impedisce di trascurarla dal punto di vista operativo.
Per di più, la struttura dell’articolo circoscritta al contrapporre il liberalismo al conservatorismo di destra, ne rende fondata un’interpretazione quale approfondimento della natura della destra, che l’autore auspica sia liberale (“un conservatorismo culturalmente radicato nella democrazia liberale aiuterebbe consolidamento di quest’ultima”). Ciò avvalora l’implicita conclusione che i liberali, essendo una cultura, non possono essere un partito autonomo e che, opponendosi ai conservatori destrorsi, dovrebbero dimenticarsi degli altri gruppi politici, illiberali o solamente non liberali, perfino riconoscendo una patente di liberalismo a chiunque si opponga al governo conservatore. Tutto ciò i liberali non possono condividerlo, perché hanno un ruolo più ampio e d’altro genere. Particolarmente in Italia.
La radice di questa decisiva mancanza si palesa quando l’articolo si limita a richiamare, nello sviluppo del conservatorismo, la contrapposizione storica al liberalismo. Pur sorvolando sulla circostanza che dal punto di vista temporale la contrapposizione è stata alla rovescia, il fatto rilevante è che, da allora, sono emersi ulteriori soggetti, assai consistenti e pervasivi, tutti con un’impostazione culturale decisamente contrapposta al liberalismo. Nei decenni questi soggetti sono stati molti – a cominciare dai non più esistenti movimenti irrazionalistici e dal PNF – peraltro con il dominio, nell’ottantennio del secondo dopoguerra, della cultura marxista (per un lungo periodo egemone sull’area socialista in varie forme cangianti) e della cultura cattolica (radicata capillarmente con un’organizzazione parecchio insistente nel propagandare la fede e nel dettare un parallelo comportarsi civile). Queste due culture, ciascuna a suo modo, hanno combattuto l’essenza non solo del partito dei liberali e del suo modo di concepire le istituzioni ma la mentalità liberale in sé, etichettata quale emblema di ciò che ognuna delle due culture giudicava un disvalore. Per la messa all’angolo del liberalismo non sono mancate le responsabilità dello stesso mondo liberale, ma l’incessante offensiva antiliberale delle due culture qui richiamata, ne è la causa di gran lunga principale (assai più dalla ritrosia liberale del mondo conservatore).
Di questa offensiva l’articolo non parla. Non per caso, dato che definisce il liberalismo come quello che “celebra la razionalità quale base della vita sociale”. Così per essere liberali basterebbe avere certi obiettivi di ricetta – tipo abbassare le tasse, dare limiti all’immigrazione – e non importerebbe avere sulla maggior parte dei temi comportamenti e proposte coerenti con i principi liberali. L’articolo attribuisce tale inclinazione agli elettori conservatori, e omette di dire che hanno analogo comportamento pure quelli che liberali non sono ma fingono di esserlo (ad esempio i seguaci di ciascuna delle due culture).
I liberali coerenti ben sanno che il liberalismo include la razionalità. Però sanno pure che nella razionalità il liberalismo non si esaurisce affatto. Perché il liberalismo politico ha un legame indissolubile con la realtà effettiva, e quindi si fonda sul proporsi di conoscerla sempre più. Allora, è impossibile riuscirci pretendendo che la realtà corrisponda ad un quadro immaginato dalla sola ragione. La realtà non è costruita dalla razionalità in solitario. Il percorso del conoscere è un esperimento continuo assistito ad ogni passo dallo spirito critico individuale. Comincia dall’astrarne i dati dai fatti quotidiani, li interpreta in modo critico, formula ipotesi risolutive dei problemi incontrati e le verifica attraverso i giudizi dei molteplici spiriti critici sui risultati dell’applicarle. Di conseguenza, le ricette dei liberali non si possono raccogliere in un testo immutabile, tanto meno definito una volta per tutte.
Più in dettaglio, l’esperienza storica ha fatto vedere che un simile percorso praticato dai liberali è fruttuoso quanto più opera in un clima di piena libertà individuale tra i cittadini conviventi (che valorizza la loro diversità umana tramite l’uguaglianza dei rispettivi diritti). Perciò i liberali si caratterizzano principalmente come promotori della libertà. Tale libertà utilizza continuativamente le varie e molteplici diversità dei conviventi e vive del conflitto democratico tra le loro specifiche manifestazioni e proposte. Limitando il liberalismo alla razionalità, dunque, non se ne coglie lo spirito profondo. Il liberalismo è dedito a promuovere sempre il cambiamento civile connesso al passar del tempo ed è assai diffidente del presunto progressismo anteposto al percorso della libertà (anteporlo finisce per incrinare le condizioni di vita dei singoli cittadini).
I liberali sono stati messi all’angolo dalla perdurante offensiva delle due culture: gli effetti hanno pesato assai di più del mancato appoggio degli elettori conservatori di cui parla l’articolo. Questa è stata la causa reale della progressiva scomparsa del partito dei liberali. Un’offensiva felpata ma accanita, manifestatasi pure all’epoca dell’Ulivo e dopo, quando la presenza della cultura liberale era a malapena sopportata nonostante avesse un chiaro rilievo politico nel contrasto al berlusconismo. Richiamo due episodi inequivoci. Allo storico Seminario di Gargonza, 1997, l’on. Parisi, Presidente delle due fitte giornate di lavori, evitò di dar la parola ai rappresentanti liberali, temendo criticassero il disegno (di per sé illiberale) di trasformare la coalizione Ulivo in un partito unico. Alle elezioni del 2006, i liberali chiedevano con insistenza il loro simbolo autonomo in quello dell’Unione. E mentre i DS erano favorevoli, venne l’assoluto veto della Margherita. Eppure i voti dei liberali dettero un contributo certo alla vittoria dell’Unione per neppure 25.000 unità. Oltretutto, i liberali non hanno mai preteso di mettersi elettoralmente sullo stesso piano dei grandi partiti alla base di quelle due culture. Perché in Italia la funzione liberale non si incentra sul gestire il potere, bensì sul tessere alleanze per formare governi abbastanza coerenti con le ricette del liberalismo. Il fine dei liberali è assicurare al paese una rotta che mantenga sempre aggiornati i provvedimenti di libertà civile.
Ovviamente, aver messo all’angolo il liberalismo per evitare disturbi nel gestire il potere mediante il conformismo immobilista, ha reso possibile trascurare le ricette liberali con obiettivo le libertà, la cura degli individui, l’accettare la diversità e il praticare la tolleranza. Ciò ha finito per provocare il dissesto nelle condizioni socio economiche del paese, emarginando i cittadini e privilegiando le elites burocratiche. Da qui la ribellione dei cittadini, che ha portato alla caduta elettorale delle due culture ed al verificarsi dei ribaltoni prima del 2018 e poi del 2022, arrivando alla consegna della maggioranza parlamentare e del governo nelle mani della destra conservatrice.
In una situazione del genere, le varie omissioni circa il liberalismo rilevate nell’articolo di Fabbrini, impediscono che esso possa costituire la risposta liberale: per l’attuale contingenza e ancor più per il futuro. In aggiunta il mondo non è più quello in cui si sono sviluppate le offensive delle due culture. E in un mondo sempre più pervaso dalle scoperte della scienza e dall’ingresso prorompente delle sue tecnologie innovative, è ancor più negativa la mancanza di una formazione liberale esplicita che in pratica assicuri al confronto politico il disporre di un pungolo costante all’esercizio della libertà individuale nel convivere all’insegna di un cambiamento incessante. Il liberalismo è la sola garanzia efficace per evitare che qualcuno si appropri dei nuovi strumenti di vita quotidiana, trasformando la capacità di conoscere in una privativa personale o di gruppo formando una presunta elite superiore ai cittadini. Od anche per evitare che vengano adottati meccanismi pubblici non soggetti al giudizio dei cittadini di riferimento dell’istituzione che li ha inventati (cosa che invece avviene, un esempio è il meccanismo del MES esistente nell’UE, che include soggetti estranei al giudizio del Parlamento UE).
Infine, trovo singolare che in sostanza l’articolo circoscriva i problemi politici italiani e internazionali al fatto che i conservatori (in Italia Fratelli d‘Italia e Lega , in Europa l’EPR) abbiano “una mente illiberale poco conciliabile con la cultura occidentale”. Perché è innegabile che, negli ultimi anni, una parte consistente della cultura occidentale sia stata colta da una malattia che la ha fatta invadere da un morbo inconciliabile con il liberalismo: quello di interpretare la libertà come libertà imperiale, mentre la libertà dei liberali è esclusivamente la libertà di scambio delle idee, dei cittadini e dei materiali (una malattia che tra l’altro è sfociata nella dissennata azione decennale della NATO in Ucraina). Quindi non coglie il punto ridurre la questione della mente illiberale ai conservatori della destra – come fa l’articolo –, cosa che invece avvantaggia altri soggetti e culture.
Nel complesso, un simile modo di intendere il liberalismo fa gravi danni alla prospettiva politica di lavorare per la nascita di una formazione delle libertà. Nelle condizioni attuali, questo non solo indebolisce tale prospettiva (nella sua accezione classica di spinta al cambiamento in funzione della realtà) ma nell’immediato apre enormi spazi di consenso elettorale a forze distanti dal liberalismo. Di fatti i cittadini, in precedenza influenzati nel profondo dalle offensive antiliberali delle due culture, nel momento in cui giudicano negativamente le due culture al governo insieme alle elites alla base del governo, votano i populisti, che non hanno contatti con quelle due culture, avversano le elites e nel governare assicurano il rispetto delle indicazioni ricevute dagli stessi cittadini. Un simile percorso, ha dato vita all’epoca Conte, è stato per poco più di un anno interrotto dalla speranza elitaria su Draghi (di per sé aliena dall’imperniarsi sui cittadini), è giunto alla maggioranza Meloni che presenta diversi elementi per risultare duratura.
Ora la maggioranza Meloni rientra in parte nella famiglia populista e in parte nel filone della destra sociale. La famiglia populista è contro le classi dirigenti, però si riferisce al cittadino inglobandolo con gli altri suoi conviventi, senza reciproche differenze, così che instaura un sistema disattento alla dinamica di un’economia aperta che coinvolge la massa dei cittadini ed è incline piuttosto a limitarsi ad assistere i più deboli. Il filone della destra sociale non è equivalente alla destra tradizionale (specie quella immaginata dalla sinistra) a partire dalla maggior quantità di intervento pubblico ritenuta opportuna e dall’attenzione a tematiche del lavoro quali la partecipazione dei lavoratori alle imprese. Inquadrando l’insieme , peraltro, in una visione di assoggettamento al capo. Sia la famiglia populista che la destra sociale, sono l’una e l’altra differentemente assai distanti dal criterio liberale della società aperta basato sulla libertà, sugli individui, sulla concorrenza, sulla diversità, sul non ricorrere ai plebisciti.
In tale quadro, il liberalismo resta confinato fuori della dialettica politica e il paese ne soffre e ne soffrirà. Attivarsi per ricostituire una formazione delle libertà, sarebbe molto saggio, ma è impossibile farlo partendo dall’attribuire ai liberali, come fa l’articolo di Fabbrini, una funzione che non può essere la loro. Specie oggi c’è l’urgente necessità di un gruppo politico davvero imperniato sull’anteporre la libertà, visto che le opposizioni (prigioniere del sinistrismo di un tempo) neppure riescono a concepire un progetto alternativo al governo, e che il ricorso a ricette liberali sarebbe la cura richiesta. Oltre i motivi abituali per esigere tali ricette, nel presente sta aggiungendosi la martellante campagna che reclama in continuazione l’instaurarsi della pace.
Una campagna, una volta esclusiva del mondo cattolico, ora estesasi e pericolosa dato che si svolge suscitando emozioni senza partire dalla libertà ed evitando di impegnarsi nel costruirne le condizioni perché la libertà prevalga. Che è poi il fattore essenziale per arrivare alla convivenza pacifica. Mentre più si parla di pace senza premettere la libertà, più in concreto aumenta la produzione delle armi (nel 2022 l’aumento è stato, nel mondo, di quasi il 10%).
Per i liberali, gli atti compiuti pesano e la pace va costruita partendo dalla libertà, senza temere di giudicare e condannare chi non rispetta questo principio essenziale. Mettere l’accento sulla pace è un’aspirazione religiosa, estranea alla concretezza dell’agire politico. Non è casuale, considerato che la religione si occupa della fede personale e si fonda sul Dio, mentre la politica si fonda sull’agire umano e si occupa dei rapporti tra gli umani che sono la realtà. Tra l’altro, parlare di pace prescindendo dalla libertà finisce per essere incompatibile con scelte decisive, quali, nella nostra epoca, la strenua difesa del diritto ad esistere di Israele. Questo siccome il pacifismo e basta non tiene conto delle azioni compiute e dell’impegno a costruire la. libertà effettiva (tipo quella dei musulmani palestinesi in Israele, non a Gaza). E di conseguenza, non volendolo, è la culla dell’estremismo terrorista.
Ho svolto questa riflessione estesa circa lo scenario sullo sfondo dell’articolo di Fabbrini, perché convinto che in Italia sono venuti a galla i bubboni della mancanza di liberalismo. Una vera e propria emergenza civile, Ed impostare le questioni come sostiene Fabbrini, dilaziona la consapevolezza del dovere affrontare questo nodo.