A proposito di un articolo sui liberali (a Massimo Mucchetti)

In risposta a quanto da lui scritto sul Corriere della Sera

Gentile Dottor Mucchetti,

nel Suo articolo di ieri Lei si pone giustamente il quesito se Berlusconi sia criticabile perché non ha mantenuto la promessa di rivoluzione liberale oppure se tale critica nasconda il tentativo di giustificazioni personali oppure quello di non ripensare i limiti della storia liberale in Italia. E da poi la risposta scrivendo, altrettanto giustamente, che Silvio non ha tradito. “L’aggettivo liberale era marketing. L’hanno capito in tanti, anche del PLI, senza aspettare che Forza Italia aderisse al gruppo popolare europeo”.

Siccome noi apparteniamo a quella categoria dei liberali del vertice PLI – tra gli altri citiamo gli On. Antonio Baslini, Franco Compasso, Alessandro Dalla Via, Andrea Marcucci, Enzo Palumbo e Valerio Zanone con i suoi amici – che proseguirono, fisiologicamente in opposizione a Forza Italia, la vita del movimento liberale che fa ancor oggi parte dell’Internazionale Liberale, vorremmo farLe un’osservazione circa la seconda parte della Sua risposta, quella sui limiti della storia liberale in Italia.

Lei scrive che l’Italia ha divorziato dalla cultura liberale dopo la seconda guerra mondiale. In realtà, l’abbandono  è avvenuto trenta anni prima quando i liberali di Giolitti, dopo aver introdotto il suffragio universale maschile secondo l’indicazione di Cavour,  non  riuscirono a far prevalere la contrarietà all’entrata in guerra ( tesi su cui convergeva il cinquantennale avversario, il Papa dell’inutile strage) perché bloccati dalla Corona, che impose il voltafaccia al Parlamento interpretando la piazza orientata dall’irrazionalismo degli interventisti,e della retorica  nazionalista  che aveva pervaso le masse, tutti avversi nel profondo  alla metodologia liberale dello stare ai fatti ed esercitare il senso critico. Ciò portò al fascismo con il plauso dell’alta borghesia e degli industriali (famoso il fondo sul Corriere di Einaudi contro di loro). Durante il fascismo il punto di riferimento dell’opposizione non rivoluzionaria fu indiscutibilmente la rivista la Critica di Benedetto Croce e a livello internazionale furono proprio due  liberali, Keynes e Beveridge, ad indicare la strada dell’uscita dalla crisi del 1929 e poi della costruzione dello stato sociale inglese. Poi, dopo la II Guerra Mondiale, in consonanza con i vincoli della guerra fredda, irruppero sulla scena politica italiana  i partiti di massa, cattolico e comunista, culturalmente ostili, seppure molto diversamente, alle problematiche dell’individuo. E questo ha aperto la questione, tuttora irrisolta, di organizzare un movimento politico centrato sulla libertà del cittadino da contrapporre a quelle vincolate al conformismo ideologico o fideistico che lo intruppano.

Peraltro, nel finale, vi sono due cose del Suo articolo che proprio non corrispondono alla realtà storica. La prima è che, contrariamente alla vulgata, il PLI sia stato subordinato nel dopoguerra alla Confindustria. Basti ricordare il Ministro dell’Industria Guido Cortese con la sua posizione per assegnare gli idrocarburi all’ENI nella più generale ottica antiliberista (in seguito riconosciuta esplicitamente da Napolitano). Poi, per oltre un quindicennio dalla fine degli anni cinquanta in poi,  il sostanziale favore confindustriale per la grande destra, sempre combattuta con estrema determinazione da Malagodi. Questi venne abbandonato proprio per aver voluto introdurre anche in Italia lo scomodo principio che opporsi al governo non è un atto antisistema ed anzi è il sale della democrazia. Vallo a raccontare a chi faceva i bilanci con gli aiuti pubblici.

La seconda questione è che il liberalismo internazionale mai ha dato un appoggio acritico al capitalismo finanziario globale. Esattamente al contrario. Esso ha sempre sottolineato la centralità del singolo cittadino e dei suoi diritti, chiarendo esplicitamente, soprattutto attraverso l’opera di Ralf Dahrendorf, Presidente di Onore  dell’Internazionale Liberale, che la base della convivenza è il conflitto secondo le regole dei cittadini sul come organizzarsi e che non è possibile un capitalismo fondato sui debiti e non sul prodotto. I liberali sostengono che la globalizzazione è stata un grosso passo avanti verso la libertà del cittadino in tutto il mondo ma che impone di non sorvolare su una serie di problematiche che essa solleva, soprattutto circa la pratica di abitudini di governo obsolete. Per stare all’attualità italiana, i liberali sostengono che gli attacchi dei mercati ai titoli italiani sono una conseguenza dell’enorme debito pubblico accumulato  in rapporto al PIL, che testimonia la grave carenza strutturale del paese determinato dall’assistenzialismo. Il drastico taglio del debito è l’indispensabile prima mossa per riavviare lo sviluppo diminuendo le imposizioni sull’intraprendere e sul lavorare. Nel mercato globale, non è consentito governare con abnormi livelli strutturali di debito.

A parte queste notazioni, concordiamo in pieno con la Sua frase finale: “Le culture politiche restano grandi se sanno rinnovarsi senza demiurghi”. Infatti, ispirandoci  esattamente a questo, stiamo da qualche mese ritessendo la rete per una formazione politica liberale  che riequilibri  l’offerta politica in termini di coerente rappresentanza del progetto improntato alla cultura liberale. Che essendo a favore della centrale libertà del cittadino, è contro i salotti intellettualistici, l’egoismo miope della borghesia medio alta, l’imprenditoria elemosiniera, il pauperismo professionale, il conformismo dei cattolici chiusi e nel complesso contro le oligarchie occulte, progressiste a parole, conservatrici nei fatti.

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