Con la fine dell’estate, si apre di fatto la campagna elettorale per le elezioni europee del giugno 2024. Il modo corretto di iniziarla non è però accapigliarsi sulle alleanze, bensì impegnarsi a definire i programmi con i quali affrontarla per far scegliere ai cittadini il futuro dell’UE. Con questo articolo proponiamo quattro punti che individuano un programma della cultura liberale.
Il primo punto è ridurre nell’UE il peso degli stati membri e aumentare quello degli elettori; in sostanza imperniare l’UE sui cittadini ed accrescere le decisioni prese dai conviventi. Ciò comporta, in economia, far convergere i paesi membri per dotarsi della medesima struttura fiscale, per completare il mercato europeo dei capitali, per smettere di utilizzare organismi, quale l’attuale Meccanismo Europeo di Stabilità, estranei per struttura al diritto UE (quindi assai lontani dai cittadini). Insomma, l’UE va costruita sulle scelte dei cittadini e non sulle burocrazie europee. Che è la grande innovazione del progetto UE. Inoltre, nei rapporti internazionali, l’UE deve essere paladina della libertà negli scambi senza confonderla con quella cui si pretende di far svolgere un ruolo imperiale. È solo la libertà di scambi che esercita la propria fisiologica superiorità sulle autocrazie e così promuove il carattere occidentale dell’UE.
Il secondo punto è far condividere la cura del clima ai cittadini.Perché ora il sistema UE per combattere il peggioramento climatico è assai carente sotto due aspetti. Uno è il considerarlo il frutto esclusivo della dissennata produttività umana nel rapportarsi all’ambiente e nell’usarne le risorse; l’altro è ricorrere ad un rimedio pensato in sede teorica (soprattutto dalle burocrazie di Bruxelles) a prescindere dal complesso dei bisogni nati dalle interrelazioni quotidiane tra i conviventi. Il cui sottostante disegno politico ha una sola dimensione. Fare del problema climatico lo spartiacque tra i cittadini disposti a stare insieme secondo il conformismo ed i cittadini conservatori dei propri privilegi e quindi sordi ai pericoli degli sbalzi climatici.
Una simile inadeguatezza rende l’impegno UE sul clima non incisivo. Affrontare in concreto la sfida della rapidità del cambiamento climatico e il ruolo umano, esige di superare la cultura del presente e di essere invece in grado di riflettere sul come si manifestano i rischi derivanti dal clima e sul come adattarsi. Al contrario, l’idea apocalittica e quella negazionista sono ambedue gravemente errate, e rifuggono, contrapposte, il tener conto dei modi di convivere degli individui. È indispensabile coinvolgere i pervasivi stili di vita dei diversi cittadini, per riuscire ad individuare i percorsi terapeutici che eliminino i danni dei meccanismi produttivi o li riducano significativamente.
Il Parlamento Europeo dovrà coinvolgere i cittadini in tutte le pratiche atte a diffondere i rimedi correttivi degli effetti di eventi climatici estremi, partendo dal ricorrere al potenziare l’uso delle fonti rinnovabili e dell’idrogeno per produrre energia e aprendo una stagione di investimenti (anche da parte dei cittadini) a sostegno della transizione energetica. Il diffondersi delle azioni volontarie nell’UE – e non l’attitudine dirigista – è il presupposto per prevenire e controllare l’inquinamento in termini scientifici, e preservare costantemente l’ecologia ambientale.
Il terzo punto è rinnovare la rete della sanità, ampliando il sussulto vitale UE indotto dalla pandemia Covid19. Ai sensi del Trattato vigente, il ruolo UE nella politica sanitaria è un sostanziale coordinamento richiesto dalla libera circolazione delle persone e delle merci. Il dilagare del Covid19 ha indotto l’UE a varare con tre provvedimenti un pacchetto (settore della sanità incluso, seppure in parte) di 2.364,3 miliardi €, abbandonando la rigida austerità amministrativa insensibile alla realtà dei conviventi e non rispettosa delle aspirazioni originarie dell’Europa. Con il medesimo criterio, va potenziato l’impegno UE nel settore della sanità. Vale a dire va dato l’opportuno rilievo al ruolo operativo dei cittadini individui in quanto soggetti da curare e fulcro della mentalità sanitaria diffusa. La sanità ha come obiettivo la terapia del fruitore, non il suo indottrinamento preventivo sulla base delle decisioni di Bruxelles. Quanto agli alimenti, l’UE deve dismettere la volontà di dettare norme sulla qualità del cibo anche per via fiscale negando i gusti e le usanze individuali o territoriali e confondendo l’informazione delle caratteristiche salutari con una sorta di moda estesa alle forniture dei servizi al pubblico. Quanto all’obiettivo di sviluppare, coordinare e finanziare ulteriormente i programmi sanitari di ricerca e innovazione esistenti, esso contraddice il concentrare l’investimento in ambito pubblico e non-profit. Inoltre, l’UE non può avere la pretesa pressoché incredibile di sviluppare un programma educativo standard quanto a stili di vita sani, il che di nuovo ammanta di dirigismo l’azione terapeutica. Sono invece corrette le intenzioni UE di stabilire norme sanitarie minime a livello dell’UE e prevedere competenze condivise tra UE e Stati. Però si fa ancora confusione tra sussidiarietà e ruolo degli attori locali, regionali e nazionali (evitando il riferimento diretto ai cittadini), nonché tra la cooperazione transfrontaliera e la garanzia in sede UE dell’accesso alle cure specie quelle per interventi molto gravi e per i correlati costi finanziari. Né va tralasciato che è una fuga in avanti l’impegnarsi a riconoscere la disponibilità universale dei medicinali proprio in quel settore esteri, introdotto nella UE trenta anni fa, che esprime la concezione degli Stati, in palese contrasto con quella dell’UE dei cittadini, contrasto non sanato neppure dal Trattato di Lisbona a fine 2009 né ad oggi.
In conclusione, ogni futuro eletto nel Parlamento Europeo con questo programma dovrà impegnarsi perché la modifica in corso dei Trattati in campo sanitario assegni ad organi UE eletti dai cittadini la piena compartecipazione nell’indirizzare e nel vigilare sulle problematiche inerenti i cittadini degli Stati membri. A cominciare dal garantire che in ogni paese gli investimenti nel settore della sanità pubblica, inclusa la ricerca, non si discostino da un minimo prefissato dalla Commissione UE (norma che interessa l’Italia, oggi distante assai dall’incidenza media sul Pil negli altri paesi).
Principalmente, l’UE dovrà mantenere chiara, in campo sanitario, a distinzione tra i due suoi ruoli fondamentali. Quello di gestire un efficace sistema sanitario pubblico diffuso professionalmente e quello di vigilare sul corretto funzionamento territoriale sia delle iniziative pubbliche che del valore sanitario delle strutture private (se erogatrici di servizi pubblici, da selezionare aprendo a nuovi soggetti). Ambedue i ruoli, nella loro complementarietà, sono essenziali per far sì che il singolo cittadino europeo possa usufruire della migliore assistenza nelle cure sanitarie. Questione essenziale del convivere per assicurare che l’individuo abbia gli stessi diritti legali e che si realizzi così una vera democrazia.
Il quarto punto del programma elettorale è l’attività economica, visto chel’Europa nasce nel 1957 sulla libera circolazione di persone e di merci. Oggi, pure la libertà di circolazione – dimostratasi ineludibile per promuovere il benessere – presenta aspetti ancora arretrati in tema di impatto sui vari cittadini. A cominciare dai trattamenti fiscali delle attività di ciascun soggetto, fisico o societario, che hanno aliquote diverse a seconda degli Stati membri UE. Poi c’è la tassazione del digitale, nella quale è emerso il ritardo dei vertici istituzionali, troppo a lungo disattenti al ruolo di un’UE legata agli interessi dei cittadini, e non bloccata dagli interessi corporativi delle multinazionali e degli Stati. Oggi è in corso una trattativa in ambito OCSE per un accordo globale su due pilastri, da definirsi prima delle elezioni UE del 2024. Un pilastro per redistribuire i diritti di imposizione tra i paesi dove i gruppi multinazionali realizzano profitti; l’altro per stabilire la tassazione minima del 15% e ridurre il rischio di erosione dell’imponibile e di trasferimento degli utili. È importante monitorare che tale accordo giunga positivamente a conclusione e venga rispettato.
Rispetto all’UE dei cittadini, è poi decisivo vigilare sul reddito di ciascun cittadino. Qui l’UE è rimasta al passato. Nel senso che fu una grande novità sostituire la pratica pauperistica introducendo il reddito di ciascuno quale essenziale contributo del cittadino all’economia della convivenza. Da allora sono passati più di centocinquanta anni e il successo del nuovo sistema porta oggi a porre un interrogativo diverso. Siccome il fulcro della convivenza è la vitalità del cittadino ed è interesse forte UE assicurarsi che tutti i cittadini dispongano dei mezzi minimi di sopravvivenza (perché mentre la povertà costituisce un evento ineliminabile tra le difficili sfide del vivere, i mezzi minimi di sopravvivenza sono l’ultimo confine per mantenere la vitalità e la capacità di esprimersi quale cittadino), allora come riuscirci?
La risposta è il reddito universale. L’UE deve garantirlo ad ogni cittadino europeo, il quale non disponga di un reddito superiore ad un importo prefissato dal Parlamento, che è il confine di sopravvivenza. In sostanza il reddito universale sarà un importo che garantisce i mezzi minimi di sopravvivenza. L’obiettivo è allargare il più possibile il numero di cittadini in grado di esercitare il proprio senso critico al fine di contribuire alle risorse a disposizione dell’intera convivenza UE (rammentando che le risorse possono non essere di natura economica in senso stretto, poiché l’esercizio del senso critico fornisce contributi in una pluralità di campi). Insomma, il reddito universale non va parametrato alla produttività di ciascuno, bensì alle sue necessità per vivere. È la forma moderna di quella che a metà ‘800 fu la lotta al pauperismo. Il suo obiettivo specifico è innovativo e non si confonde con la lotta alla disoccupazione oppure con lo smuovere il discrimine culturale di una famiglia in origine povera oppure con la problematica del salario minimo (sul compenso economico dei lavoratori).
Quanto al salario minimo, dopo l’approvazione di un’apposita direttiva in Parlamento e poi nel Consiglio Europeo a fine 2022, ogni Stato membro UE ha tempo per recepirla fino all’autunno 2024. Ad oggi, sono cinque i paesi che non prevedono il salario minimo (tra cui l’Italia) e non sono obbligati a recepire la direttiva ma solo a monitorare la situazione di fatto e a renderla nota. Inoltre, esistono differenze sul livello di salario minimo tra i paesi che già lo prevedono e, in riferimento al potere d’acquisto, si constata che la metà di questi è sopra la media UE. Stabilire il salario minimo competerà al Parlamento espresso dai cittadini dei vari Stati entro parametri prefissati (comunque superiori all’importo confine del reddito universale) , pensati per garantire una vita dignitosa, rispetto al costo della vita e alle retribuzioni più alte.
Si tratta di un provvedimento di cui il presente programma condivide l’intento. Non perché sia il primo passo contro le diseguaglianze (retribuzioni differenti esprimono prestazioni differenti di individui differenti, le diseguaglianze sono fisiologiche), ma quello per favorire un rapporto equilibrato senza privilegi di posizione, tra lavoro prestato e il suo costo sostenuto dal datore di lavoro. Un equilibrio alla base dell’iniziativa economica aperta nella UE. Questi nuovi strumenti, reddito universale e salario minimo, ampliano la tutela dei cittadini e comportano che la libera circolazione UE esplichi in pieno la propria efficacia.
Questo programma ha l’obiettivo di dare anche all’Italia una rappresentanza nell’UE che pratichi il liberalismo e di essere una premessa perché anche il nostro paese abbia un domani una rappresentanza parlamentare della cultura liberale. Perché la cultura liberale è un sostantivo politico e non un’aggettivazione di qualcos’altro.