In vista del voto europeo 2024 – Nelle ultime settimane ha iniziato a decollare il dibattito politico sulle elezioni UE del prossimo giugno. Peraltro, è un avvio parecchio claudicante sui grandi mezzi di comunicazione, visto che verte quasi solo su quale potrà essere la futura maggioranza in Parlamento. Una conferma di quella Ursula (popolari, socialisti, liberali di ALDE Renew, gruppetto del M5S) ed ora anche verdi oppure una nuova che escluda socialisti e sinistra ed includa i Conservatori e Riformisti di Giorgia Meloni? Al punto che ogni tornata elettorale dell’attuale periodo in un paese europeo, viene considerata un’indicazione sicura delle scelte di giugno, nonostante le differenti condizioni sia per i tempi che per l’argomento del voto. Solamente l’area liberale si sforza – ai primi di settembre con un articolo mio e di Paganini su Non Mollare e a metà ottobre con il documento presentato agli Stati Generali del Liberalismo – di indicare alcune tematiche definite attinenti al vero tema del voto: l’indirizzo da dare all’UE.
Tali tematiche sono ancora non del tutto coincidenti per delineare un accordo certo con altri alle elezioni UE. Però già convergono sulla necessità di un deciso nuovo indirizzo nella politica UE (un cambio di rotta, lo chiama il documento discusso agli Stati Generali). Eppure c’è un punto che per noi Liberali Italiani è essenziale, mentre è restato controverso e in pratica indefinito nel dibattito agli Stati Generali. E’ la questione del proseguire o meno la linea dell’allargamento dei membri dell’Unione. Assolutamente da evitare per i Liberali Italiani ed in sostanza anche per Critica, da affrontare con molta cautela per il documento agli Stati Generali, da proseguire con accorgimenti tecnici (espressi in un articolo di Critica ai primi di ottobre) per il Movimento Europeo di Dastoli, da proseguire convintamente per i Verdi (come detto dalla Scuderi nel corso del dibattito). Nel presente articolo specifico, abbastanza in dettaglio, il perché i Liberali Italiani ritengano essenziale, al momento, bloccare ogni ipotesi di allargamento dei Paesi componenti l’UE.
Da Roma a Maastricht – Il ragionamento muove da una constatazione nel ripercorrere la storia dell’Unione, iniziata, su iniziativa del liberale Gaetano Martino, con la svolta dei Trattati di Roma. Dopo i precedenti fallimenti del progettare l’istituzione europea replicando la vecchia concezione di raccordare strutture statali di potere, i Trattati di Roma imboccarono una strada diversa, quella di coinvolgere i cittadini europei e di farlo con il metodo di coinvolgerli nella loro quotidianità economica della libertà negli scambi. Un simile indirizzo del crescere a passo a passo imperniandosi sull’esprimersi del cittadino, era assai innovativo ma fisiologicamente lento (presupponeva un periodo di maturazione), anche se si confermò concreto nel rispettare l’impostazione iniziale dei Trattati di Roma. Nei successivi 35 anni, ai sei stati fondatori se ne aggiunsero un po’ alla volta altri sei, dando appunto il tempo di far maturare tra i cittadini dei vari paesi la cultura di libertà civile coerente con i Trattati istitutivi. Inclusa, una zona di libera circolazione dei cittadini senza controlli alle frontiere interne (Trattato di Schengen) e qualche anno dopo la libera circolazione dei capitali.
Poi, a febbraio 1992, ci fu il nuovo Trattato sull’Unione Europea, sottoscritto a Maastricht. Gli intenti erano di far progredire l’europeismo, nel senso di andare oltre la semplice cooperazione tra stati sovrani e promuovere invece la loro integrazione istituzionale ed economica. Tuttavia il clima politico e culturale si rivelò presto potenzialmente regressivo. Senza dubbio influirono avvenimenti epocali a livello mondiale, come la caduta del muro di Berlino (seguita a breve dalla fine della divisione in due blocchi) e poi la riunificazione della Germania. Peraltro si trattò nella sostanza di un equivoco. Perché la fine della guerra fredda non era affatto la fine della storia – l’assurda tesi del libro di Fukuyama allora di moda – e il confronto , anche molto duro, sul come organizzare la convivenza nel mondo, aveva concluso una data fase ma era destinato a persistere nelle ragioni di fondo del contrapporsi tra l’utilizzo della libertà nei rapporti tra i cittadini oppure l’aderire ai sistemi autocratici, in vario modo elitari e illiberali. Ed il disegno di uno stato di nuovo tipo in Europa era appunto la risposta più innovativa a quelle ragioni. Mentre a Maastricht, quella risposta venne seguita da intenzioni coerenti con lo spirito dei Trattati di Roma, ma accompagnata dal riemergere della mentalità propria dei tradizionali stati di potere (in fin dei conti con la caduta del muro avevano vinto le democrazie) e perciò antitetica a quello spirito.
Il Trattato di Maastricht – Oltre a darsi un nuovo nome un po’ corretto (che di fatto consentì pure di porre nel dimenticatoio i Trattati di Roma), le intenzioni espresse a Maastricht in modo coerente furono l’introdurre la cittadinanza UE (il diritto di residenza in ogni stato membro, il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni locali e il diritto di presentare una petizione al Parlamento Europeo sui temi indicati nei Trattati comunitari) e il dare un ruolo al Parlamento Europeo (seppure insieme al Consiglio di Europa interstatale) nella ratifica degli atti legislativi della Commissione. Tuttavia una simile coerenza, si accompagnava ad altre scelte frutto di una nascente incoerenza tenuta nascosta sotto un apparente slancio pro europeista. Così, venne assegnato un ruolo importante al principio di sussidiarietà, secondo cui l’UE può intervenire in tutti gli ambiti ove lo sforzo dei singoli stati non sia sufficiente (e questa era di fatto una logica divergente dallo spirito di Roma, che si riferiva ai cittadini degli Stati e alla loro maturazione, non ponendo limiti né all’origine del decidere né alla loro competenza in prospettiva). Inoltre l’organizzazione della UE venne articolata su tre pilastri. Di questi il primo socio economico faceva evolvere i Trattati di Roma creando la Comunità Europea, che inglobava le già esistenti CEE, CECA e CEEA. Ma il secondo (difesa e politica estera) ed il terzo pilastro (affari interni e giustizia), si fondavano su un approccio intergovernativo, che in pratica veniva consolidato ed in sostanza era estraneo all’UE dei cittadini.
L’insinuarsi della mentalità contraria ai Trattati di Roma divenne presto più evidente sulla politica economica e monetaria. Il Trattato di Maastricht formulò un itinerario in due tappe per modellare l’Unione Economica Monetaria (UEM) e poter adottare una moneta unica. Prima si creava un Istituto Monetario Europeo, con il compito di coordinare la politica monetaria degli stati membri e la cooperazione fra le banche centrali. Successivamente si sarebbe adottata una moneta unica tra i paesi che avessero rispettato un insieme di regole fissate nel Trattato in merito al bilancio pubblico e al regime di cambio (oltre altre regole sui bilanci degli stati, concernenti il rapporto debito pubblico/PIL e l’annuale deficit pubblico/PIL). In tutto questo settore salta subito all’occhio l’abbandono del sistema del costruire l’istituzione UE facendo maturare nel tempo le decisioni dei cittadini. Per più versi.
Il perdurante allentarsi del rapporto con il cittadino – Innanzitutto perché proprio nel campo economico finanziario (fulcro dei Trattati di Roma) si procedeva partendo dallo stabilire in via preliminare percorsi pluriennali decisi al vertice e felpatamente prestabiliti. Di conseguenza percorsi composti da passi rigidi di natura deterministica (quindi di per sé estranei al variare tipico del vivere, che è alla base dell’economia reale). Non fu quindi un caso che fin dall’origine l’UE si pose l’obiettivo di darsi una moneta unica. Obiettivo di per sé del tutto corretto ma pensato in termini deterministici per il funzionamento interno ed esterno di stati supposti strutturalmente uguali (ipotesi irrealistica). Oltretutto una moneta unica concepita in un quadro chiaramente incompleto, cioè mancante della fiscalità che, negli andamenti reali, ne è una componente ineludibile. Dunque l’UEM è nata con un handicap fisiologico. E, nonostante l’enfasi assertiva con cui essa è stata sempre trattata sui mezzi di comunicazione, dalla sua nascita si è consolidata senza mai riuscire a formare un sistema davvero funzionante lungo una linea focalizzata sul comportamento dei cittadini europei.
In sintesi, l’UEM si è dimostrata un istituto figlio di un’istituzione di potere, con logiche di governo elitarie ben distanti dai cittadini. Tanto che negli anni ha prodotto una serie di conseguenze in contrasto con l’indirizzo fondativo dell’imperniarsi sulla cittadinanza europea. La prima è stata che neppure tutti i membri UE hanno aderito all’Euro, al quale mancano un quarto dei membri (cosa che rende l’ UE funzionante a due velocità, un criterio che pare empiricamente valido ma che prescinde dal principio cardine del perché esiste l’UE). La seconda fu la stipula di un nuovo accordo generale che, insieme a ridefinire alcuni aspetti tecnici (il comporsi della Commissione, il peso dei voti in Consiglio, un ambito più ampio del voto a maggioranza qualificata), completò l’istituto della cooperazione rafforzata tra paesi UE nel campo della Politica Estera e di Sicurezza Comune. E questo istituto ha ulteriormente irrobustito la dimensione statocentrica, ora coniugata a piacere, al posto del potenziare il rapporto tra i cittadini europei. Una terza conseguenza fu che il Consiglio proclamò la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la quale si esprimeva come se fosse possibile, senza modifica dei trattati comunitari, definire la via per allargare e rafforzare l’UE (cosa impossibile nella logica di un’UE dei cittadini). Una quarta conseguenza – indotta dall’ansia statalista e materializzatasi in una Convenzione Intergovernativa che lavorò due anni sulla materia – fu la pretesa di giungere a progettare un Trattato per adottare una Costituzione per l’Europa, firmato poi in pompa magna dai rappresentanti di tutti gli Stati allora membri nel 2004 a Roma. Che però non entrò mai in vigore per il motivo che, essendo un trattato internazionale, esigeva una ratifica formale da ciascuno dei firmatari. E questa non venne.
Comunque le quattro conseguenze, pur infeconde, non indussero a cambiare strada. Anzi, restò l’ansia degli stati. Dopo una seconda Conferenza Intergovernativa, a dicembre 2007 fu firmato il Trattato di Lisbona , con il nome di “trattato sul funzionamento dell’Unione europea” , che rimaneggiò l’istituto rafforzando timidamente la partecipazione dei cittadini, il ruolo del Parlamento (acquisisce la facoltà di proporre modifiche ai Trattati, è composto da rappresentanti dei cittadini e non più degli Stati, elegge il presidente della Commissione a maggioranza su proposta del Consiglio europeo fatta a maggioranza qualificata, tenendo conto del risultato del voto dei cittadini), attribuendo formalmente al Consiglio la funzione di imprimere gli impulsi e di definire gli orientamenti e le priorità generali, infine coinvolgendo i Parlamenti nazionali nel processo decisionale UE. In ogni caso senza sancire il primato del diritto dell’Unione sulla legislazione nazionale. Peraltro il Trattato di Lisbona instaura competenze parecchio aggrovigliate divise in tre categorie (competenze esclusive a livello Europeo, competenze concorrenti degli Stati, competenze di sostegno agli Stati) e per la prima volta prevede che gli stati membri possono recedere dall’UE. Nel complesso il Trattato di Lisbona conferma l’ansia statocentrica e imbelletta il rapporto UE cittadini europei, limitandosi a ritoccare alcuni istituti senza risolvere davvero i problemi. Significativo l’introdurre il diritto di recesso che è funzionale solo alla concezione degli accordi statocentrici.
In seguito, nei primi anni del decennio 2010, l’UE, di fronte alla crisi dei subprime americani, ha iniziato ad adottare, sempre nella logica statocentrica e non dei cittadini europei, una politica di austerità stringente, culminata nel mettere in piedi, onde aiutare gli stati membri in difficoltà, il Meccanismo Europeo di Stabilità – MES, che è l’emblema dell’elitarismo. Il MES è una società di diritto lussemburghese, con una procedura di concessione dei prestiti imperniata sul negoziato con il paese richiedente. Qui la distanza dall’UE dei cittadini raggiunge la vetta. Di fatti il negoziato finale è affidato ad un organo a tre, la Commissione UE, la BCE e il Fondo Monetario Internazionale, una triade in cui la BCE è un organo dei paesi dell’Euro (e non dell’UE) e il FMI è addirittura estraneo all’Europa. Dunque una triade assai lontana dai cittadini europei, che agisce nel rispetto dei parametri economici in chiave teorica saltando le condizioni civili di fatto.
Sia chiaro. Riconoscere i dati oggettivi finora riassuntivamente esposti circa la traiettoria dell’Euro, non significa affatto che la moneta unica fosse un obiettivo sbagliato. Significa invece che è stata costruita con la mentalità dello stato tradizionale al posto della libertà dei Trattati di Roma. Ne consegue che la correzione dell’errore non va fatta con la soluzione sommaria dell’uscita dall’Euro (che negherebbe la prospettiva unitaria europea). E’ invece necessario non incentivare, anzi ridurre, il ricorso a meccanismi del sistema Euro e dell’UEM divergenti dal criterio dell’affidare le decisioni di fondo ai cittadini europei. Questo è il nuovo punto di svolta che cambia la rotta.
L’allargamento territoriale UE – Anche perché la medesima distorta mentalità innestata a Maastricht, è dilagata nel medesimo periodo storico pure in un altro settore che è ancor più significativo. Quello del promuovere in modo compulsivo l’allargamento dell’UE a sempre nuovi paesi. Ho rilevato sopra che, rispetto alla stipula dei Trattati di Roma, i nuovi membri UE sono stati sei in 35 anni, mentre, vigente la mentalità distorta del dopo Maastricht, in un quindicennio se ne sono aggiunti altri sedici (per un totale di 28). Questa frenesia era già implicita nel clima del Trattato di Maastricht, tanto che pochi mesi dopo vennero fissati i criteri di ingresso per i paesi che lo volessero fare. Tre criteri. Istituzioni stabili democratiche, con stato di diritto rispettoso dei diritti umani e delle minoranze; economia di mercato in grado di consentire la concorrenza nell’Unione; capacità di accettare gli obblighi connessi all’adesione, normativi ed economico monetari. Sono dunque criteri del tutto tecnici e giuridici senza un qualsiasi riferimento alle condizioni di vita dei rapporti tra i cittadini, e soprattutto alla maturazione di questi loro rapporti, inquadrati pure nella prospettiva dell’Europa dei cittadini, di per sé chiaramente foriera di un’idea differente di sovranità.
Insomma criteri espressione di uno stato vecchia maniera, imperniato sul potere di qualche entità e non delle scelte dei cittadini. Come se, l’esser usciti da un’economia pianificata bastasse automaticamente o quasi a realizzare una società aperta basata sui cittadini, sulla libertà e sul mercato. Mentre una maturazione del genere richiede ovviamente un periodo di tempo assai protratto per mettersi alla prova e sviluppare davvero una cultura politica adatta. Eppure la frenesia innescata a Maastricht è stata un ritorno al passato tipico di istituzioni che aspirano ad allargare il territorio per esibire la propria potenza e che relegano nelle retrovie la qualità del convivere. Tra l’altro tale frenesia, anche se in apparenza raffreddatasi, non si è ancora esaurita. Oggi vi sono altri otto paesi candidati ad entrare nell’UE (cinque paesi balcanici, due paesi ex URSS , uno piccolo uno grande, e la Turchia). Quello grande ex URSS è l’Ucraina, per la quale esistono forti sollecitazioni, sotto pressione di soggetti esterni all’UE (USA e NATO), perfino perché si vada oltre i criteri vigenti (ad esempio passando sopra l’endemico stato di corruttela là esistente). E tutto ciò nonostante l’UE preveda perfino, oltre l’allargamento, altri tipi di relazione atta a stabilire stretti rapporti in campo economico culturale con altri paesi non richiedenti l’allargamento.
Lo stop all’allargamento territoriale – Senza trascurare che nel decennio più recente vi sono stati alcuni avvicinamenti al concetto della UE dei cittadini (prima con l’intervento del Presidente della BCE Draghi di cauto contrasto all’austerità e poi con la decisione della Presidente Von der Layen per fronteggiare il Covid di attivare un impegno comune dell’istituto UE), non si vedono significative inversioni di marcia nel costruire l’UE. E’ perciò giunto il momento di dire stop agli allargamenti dell’UE, che allontanano dal tornare all’UE imperniata sulle scelte dei cittadini degli stati membri. Dunque, per procedere in questa direzione, è molto importante, come sostengono i Liberali Italiani e Critica Liberale, che lo stop agli allargamenti rientri nei fini essenziali dell’auspicabile alleanza per il voto UE di giugno. Di fatti il nocciolo di una simile alleanza per mutare la rotta UE sta nel ricuperare l’indirizzo originario e riprendere a costruire l’UE imperniandosi sui cittadini europei invece che sulle burocrazie di Bruxelles e sugli Stati membri (l’articolo mio e di Paganini sopra richiamato indica quattro punti per trasformare l’UE, ridurre il peso degli stati aumentando quello dei cittadini, far condividere la cura del clima ai cittadini e non imporla, rinnovare la rete della sanità, dei servizi pubblici e delle strutture private, vigilare sul reddito del cittadino, introducendo il reddito universale di sopravvivenza e rendendo effettivo il salario minimo per un rapporto equilibrato tra lavoro prestato e costo sostenuto). Insieme è indispensabile un esplicito disegno politico condiviso da gruppi espressione di culture differenti che ponga il tema dello stop agli allargamenti nel cuore del dibattito politico. Un simile disegno di ritorno ai cittadini, non si realizza rivendicandolo mediante la raccolta delle firme degli europei (iniziativa positiva ma sterile alla luce delle norme vigenti). Si fa portando alla ribalta la questione dello stop facendone una battaglia politica.
Intanto, una cosa del genere non l’ha fatta il Manifesto lanciato i primi di ottobre da un consistente gruppo di personalità di rilievo UE (tra gli italiani ci sono Amato, Messori, Monti, Prodi), appunto perché muove dalla dichiarata esigenza di rinnovare gli indirizzi UE nella prospettiva di un futuro allargamento UE, considerato scontato (e non stupisce visti i posizionamenti europei dei firmatari, tutti legati alla logica di Maastricht). Inoltre, sul punto, purtroppo agli Stati Generali del Liberalismo, i verdi hanno detto di voler proseguire nell’allargamento, poiché estenderebbe il criterio della legalità UE. Ora, questa è una tesi singolare, dal momento che l’UE non esiste ancora come entità sovrapposta agli Stati ma sempre e solo come accordo tra gli Stati (nonostante l’infondato tentativo del Servizio giuridico del Consiglio e la pretesa dei magistrati della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di presentarsi come elites interpreti di leggi UE sovranazionali). Gli Stati sono finora gli unici a dettare nel proprio ambito regole di legalità valide in ogni campo e lo faranno finché non si instaurerà l’UE dei cittadini. Comunque, stante la dichiarazione della rappresentante dei Verdi, sorge il problema di cosa poter fare per rimuovere l’ostacolo al condividere lo stop all’allargamento territoriale. Di sicuro, se questo punto specifico verrà accantonato nel programma dell’auspicabile alleanza per il voto UE di giugno, sarà una debolezza pesante. La quale limiterebbe la possibilità di cambiare rotta di un’UE che ne avrebbe assai bisogno. Soprattutto per essere in grado di adempiere, nell’Occidente politicamente malato, al proprio ruolo di paladina della libertà degli scambi (che è il motore della democrazia) nonché della tolleranza delle altre idee a cominciare dall’esistenza di quelle opposte (che è la precondizione del convivere in pace), e in nessuna occasione paladina della libertà imperiale (perseguita dai circoli NATO) che è l’antitesi della libertà degli scambi e del convivere in pace.