Il Tirreno ha finora pubblicato articoli di sostegno delle posizioni dei PM e del sindacato Magistrati contro la scelta della maggioranza di fare una complessiva riforma costituzionale dei rapporti tra politica e magistratura. Credo fisiologico che ora, chi da sempre si oppone al centro destra, illustri al riguardo un punto di vista contrapposto.
Una prima volta il prof. Emanuele Rossi ha sostenuto che “l’obiettivo vero del ripristino dell’autorizzazione a procedere, eliminata nel 1989, è mettere una volta di più i parlamentari sopra la legge (e non sotto come tutti)”. Ma i Costituenti, quando non consentirono alla magistratura di mettere le mani in politica non posero i parlamentari sopra la legge. Non dissero che l’azione dei parlamentari fosse insindacabile, ma solo che (art.68 della Costituzione) “nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale”. Questo impediva ai PM di far politica attiva perseguendo i parlamentari e non dava alcuna impunità ai parlamentari. Nel 1993, l’art. 68 venne ridotto a “nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare”. Ciò ha dato il via libera alle crescenti interferenze della magistratura in politica attraverso i processi. Così non vale più il principio della sovranità del cittadino nell’ambito delle leggi, perché è innegabile la tendenza di parte della magistratura ad arrogarsi il ruolo di stabilire il bene comune a prescindere dal voto. Cioè un ruolo di corporazione elitaria non soggetta a responsabilità.
Ora lo stesso professore scrive che “la riforma prevede una riduzione del ruolo costituzionale della magistratura” perché ora è “un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere” e diverrebbe ” un ordine autonomo ed indipendente da ogni potere”. Cioè quanto proponeva la bicamerale D’Alema, con l’aggiunta della distinzione esplicita della magistratura in giudici e in pubblici ministeri. Di conseguenza, secondo l’autore, “la magistratura non sarebbe più un potere”. Questa conclusione dimostra da sé la propria infondatezza. Infatti chiunque non voglia essere un difensore d’ufficio dei PM e dell’ANM, può constatare che già oggi la magistratura non è un potere ma un ordine, che solo le distorsioni corporative la hanno portata a comportarsi come un potere legislativo e che la complessiva logica costituzionale testimonia la distinzione tra giudici e PM. Hanno funzioni totalmente diverse rispetto al cittadino considerato innocente fino al giudizio definitivo.
Inoltre lo stesso professore scrive che il precisare come l’obbligatorietà dell’azione penale sia esercitata secondo i criteri stabiliti dalla legge, significa che “sarà il Governo a decidere su che cosa i pubblici ministeri dovranno indagare”. La realtà è diversa. L’obbligatorietà dell’azione penale è un principio del tutto teorico, dal momento che preso alla lettera è di fatto inapplicabile e si traduce nel dare ai PM la discrezionalità esclusiva di esercitarla.
il progetto di riforma del governo dovrà come ovvio essere valutato a fondo, ma (visto che stavolta non è utilizzabile lo slogan della legge ad personam) non si possono negare pregiudizialmente i fatti cui la riforma si riferisce. Cioè l’esigenza di affrontare l’involuzione di quelle procure e di quei magistrati, che esercitano poteri politici per loro non pertinenti, che indulgono ad interpretazioni estranee allo spirito del legislatore, che praticano una disciplina domestica corporativa e che contribuiscono non poco alle disfunzioni della giustizia.
Chiudere gli occhi alla realtà per motivi “sindacali”, costituisce un regalo al Presidente del Consiglio. Gli si lascia il ruolo di unico impegnato a risolvere le preoccupazioni dei cittadini rispetto ai comportamenti corporativi.