I due rami liberali dell’Ambasciatore Romano

L’Ambasciatore Romano, sul Corriere, riconosce l’importanza della grande famiglia liberale e conviene sul deficit di liberalismo nel sistema politico italiano. Però  separa i liberali in due rami, di sinistra e di destra, anche se, scrive, ambedue hanno a cuore la libertà dell’individuo contro le prevaricazioni dello Stato, delle Chiese, dei monopoli economico-finanziari e contro le servitù purtroppo ancora diffuse. Io sono convinto che porre la promozione della libertà individuale come base di ogni possibile sviluppo (commisurato al tempo e al luogo) basti  ad individuare una area politica, rendendo le diverse sensibilità tra liberali (ovviamente esistenti ) un fattore trascurabile rispetto alle enormi differenze d’impostazione e di comportamenti tra tutti i liberali e gli altri gruppi politici, abbarbicati a concezioni ideologiche utopiche o fideiste. Conta il sostantivo “liberale”, non le interne specifiche di destra e di sinistra.

La questione non è accademica e tocca chiunque riconosca quel deficit di liberalismo. Sostenendo che le diverse sensibilità tra liberali rendono impossibile lo stare insieme, si condanna all’inesistenza proprio l’area politica che vuol far prevalere  il criterio della libertà (da cui conseguono anche laicità delle istituzioni, concorrenza, cultura del rischio)  e sconfiggere le concezioni chiuse, che si nutrono di corporazioni,  conformismo e immobilismo economico sociale.

Romano si preoccupa che i liberali di sinistra prendano in considerazione mezzi e strumenti che non possono considerarsi liberali. La preoccupazione non ha ragion d’essere e di fatti gli esempi addotti sono fragili. Scrive Romano che le quote rosa o la par condicio limitano la libertà di scelta dell’elettore o del giornalista. Sarebbe vero  interpretando la libertà individuale come separatezza ed incomunicabilità, con ognuno custode solo della propria libertà. Invece il liberale pensa al cittadino in rete con  altri. Di destra o di sinistra, nessuno dei liberali nega le problematiche di libertà sottostanti alle quote rosa o alla par condicio ( se le negassero, semplicemente non sarebbero liberali). E allora, quando la realtà della convivenza mostra che esistono problemi di libertà, il liberale, a differenza dei conservatori  di destra e di sinistra, non sta fermo e cerca il modo per portare ad un livello accettabile la libertà di scelta individuale (cioè del massimo numero possibile di persone, anche chiedendo piccoli sacrifici a qualcuno da ripagare con la convivenza migliore).  Dopodiché, il liberale non si addormenta sugli allori, verifica di continuo cosa succede e, se la nuova norma non funziona, la cambia ancora. Per far vivere la libertà, non vi è nulla di intoccabile.

La vera preoccupazione dovrebbe essere un’altra. Far cessare il vezzo italiano, praticato per un secolo dal marxismo e dall’integralismo cattolico, di assimilare i liberali moderati ai conservatori. Non a caso Giovanni Malagodi si batté sempre contro i grandi conservatori come Reagan e la Thatcher. La cosa è sempre più urgente. A differenza dei conservatori, i liberali, di destra e di sinistra, non confondono il proprio realismo con la rinuncia a perseguire il cambiamento. Il marchio politico del liberalismo è la libertà attiva per il cambiamento fisiologicamente ineludibile negli organismi vitali (fattore decisivo in epoca di fondamentalismi). E non vi è libertà attiva senza la cultura del rischio misurato. Che è una cultura autoimmune perché il metodo della libertà si è storicamente distinto per la capacità (esclusiva) di correggere gli errori che vengono fatti.

Insistere sulla presunta inconciliabilità dei diversi modi di sentire che ci sono anche tra i liberali (oltretutto unici sostenitori del valore della diversità), appare un artificio dialettico dei fautori dell’Italia così come è, per evitare che arrivi in Italia quello che già c’è in Europa: un raggruppamento liberale ben distinto dai popolar conservatori e dai socialisti nel promuovere la libertà innanzitutto.

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