Da Raffaello Morelli a Nadia Urbinati sabato 4 aprile 2020 ore 12,15
La ringrazio molto per la rapida risposta. Faccio rilevare che non occorreva spazio, bastava una formulazione inequivoca tipo “Ha anzi messo la politica nella condizione di mettere in comune con la scienza le rispettive conoscenza pratiche”. Inoltre sottolineo come la politica che scopre lo sperimentalismo non sia accademia.
Da Nadia Urbinati a Raffaello Morelli sabato 4 aprile 2020 ore 11, 10
non avrei avuto tutto questo spazio che servirebbe per scrivere tutto quel che lei dice, e altro ancora. dopo tutto si tratta di un quotidiano non di una rivista accademica
Da Raffaello Morelli a Nadia Urbinati sabato 4 aprile 2020 ore 10.45
Le scrivo a proposito del Suo articolo odierno “Un patto tra politica e scienza”. Trovo che esprima in efficace sintesi un punto di rilievo circa i rapporti tra scienza e politica durante la crisi COVID19. Oltre alle considerazioni sparse per lo più condivisibili, alcuni passaggi fanno osservazioni importanti, vedi il richiamo a Mill e la puntuale descrizione di ciò che distingue i governi liberal-democratici e i governi tecnocratici.
Le scrivo peraltro queste righe, perché la Sua analisi non va fino in fondo e lascia la possibilità di interpretare il pezzo in termini che mi auguro non siano la Sua convinzione ma che di certo non corrispondono alla realtà delle cose. La questione sorge dalla frase “ (il coronavirus) ha messo politica e scienza nella condizione di mettere in comune le rispettive conoscenze e pratiche senza soccombere l’una all’altra”.
Potrebbe essere letta nel senso che le sfere di politica e scienza siano per forza due procedure incommensurabili di affrontare la conoscenza. Una lettura del tutto non vera e che del resto corrisponde all’antica concezione dell’affidarsi ad un libro sacro. Grosso modo dal XVII secolo si è cominciato a comprendere in maniera sempre più approfondita che la connessione del convivere al mondo reale è fondata sui fatti, e sullo sperimentare quanto avviene agendo su di loro. Quindi la scienza, sviluppatasi a partire da tale concetto, è arrivata a capire anche che il nucleo della conoscenza è lo sperimentare e di conseguenza a tener distinto ciò che è noto (già sperimentato) da ciò che non lo è (almeno finora). Perciò esiste una differenza abissale tra la verità scientifica, sperimentata ma definitiva solo fino a prova contraria, e la verità religiosa ed ideologica, che si accetta per fede o quale utopia, che pretende di conoscere anche l’ignoto e che non riconosce il ruolo degli esprimenti.
Nella pratica ciò comporta che la conoscenza scientifica concerne le parti del mondo ormai sperimentate (e quindi note salvo future falsificazioni) mentre la conoscenza politica si applica a progetti per il futuro dei cittadini. Però lo fa tramite ideologie o progetti presentati come promesse rassicuranti, evitando il più possibile (come residuato dell’antica concezione del libro sacro) di sottoporsi alla sperimentazione tramite i risultati ottenuti. Quindi la scienza è sempre immersa nell’incertezza e ricerca tramite il metodo dello sperimentare, la politica propende a seguire la strada del certo, vale a dire del potere che illude di tutto sapere e potere.
Si può allora concludere che la politica potrebbe benissimo interagire con la scienza qualora riconoscesse in pieno lo sperimentare dei risultati, il prevalere della diversità sull’unità e del confronto tra le idee sul potere per imporle unificandole. Non lo fa perché nell’umanità non tutti sono disposti a convivere con l’ignoto. Se il dibattito politico accettasse che l’ignoto è ineliminabile, la convivenza migliorerebbe alla svelta, lungo la strada del cambiamento a passo a passo evitando rivoluzioni gattopardesche.
Tra l’altro, questi passaggi sono utili anche a cogliere il perché il COVID19 sia una situazione ideale per la cooperazione tra politica e scienza. Perché i dibattiti infiniti da Lei citati all’inizio riguardavano questioni tangibili della vita quotidiana e investivano grandi questioni morali (in sé non facilmente riconducibili allo sperimentare) su cui i cittadini si emozionavano, con la politica pronta ad illuderli di trovare soluzioni facendo a meno della conoscenza scientifica (una forma di rifuso della realtà). Il COVID19 tocca la vita quotidiana in modo circoscritto e invisibile, non esistono vaccini, la sola emozione è la paura, vengono meno le certezze del tutto sotto controllo. Per cui la politica si trova oggi su quel piano dell’incertezza abituale per la scienza e si deve affidare innanzitutto alla scienza perché non si hanno le competenze per cercare di capire il meccanismo del COVID19 per farvi fronte in radice.
Termino rilevando di sfuggita un aspetto che con Lei sfonda una porta aperta. Per lo stesso motivo che induce a richiedere le competenze sul COVID19, la politica liberale non affida mai il governo solo ai competenti, proprio perché gli umani sono diversi, la convivenza riguarda anche l’ignoto e sull’ignoto sentire l’opinione di tutti i cittadini è statisticamente più sicuro in termini di libertà del cittadino – nei risultati a medio termine – che l’affidarsi ai tecnocrati i quali pretendono di conoscere il futuro prima che si realizzi. Come i più incalliti deterministi.