Cronologia del Liberalismo (capitolo 4.2 b.2.h)

Undicesima parte della CRONOLOGIA ESSENZIALE DEL LIBERALISMO

4.2 b 2 h    L’Italia nella prima guerra mondiale. 4.2 b 2 h  1  .  I sette mesi 1915 –Nei mesi del passaggio dal neutralismo (estate 1914) a interventismo (metà primavera 1915), l’esercito italiano si potenziò sia nell’organizzazione umana che negli armamenti, tuttavia la situazione nel complesso restava  parecchio carente. In sintesi, era molto forte la mancanza di bocche da fuoco di medio e grosso calibro, praticamente non c’erano mitragliatrici né si era in grado di produrle in tempi stretti, non si disponeva di mezzi per distruggere i reticolati e le altre difese accessorie del nemico (quasi incredibile tenuto conto che le battaglie in corso da oltre nove mesi in Francia e Polonia avevano provato come avercele fosse decisivo), la notevole arretratezza dell’aviazione, sia perché si era puntato sui dirigibili e non sugli aereoplani sia perché non venivano ancora usati gli italianissimi aerei Caproni i cui brevetti spopolavano in America ed Inghilterra (in Italia entrarono in funzione tardivamente). Insomma, ciò è un’ulteriore riprova che l’entrata in guerra non derivò da pressioni dell’apparato militare, bensì da una manovra imposta dalla Corona (che fu determinante), grande stampa, poteri economici (inclusi numerosi ambienti cattolici  in dissenso con il Papa) , massoneria, minoranza socialista, notissimi letterati e futuristi, interventisti uniti sulla parola d’ordine di completare il risorgimento e di portare all’unità del paese.

Stando così le cose, la caratteristica principale delle truppe italiane era l’entusiasmo aggressivo di chi ha una missione. Circostanza acuita dall’essere Capo di Stato Maggiore il gen.  Luigi Cadorna, un piemontese assai conservatore, molto legato a Casa Savoia, il quale pretese di combattere la guerra a modo suo attraverso lo Stato Maggiore nel Veneto orientale, per emanare ordini fondati su una disciplina rigidissima e per mettere in atto una strategia imperniata sull’ assalto frontale ad oltranza che fiaccasse gli asburgici, al prezzo di enormi  perdite tra gli  italiani. Dunque un entusiasmo militarmente disciplinatissimo assai diverso dall’esaltazione degli interventisti.  

La strategia di Cadorna dovette ben presto fare i conti con il massiccio sistema di fortificazioni austriaco al confine. Che era lungo 800 chilometri dallo Stelvio al mare ed era per lo più in posizioni elevate in mano agli austriaci. Le fortificazioni erano soprattutto trinceramenti in cemento e in calcestruzzo protetti da estesi campi di mine, da più ordini di reticolati in filo metallico e da un poderoso armamento in mitragliatrici. Il tutto assistito da una fitta rete di comunicazioni telegrafiche, telefoniche ed ottiche, che consentivano rapidissimi concentramenti di fuoco.

Di conseguenza, il celere sfondamento delle difese austriache progettato da Cadorna, venne bloccato e presto la guerra divenne uno scontro di logoramento in cui il sogno delle spallate italiane si infrangeva contro i baluardi nemici. Così i guadagni territoriali furono esigui. Oltretutto dovendo l’esercito italiano dare aiuto agli alleati dell’Intesa nella guerra in Russia (in cui stavano prevalendo gli Imperi centrali) e negli scontri in Serbia (nonostante la contrarietà di Cadorna, focalizzato sulla sua guerra in Italia) e in particolare valutando pure l’entrata in guerra dell’Italia anche contro la Turchia ottomana (dovuta al complicarsi della situazione in Africa Settentrionale) che finì per impegnare parecchio la Marina, e infine l’occupazione dell’Albania.  

A gennaio 1916 l’agenzia pubblica di informazioni Stefani riconosceva, con un eloquio assai laudativo, che in otto mesi di dura lotta l’esercito aveva mantenuto inalterato un  contegno aggressivo pur in inferiorità rispetto al nemico, quanto a posizioni e preparazione del terreno. E scriveva “L’esercito italiano guarda al nuovo anno con legittimo orgoglio per le gesta compiute e con incrollabile fiducia nell’avvenire. Inspirandosi all’esempio di S. M. il Re, primo fra tutti in ogni evenienza di guerra, e sorretto dalle cure costarti ed affettuose del Paese, dalle ardue prove superate trae incitamento a moltiplicare gli sforzi per l’avvenire sino al completo raggiungimento della gloriosa mèta additatagli della volontà della Nazione“. 

Come si vede un approccio propagandistico per nascondere le difficoltà in atto e che neppure menzionava quanto stava verificandosi dal punto di vista politico e di quello economico. Alla fine del 1915, cattolici e neutralisti ricominciavano ad agitarsi in chiave politica, e i socialisti ufficiali tennero dimostrazioni disfattiste, espellendo dal partito i compagni volontari di guerra, negando ai compagni morti sul campo le onoranze funebri, attaccando i cosiddetti guerrafondai. Sul piano economico, furono varati diversi inasprimenti fiscali di una certa consistenza ed emesso un terzo prestito nazionale al 5% per 25 anni con interessi esenti da imposizione fiscale. Provvedimenti che al momento vennero accolti con forte disponibilità (la Camera votò con larga maggioranza salvo una parte consistente dei giolittiani ed i socialisti) anche assistita da una selva di comitati provinciali, ma che ponevano le basi per future difficoltà economiche (nonostante l’esaltazione plebiscitaria che ne fecero i suoi fautori). 

Da segnalare inoltre che, sempre nelle ultime settimane del 1915,  proseguirono le polemiche pubbliche del Papa con il Regno riguardo la libertà di esercizio del proprio magistero vigendo la legge delle Guarentigie.  L’occasione fu il Concistoro  di inizio dicembre, in cui Benedetto XV, pur dando atto delle buone intenzioni italiane, riaffermò che la Chiesa necessita dell’autonoma giurisdizione per  esercitare davvero la propria funzione.  In aula, il Ministro V.E. Orlando confermò la piena validità della legge  del 1870 . E sottolineò   che proprio la guerra in corso era la conferma che Benedetto XV “mantiene intatto il suo prestigio e goda di tanta libertà e indipendenza. Così noi abbiamo assistito in Roma, ad un funerale ordinato dal Santo Padre in suffragio di tutti i caduti della guerra, senza eccezione, compresi i nostri nemici”. 

4.2 b 2 h  2  L’anno 1916 – Nel primo semestre  si consolidarono  da una parte la tendenza sul campo militare ad assumere sempre più  posizioni statiche di trincea e ad atti di eroismo diffusi ma privi di disegni strategici davvero propulsivi, e dall’altra la tendenza del dibattito sul fronte interno a dare spazio alle voci dissonanti nel coro di parole d’ordine esaltate dominante nella primavera 1915.  

Sul campo i combattimenti si svolgevano per lo più a grandi altezze,  intorno ed oltre i 2000 metri, ponendo enormi difficoltà dato il periodo invernale  nel gestire gli aspetti materiali di lotta alle temperature rigide in tema di approvvigionamenti edilizi, di vestiario, di alimentazione e di cure sanitarie. Cadorna imperniava i propri piani sul dover fronteggiare un’offensiva austriaca sul Carso, anche se una parte del suo Comando suggerisse di attrezzare il massiccio del Pasubio, tra il territorio Vicentino ed il Trentino, per accogliere forti contingenti di truppe a difesa. Venne fatto non in via prioritaria. Del resto al momento pareva un aspetto non centrale, visto che il fronte di guerra era molto vivace in moltissimi punti di un vasto arco. Dalle alture a nord-ovest di Gorizia, e in genere sul fronte Giulia, alla zona tra San Michele e San Martino del Carso, a est di Monfalcone , alla Val Sugana, al Col di Lana, all’Isonzo,. alla pianura verso  il Tagliamento , proseguendo al massiccio della Marmolada e fino  all’Adamello. Da tener presente, inoltre,  che proprio in quel semestre si sviluppò la guerra aerea, che portò ai primi  bombardamenti sui centri abitati, diffuse un clima di terrore tra la popolazione e determinò una concezione di guerra più complessa. 

Nel medesimo primo semestre 1916,  andò cambiando  il clima del sostegno militare. Non si affievolì ma assunse toni meno enfatici. In più, in una manifestazione a favore del prestito, Salandra espresse il fondamento del suo governo : la capacità del “partito liberale monarchico, che ha fatto l’Italia e che dovrà compierla, di tenersi unito in  tutte le sue tendenze divergenti, perché una parte sola, non basterebbe al compito da assolvere. Gli altri gruppi o partiti. vengano con noi. Noi dobbiamo accoglierli. Dopo sarà quello che i fati vorranno“. Parole che indispettirono gli altri gruppi sostenitori del conflitto, dettero fiato alle proteste dei socialisti alla Camera tra marzo ed aprile (i soldati sono retribuiti in modo inadeguato e gli interessi delle classi lavoratrici non tutelati), rafforzarono le manovre sotto traccia per la sfiducia a Salandra. 

L’ atmosfera restò di effettiva stagnazione sul piano militare e su quello politico, fin quando a metà maggio l’Austria lanciò una offensiva sugli Altipiani trentini con lo scopo di punire il tradimento italiano dell’anno prima. Era un’offensiva robusta preparata fin da gennaio accumulando mezzi ed uomini. Cadorna, nonostante i ricorrenti allerta, si era ostinato a non annusarne le chiare avvisaglie, nella ferma convinzione che gli Austriaci avrebbero dovuto attaccare sul Carso (un tipo di errore ripetuto in seguito). Per alcune settimane, l’esercito italiano subì l’attacco e vi resisté solo per l’abnegazione e il valore di molti. 

Nel paese, sia pure con informazioni frammentarie, crebbero le critiche a Cadorna e al Governo che nella gestione del fronte aveva tollerato l’essere messo in disparte. Cadorna, protetto dalla Corona, non fu toccato,  Salandra cadde i primi di giugno (mentre si avviava la controffensiva in Trentino) per il dissolversi dei suoi sostenitori alla Camera (una mozione sul bilancio non fu votata da circa 150 deputati della maggioranza  e 93 uscirono dall’aula subito prima del voto). Il successore fu Boselli, parlamentare decano, prima più volte ministro, liberale di destra moderata, che rinnovò i componenti del Governo per due terzi, nominando per la prima volta un importante cattolico, Meda alle finanze, e inoltre un socialista interventista, Bissolati (che  teorizzava la pausa nella politica, “il fervore delle competizioni politiche tace di fronte alla voce della Patria immortale; tutti oggi dobbiamo stringerci insieme in una concordia sincera ed operosa per un’Italia…Bene raggiunta la mèta, ciascuno tornerà al suo posto nella politica”).

Va rilevato che l’impostazione politico culturale di Boselli e del suo Governo di Unità Nazionale, si imperniava sull’unità dei conviventi. Allineata ai desideri di Casa Savoia , e seguendo il tradizionale approccio delle concezioni di potere, di per sé inadatto ad affrontare il cambiamento e quindi destinato a crisi rovinose. Viceversa, il fulcro del liberalismo aperto (in sostanza  perseguito dai giolittiani)  è l’osservare i fatti reali e lo sperimentare le valutazioni e le ipotesi individuali che ne derivano, misurandole attraverso i risultati. Perciò pure il Governo Boselli praticava una concezione liberale incoerente.

Sul campo, l’esercito, dopo aver bloccato l’offensiva punitiva, lanciò ancora una  controffensiva con molto entusiasmo ed impegno, peraltro ottenendo ancora risultati  limitati all’occupazione  di Gorizia ad agosto. Cadorna accentrò il suo ruolo di comando, gestendolo con estrema fermezza, al punto da attribuire i non esaltanti risultati ad un insufficiente rigore nel combattere dei suoi sottoposti. Al fine di stimolare una reazione adeguata, cominciò a praticare il sistema della decimazione tra i combattenti, un metodo d’origine romana estraneo al codice militare e in sostanza selvaggio. All’inizio non fu evidente ma venne presto a galla perché causò decine di migliaia di vittime. Oltretutto, non ravvivò l’andamento bellico e al contempo ispessì  il distacco tra Stato Maggiore e Governo. 

Nelle stesse settimane, vi furono diverse novità circa i fronti militari. In accordo con gli alleai dell’Intesa, corpi di spedizione furono inviati in Macedonia e subito dopo in Turchia. Poi ci fu l’ulteriore complicazione del rapido precipitare dei rapporti tra  Italia e Germania, sospinto anche dagli Alleati e dagli interventisti di sinistra che puntavano alla rottura con i tedeschi (mentre la diplomazia di Berlino lavorava da fine primavera con diversi stati per arrivare alla pace). Così si passò da scaramucce su come trattare reciprocamente questioni pensionistiche e immobiliari, alla denuncia italiana del trattato doganale e di navigazione. In conclusione a fine agosto l’Italia dichiarò guerra alla Germania. Nel frattempo proseguivano le offensive sull’Isonzo, esaltate ma prive di effetti concreti, salvo ogni volta morti a decine di migliaia, assai superiori a quelli austriaci. Fino a novembre ci furono altre battaglie sull’Isonzo, strategicamente con effetti quasi nulli (a parte  perdite sempre pesantissime) e gli insuccessi portarono ad interrompere le operazioni belliche sul fronte sino alla primavera  seguente.  L’andamento delle operazioni sul Mediterraneo ed in aria era invece più soddisfacente.

Nel frattempo il Presidente del Consiglio e molti Ministri svolgevano una capillare ed appassionata propaganda in giro per l’Italia. Sostenevano che la pace avrebbe dovuto accompagnarsi alla fine dell’impero austroungarico. E che intanto il Governo lavorava per mantenere adeguati livelli di tenore di vita economica, seppur restringendo i consumi. Di tutta evidenza il clima politico era esaltato nel paese e incerto in campo bellico. Cosicché, a dicembre inoltrato, anche la Camera a maggioranza rinviò di sei mesi il voto su una mozione  per “iniziare una discussione che, ispirata a criteri di ragione e di umanità, ci avvicinasse in qualche modo alla cessazione del disastro della guerra” In parallelo, negli ultimi giorni dell’anno, il Segretario di Stato degli Stati Uniti trasmetteva in Italia e in diversi altri paesi europei, una nota del Presidente  Wilson in cui suggeriva alle potenze belligeranti di trovare  una composizione positiva ai dissensi all’insegna del desiderio condiviso di proteggere i rispettivi popoli. La nota venne accolta positivamente sia dall’Alleanza che dagli Imperi Centrali ed avviò un inteso lavorio diplomatico.

4.2 b 2 h  3  L’anno 1917 – Ad inizio anno, Vittorio Emanuele III insignì i singoli stendardi di tutti reparti al fronte di medaglie d’oro, d’argento e di bronzocon distinte motivazioni. Al tempo stesso, tuttavia, furono emanati decreti di richiamo alle armi di classi dal 1871 al 1899 con diversi compiti e venne lanciato un quarto prestito nazionale creando un apposito titolo di debito pubblico, il quale, peraltro, non fu sottoscritto in pieno, nonostante il ricorso alla conversione dei prestiti precedenti. Nel complesso il debito pubblico gonfiato dalle spese di guerra, era già enorme, ed alla lunga  sarebbe stato impossibile farvi fronte  ricorrendo allo slancio guerriero. Comunque sul terreno  nei primi due mesi l’attività  di combattimento risultò  assai ridotta, intensificandosi un po’ a marzo da parte austriaca. 

Peraltro grandi novità maturarono in altri ambiti. Si è già visto  nel capitolo 4.2a l’abdicazione dello zar Nicola II, con cui iniziò la rivoluzione russa con le sue grandi conseguenze seppure con effetti non immediati sulla guerra con gli Imperi Centrali. Nel frattempo, il lavorio diplomatico sull’iniziativa del Presidente Wilson  stava proseguendo con apparente slancio, quando i primi di febbraio la Germania comunicò di ravvisare nei paesi nemici un’intimazione di lotta  più aspra e che pertanto  da quel momento “ogni traffico marittimo in certe zone dell’Atlantico e nel Mediterraneo Orientale sarebbe stato combattuto con tutte le armi.” E precisava “che i piroscafi delle Potenze neutrali entrandovi lo farebbero a loro rischio”. Gli Stati Uniti ruppero subito le relazioni con la Germania e dopo alcune settimane l’affondamento della Vigilantia convinse il Presidente Wilson che non era più possibile restare estranei, oltretutto, come detto, per proteggere i grossi finanziamenti  all’Intesa. I primi di aprile gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco dell’Alleanza, con ritmi  lenti ma incalzanti, Italia inclusa. 

Esattamente nel medesimo periodo, su impulso sottotraccia del nuovo imperatore austriaco  Carlo I tramite il cognato Principe di Borbone in Francia, si attivò una trattativa per arrivare ad un trattato di pace, con il Presidente francese Poincaré, allargata all’Inghilterra di Lloyd George  e in seguito anche all’Italia. Dopo diversi contatti i paesi dell’Intesa concordarono di chiedere all’Austria il rispetto delle condizioni già previste con il Trattato di Londra del 1915 (l’Italia avrebbe avuto per compenso Aquileia ed alcune isole adriatiche) , però le trattative si protrassero fino all’estate e a quel punto la situazione dei rapporti tra i vari paesi era parecchio mutata. Infatti, le tumultuose vicende della rivoluzione in Russia avevano consentito una forte penetrazione dei bolscevici,  di cui era nota la forte propensione al ritirarsi dalla guerra  con la Germania. E così gli Imperi centrali  si misero in attesa di questa decisione per loro assai favorevole, al fine di dislocare le truppe nei settori occidentali e meridionali. 

Nel frattempo, in accordo tra gli eserciti dell’Intesa, a metà aprile era iniziata un’offensiva sui vari campi di battaglia in Europa. Quella dell’Italia iniziò il 12 maggio nella zona del  Piave. I primi risultati furono notevoli né furono scalfiti dal tentativo austriaco di una manovra diversiva nel Trentino, presto finita. I successi italiani proseguirono per tutto il mese e si estesero al Carso, facendo fallire le risposte austriache. Però furono inferiori alle attese di Cadorna. A giugno gli austriaci ottenero qualche risultato, seppure effimero, di fronte ai cedimenti di alcuni reparti italiani. Cadorna non riusciva a capacitarsi di tali episodi tra gli ufficiali e le truppe. Considerata la meticolosità con cui preparava le offensive, il loro non riuscire (vi furono pure episodi di ammutinamento) doveva essere attribuito solo a fattori esterni che indebolivano il morale dei militari. La responsabilità era del governo che non arginava la propaganda disfattista  dei socialisti ed anche del Papa che insisteva contro la guerra. Il fatto è che Cadorna si era rinchiuso in una concezione statica del modo d’essere militare e vi si cullava protetto dagli stretti rapporti con la Corona. Per di più il Re era sì molto spesso presente di persona tra le truppe, ma anche lui, vicino a un’idea tradizionale e sorpassata del militarismo, avulsa dal popolo, pareva non cogliere gli eccessi del Generale Cadorna. Il quale intensificò la pratica della decimazione imponendola come un obbligo “quando non era possibile accertare le responsabilità individuali di un determinato crimine“. Cosa che di per sé provocava gravissimi effetti negativi. 

In realtà, Cadorna non riusciva a percepire la dinamica del cambiamento fisiologicamente in essere nella società. Non avvertiva l’impossibilità di mantenere inalterati rapporti e strutture maturati fino a qualche decennio prima. Non perché non fossero abbastanza avanzate o disattente al progresso scientifico. Ma perché stava nell’ordine delle cose sviluppare il mutamento e affidarsi sempre più non a chi, singoli, famiglie o categorie, aveva comandato per diritto divino bensì alle indicazioni e alle scelte degli individui conviventi. Non erano sbagliati gli ideali del Risorgimento e l’impegno a completarlo, lo era il volerlo imporre a milioni di italiani che neppure li conoscevano oppure che li interpretavano distorcendo le ragioni culturali del loro successo. La situazione era poi resa più complicata dal fatto che il suffragio universale aveva nell’immediato favorito tra le forze politiche i movimenti non liberali (socialisti, cattolici, irrazionalisti) che non curavano la maturazione individuale bensì l’ingrossare il gregge dei sudditi fedeli. E che in questo modo rendevano ostico il funzionare del Parlamento e del suo cercare compromessi (proprio perché vi si svolgeva un confronto tra diversi che privilegiavano l’incomunicabilità). 

I politici liberali non contrastavano – come avrebbero dovuto fare per coerenza – una tale impostazione chiusa alla diversità, ed anzi contribuivano a praticarla non di rado. Fu emblematico un episodio di rilievo.  A giugno il Ministro degli Esteri Sonnino emanò il proclama di Argirocastro in Albania. Terminava  con l’appello “tutti accorrete all’ombra dei vessilli italiani e albanesi per giurare fede perenne a quanto viene oggi proclamato in nome del Governo italiano per un’Albania indipendente con l’amicizia e la protezione dell’Italia” . Ora, l’Italia era presente in Albania nell’ambito dell’Intesa, non a titolo singolo. Il proclama trovò un’accoglienza molto fredda dalle altre potenze dell’Intesa (le quali sostennero che il proclama aveva puro carattere militare  e non pregiudicava in alcun modo la futura soluzione della questione balcanica). Ma soprattutto provocò forti proteste all’interno del governo italiano (con quattro ministri dimissionari) e sfociò in un rimpasto pilotato. Insomma, Sonnino non aveva tenuto conto sotto più aspetti della diversità dei soggetti coinvolti, sul piano dell’Intesa e sul piano della composizione del Governo. Ubbidiva solo a quella che riteneva essere in teoria la posizione più opportuna nella prospettiva di libertà dell’Albania, dimenticando che la libertà si costruisce con scelte complesse e non è un atto deterministico. 

Diversamente dal settore terrestre, le battaglie di giugno e di luglio dettero risultati positivi per quanto concerne l’aviazione e la marina.  E proseguirono nei mesi successivi. Il punto traballante restava il territorio nord orientale in Italia. La conferenza dell’Intesa a fine luglio decise che l’Italia avrebbe dovuto predisporre due nuove offensive sull’Isonzo (le numero 11 e 12) per   distrarre le truppe austriache prevalenti sul fronte russo   e, all’inizio della seconda metà di agosto, Cadorna avviò l’offensiva sull’altopiano della Bainsizza (nord est di Gorizia). L’offensiva – nella quale  venne per la prima volta messo in campo il corpo degli Arditi , specializzati nel condurre assalti con coraggio estremo e spirito avventuroso – fu la più massiccia fino ad allora, riportò un successo iniziale, ma si arenò dopo due settimane e venne seguita da un’altra con il medesimo esito. Dai primissimi di settembre, peraltro, era iniziata a profilarsi una nuova situazione, che il Comando di Cadorna non percepì. Gli Austriaci, comunque logorati dagli attacchi italiani, chiesero aiuto alla Germania per sferrare un grande attacco contro l’ala nord dello schieramento italiano, giudicato “manifestamente debole” quanto a consistenza e dislocazione. In poche settimane il contingente austroungarico passò da 23 divisioni e circa 1800 bocche da fuoco a 37 divisioni e oltre 3000 bocche da fuoco.  

Tuttavia Cadorna si fossilizzava su quello che chiamava il disfattismo, sull’opera dei sobillatori tra i ranghi dell’esercito e muoveva accuse al Ministro dell’Interno incolpandolo di troppa tolleranza. Non si accorgeva di cosa si pensasse nel mondo circostante. Le sue convinzioni militari includevano le sue grandi capacità organizzative, ma erano intoccabili e si imperniavano sul dovere, sul prestigio e sulla sacralità di destini del Regno. Cadorna non dava spazio ai caratteri delle persone e non teneva conto di avere un esercito non di professionisti bensì di richiamati. Su questi parametri misurava il senso delle sue offensive, che, al di là delle  gravissime perdite, dovevano essere un obbligo morale, non scalfibile neppure dalla resistenza nemica. Così, ancora una volta non riusciva a vedere per tempo come si muovevano gli austriaci e cosa andavano preparando. Sottovalutò i sintomi di quanto si profilava.

Intanto anche nel paese cresceva il dibattito politico sulla guerra. Erano molto pressanti gli interventisti  e la stampa in loro appoggio, i quali  sostenevano le tesi di Cadorna contro  i disfattisti , contro i pacifisti, contro la debole politica del Ministro degli Interni Orlando e, alla radice, contro Giolitti, che da Cuneo a metà estate aveva ripreso ad esporre le sue tesi: era urgente prendere atto della precaria situazione economico sociale dell’Italia e preparare la pace, tra l’altro per prevenire e scongiurare le tensioni rivoluzionarie che si andavano sempre più  palesando a sinistra, specie a Torino, sull’onda delle speranze suscitate dalla rivoluzione in Russia.  I giornali interventisti specie contro il Ministro degli Interni erano soprattutto il Corriere della Sera, il Secolo, il Popolo d’Italia, il Giornale d’Italia. Il Governo Boselli mantenne la sua linea di fermezza non esasperata in un’ottica del completare il Risorgimento, ma alla Camera il dissenso serpeggiava sempre più e i primi di ottobre si costituì un nuovo gruppo parlamentare formato da un insieme di giolittiani, neutralisti, cattolici, in tutto un centinaio di deputati.  Si dissero intenzionati a “difendere l’istituto parlamentare e le garanzie liberali contro tendenze che sembrano voler sostituire sempre più ai governi parlamentari i governi dittatoriali“. 

Sul fronte, per un mese da metà settembre, ci fu una relativa calma, inframmezzata da scontri di pattuglie e da duelli di artiglierie. A fine settembre, Cadorna avvertì la probabilità di un attacco dei nemici austriaci, ma non tutti ai vertici del Comando la pensavano così.  Quindi Cadorna rinunciò a proseguire nell’offensiva fermata a Bainsizza  e si limitò a predispose “risoluti contrattacchi locali per mantenere la difesa nei limiti dell’indispensabile economia”.   Serpeggiava non poco scetticismo sull’attacco austriaco  e ancora il 21 ottobre l’ufficio del Comando Supremo esprimeva formali riserve  sulla presenza di divisioni germaniche. Finché tra il 20 e il 21 ottobre, alcuni disertori rumeni dell’esercito austriaco segnalarono, carte alla mano, l’imminente offensiva nemica, segnalando luoghi, orari e divisioni coinvolte.  Allora si iniziò a spostare armamenti  e a fare trasferimenti, ma ancora il giorno dopo Cadorna definì “improbabile e, in ogni caso, non temibile un’offensiva austro-tedesca”. Si arrivò dunque alle prime ore del 24 ottobre, incerti sul da farsi.  

L’attacco dell’esercito degli Imperi Centrali iniziò nella notte con furiosi cannoneggiamenti  e l’impiego di granate con gaz tossici, provocando danni gravissimi ai reparti italiani.  La reazione dell’artiglieria italiana fu molto debole e talvolta inesistente (la nebbia ostacolò le batterie inducendole ad un’azione cieca, mentre il nemico colpiva con precisione avendo localizzato tutto prima). Nella giornata le truppe austro germaniche  sfondarono nella zona di Caporetto e iniziarono a dilagare. Un generale italiano scrisse sugli errori commessi : “Troppa grossa artiglieria in posizioni avanzate. Troppi uomini addossati sulle prime linee. Sguarnite oppure vecchie e malandate, le linee e fortificazioni retrostanti  destinate alla difesa successiva. Troppe unità sull’altipiano della Bainsizza, in confronto di quelle messe a custodia della valle Isonzo. Troppo gravitante a destra la II Armata, mentre al centro e al nord si annunciavano gli attacchi nemici in gran forza”.Nella sostanza, la certezza raggiunta per caso all’ultimo giorno, non poteva servire e non servì. Nei cinque giorni successivi la sconfitta si mutò in disfatta . L’esercito pezzo a pezzo si ritirò fino al Tagliamento, arroccandosi sulla riva destra e avvalendosi anche delle ondate di piena che impedirono agli avversari  di attraversarlo. Una buona parte del Veneto era già persa.

Dal Comando, Cadorna emise un comunicato in cui era scritto: la mancata resistenza di reparti della II Armata, vilmente ritiratisi senza combattere, ignominiosamente arresisi al nemico o dandosi codardamente alla fuga, ha permesso alle forze austrogermaniche di rompere la nostra ala sinistra del fronte Giulia” (una tesi talmente surreale che il Ministero la riformulò la violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della II Armata hanno permesso alle forze austrogermaniche di rompere la nostra ala sinistra del fronte Giulia).

Il 25 ottobre vi fu un dibattito alla Camera mentre cominciavano ad arrivare le notizie dal fronte. Un dibattito pacato, dal quale emerse solo il dissenso dei socialisti di Turati. Ma quando si votò la mozione che approvava l’opera del Governo, i voti favorevoli furono  96 e i contrari 314.  Una conferma dei segnali delle settimane precedenti. Boselli si dimise e il Re rientrò immediatamente dal fronte ove si trovava. 

Due giorni dopo il Re dette l’incarico di formare il Governo a Vittorio Emanuele Orlando, sostenitore della guerra ma di origini neutraliste. Il 30 formò il Gabinetto in cui manteneva gli Interni ,  confermava diversi vecchi ministri e tra i nuovi inseriva Nitti quale Ministro del Tesoro, il quale pochi giorni prima intervenendo alla Camera aveva detto “La guerra in Europa è sorta come un grande movimento reazionario, ma finisce come un grande movimento democratico e di libertà. Procuriamo di non metterci contro questa fiumana di uomini che, a guerra finita, tornerà dalla trincea, cerchiamo invece di arginarla”. Posizione non lontana dai giolittiani. In sintesi, il Governo Orlando nacque come un alt alla cedevolezza verso le impostazioni irrazionali dell’interventismo, anche se non ad una esplicita contrarietà delle sue radici. 

Il 3 novembre  l’esercito austrogermanico prevalse nella battaglia del Tagliamento e gli Italiani arretrarono sulla linea del Piave. La Marina pattugliando le coste fornì un contributo forte alla riuscita del ripiegamento in maniera ordinata. Ma comunque  la disfatta aveva assunto proporzioni clamorose nella perdita di uomini (morti, feriti e prigionieri di cui non pochi generali),  di materiali (artiglieria, autocarri, aerei) provocando  la fuga verso la Pianura Padana, di centinaia di migliaia di civili  seguiti da quasi 400.000 profughi dai territori caduti in mano nemica. Il Consiglio dei Ministri si espresse per l’avvicendamento di Cadorna. 

Poi, quasi all’improvviso, nello spirito dei soldati, sferzati dalla gravità dell’insuccesso militare, si avviò un mutamento. Al di là degli ordini del Comando rigidi sulle solite impostazioni disciplinari, iniziò a diffondersi   la consapevolezza che in quella guerra  era in ballo assai di più dell’onore e dei principi del buon guerriero, dal  momento che la posta era il ruolo stesso della società Italia, del suo popolo e dei suoi valori . 

Il 6 novembre a Rapallo si riunirono i  vertici dell’Intesa (per l’Italia Orlando con altri ministri più il sottocapo di Stato Maggiore, per l’Inghilterra Lloyd George e i principali generali, per la Francia il Presidente del Consiglio l’ambasciatore a Roma e il maresciallo  Foch, il capo degli eserciti interalleati) che risultò interlocutoria principalmente perché l’Italia non sapeva fornire informazioni esaurienti circa la situazione al fronte (perciò si decise di riunirsi a Peschiera due giorni dopo per consentire la presenza di Vittorio Emanuele che si trovava al fronte). Stabilì solo di costituire un Consiglio Supremo di Guerra tra i Governi per monitorare mensilmente l’andamento sui campi di battaglia, di cui chiamò a far parte  anche Cadorna, nel mentre tuttavia venne approvato l’esonero da Comandante in Capo.  

A Peschiera , l’8 novembre, il Re riuscì con chiarezza a fornire le informazioni sulla situazione al fronte, con equilibrio ed oggettività. Dette chiarimenti anche sulla  sostituzione di Cadorna , pur della cerchia dei fedelissimi  alla Corona e difeso strenuamente dagli interventisti, con il generale Armando Diaz, da lui preferito appunto perché, non elaborava mirabolanti strategie, ma sapeva capire gli animi dei suoi soldati, fattore essenziale per un esercito di richiamati e non di professionisti (forse fu la  miglior scelta del Re). In un simile clima, fu  presa la decisione fondamentale che Inghilterra e Francia avrebbero fornito truppe ed armamenti sul fronte in Italia, cosa che fino ad allora si erano rifiutate di fare. 

In quelle stesse giornate proseguiva la metamorfosi nei comportamenti delle truppe italiane, che si manifestava in un impegno via via più robusto nelle azioni sul campo. Tanto che l’esercito austrogermanico , all’offensiva fino a Natale, tentò in ogni modo di superare la linea del Piave sullo slancio dei successi riportati dopo Caporetto, ma fu costretto a prendere atto con molto stupore che nell’esercito italiano la mentalità era cambiata radicalmente e che era arduo superarne la resistenza.  Tra l’altro, per l’inoltrarsi dell’inverno e per il logorio di un’avanzata senza supporto logistico sospese la grande offensiva, pensando di riprenderla a primavera, facendo nel frattempo affluire truppe e materiali dopo la chiusura del fronte russo.Un effetto analogo ci fu nei dibattiti alla Camera. In quel periodo divennero assai più concordi sulla necessità di reagire con ogni sforzo concreto (significativi gli interventi di tutti gli ultimi Presidenti del Consiglio, tra i quali Giolitti disse “Non è tempo di discorsi; ma di guardare con la calma dei forti alla realtà e di agire con suprema energia e prontezza”). 

Tra fine novembre e i primi di dicembre si svolse a Parigi la Conferenza interalleata tra i 17 stati aderenti all’Intesa. Venne raggiunto un dettagliato accordo sulle cose da fare sui campi di battaglia. Il 7 dicembre gli Stati Uniti dichiararono guerra all’Austria. Negli stessi giorni la pace della Russia bolscevica con la Germania, galvanizzò il mondo socialista e in Italia irrobustì i socialisti che proclamavano la prospettiva della vittoria del proletariato contro l’ala ancora legata alla concezione riformista all’insegna dell’idea che “l’Austria sarà sempre una minaccia di conflitti perché le “nazionalità da essa incorporate non sono indipendenti“. In ogni caso le posizioni socialiste filo rivoluzionarie restavano una piccola minoranza. Alla Camera, il Governo ottenne una nuova fiducia con l’87% dei voti. Un passo per una concezione liberale coerente.       

4.2 b 2 h  4  L’anno 1918 – I primi di gennaio apparve la pubblicazione fatta in dicembre a Mosca dal Governo bolscevico  del Trattato di Londra del 1915, rimasto segreto fino ad allora.  Venne scoperto che, contrariamente a quanto si era ufficialmente sostenuto, l’Italia puntava, oltre a Trento e a Trieste,  anche ad altri diversi territori (tra cui l’Alto Adige o la. Dalmazia Settentrionale) i cui abitanti non erano italiani rimasti sotto l’Austria dopo la terza guerra di Indipendenza.  Di conseguenza, a Londra l’Italia aveva seguito una politica imperiale e non solo patriottica (vale a dire fuoriuscita dal completare il Risorgimento e tipica dei tradizionali Stati di potere). La cosa non piacque a molti, tra i liberali e nella sinistra. Il Presidente del Consiglio preferì ricordare a tutti che per il momento la guerra non era stata ancora vinta e che porsi gli obiettivi dell’Alto Adige o della Dalmazia era un utile argomento per riuscire a vincerla contro l’Impero asburgico oppressore delle nazionalità. Tuttavia la questione non era pacifica, nel senso che gli alleati erano inclini a rivedere il Trattato di Londra  per far esistere un grande Regno Jugoslavo.  In ogni modo Sonnino ottenne dal Comitato Interalleato il 2 febbraio che il Trattato di Londra sarebbe stato modificato solo con l’assenso dell’Italia. Il vero motivo, disse lo stesso Sonnino alla Camera qualche giorno dopo, è che le rivendicazioni dell’Italia desiderano solo mantenere la sicurezza alle frontiere e non violare i principi di autodecisione dei popoli. 

Intanto a gennaio, l’esercito aveva proseguito a riorganizzarsi a fondo a partire dalla vita di tutti i giorni. Il Generale Diaz fu pari alle attese e si prese cura dei bisogni delle truppe e dei loro cari allargando il periodo delle licenze , bandì le decimazioni, stipulò assicurazioni  sulla vita per ogni soldato, si preoccupò che il rancio arrivasse nei tempi giusti e appetibile, che il vestiario bastasse, che la corrispondenza funzionasse. In più Diaz   si mostrò attento a non far correre rischi inutili ai soldati (la riprova ne fu il ridursi delle perdite umane ad una piccola frazione di quelle dell’epoca Cadorna). Dopo metà gennaio si riaccesero i combattimenti che confermarono il nuovo spirito dell’esercito italiano. Tanto che a fine gennaio le truppe italiane lanciarono   la prima offensiva dopo la ritirata sul Piave ed ottennero anche un buon successo. Il medesimo andamento si ripropose in sostanza nel mese di febbraio. 

Nel medesimo periodo, alla riorganizzazione veniva sottoposta anche la struttura del Regno. Limitando molto la libera circolazione degli stranieri nemici, bloccando il costo degli affitti, requisendo immobili di lusso di proprietà germanica, intervenendo con forza nel calmierare i prezzi di vari generi di consumo, introducendo la tessera di macinazione del grano, la tassa di bollo sui biglietti degli spettacoli pubblici, potenziando la produzione agraria. Inoltre  vennero aumentati gli stipendi ai dipendenti pubblici, le indennità ai ferrovieri, si utilizzarono i mutilati per incitare alla resistenza. Infine fu emesso  il quinto prestito nazionale, che , nel nuovo clima, ebbe un gran successo e  raggiunse i 6 miliardi. Rispetto al picco dell’esaltazione interventista, pareva crescere il riflusso e riprendere fiato l’impostazione politica di tipo liberale. Nonostante, nel primo semestre ’18,  si verificassero non rari bombardamenti su diverse città italiane e in mare venissero affondati una cinquantina tra piroscafi e velieri

Da parte loro gli Imperi Centrali tennero a fine febbraio a Bolzano un vertice di tutti i massimi capi militari austriaci tedeschi ed ungheresi per definire una grande offensiva contro l’Italia, con l’impiego di 60 divisioni. Ciò senza tenere in alcun conto (errore che si rivelerà grave) dei massicci sbarchi in Francia delle truppe e delle armi americane che arrivavano in appoggio all’Intesa. Prevaleva la scarsissima considerazione per l’Italia. A Bolzano fu stabilito di far precedere la grande offensiva da robuste azioni dimostrative al Passo del Tonale (per scendere su Brescia) e in Val Lagarina (per scendere su Verona) mentre l’attacco principale doveva essere sul Brenta e raggiungere in poco più di una giornata il Vicentino;  contestualmente altri attacchi dovevano effettuarsi nella zona di Treviso e nel basso Piave. La preparazione fu estremamente dettagliata, dal punto di vista tecnico   ed altrettanto nella cura dell’aspetto psicologico della truppa (fu stampato un libro minuzioso con due ipotesi finali per gli italiani: il tracollo immediato oppure la disfatta in dieci giorni. In entrambi i casi la conclusione erano ingressi trionfali a Venezia e a Milano). Tanto accurata che venne rinviata più volte e alla fine fissata per il 15 giugno. Si sarebbe attaccato dallo Stelvio agli Altipiani e dal Piave al mare.  Mentre maturava il piano degli Imperi Centrali, tra gli italianiil complesso degli sforzi riorganizzativi dette frutti alla svelta. Sul campo, tra marzo e maggio si erano moltiplicati i successi in diversi singoli episodi via via di maggior importanza. Tanto che all’Italia fu richiesto di inviare truppe sul fronte francese. Ove al momento l’esercito tedesco stava riportando diversi successi su quello dell’Intesa guidata dal maresciallo  Foch. 

Questo nuovo modo d’essere dell’esercito italiano emerse subito non appena iniziò l’attacco degli austriaci (che, per una fortuita azione di spionaggio, non riuscì del tutto di sorpresa). Infatti, quando iniziarono i cannoneggiamenti – dalla Valle del fiume Astico (basso trentino e area del Piave) fino al mare – furono immediatamente contrastati da una consistente risposta delle artiglierie italiane . In più, anche le fanterie austriache non riuscirono ad effettuare il previsto attacco travolgente. La ragione principale fu che le truppe italiane avevano abbandonato la logica delle trincee ed erano preparate a difendersi in capisaldi autonomi lungo un’ampia porzione di terreno organizzata in modo da poter sollecitare se necessario l’immediato intervento dell’artiglieria. Così, su tutto l’ampio arco dei luoghi di battaglia, l’offensiva degli Imperi Centrali trovò in ogni punto resistenze insormontabili. Anche quando riuscirono in tre diversi punti circoscritti ad attraversare il Piave, le truppe imperiali non riuscirono né a consolidare le conquiste né a collegare i diversi territori, e quindi non furono in grado di evitare alla fine di essere ricacciati indietro. In otto giorni la grande offensiva degli austroungarici era fallita, anche per il consistente apporto degli aviatori italiani.  

In conseguenza della vittoria sul Piave,  durante luglio gli scontri nel Veneto furono sempre più favorevoli agli italiani in quasi tutti i punti del fronte (oltretutto arrivarono i rinforzi americani). Ma ci furono ripercussioni anche in Francia. Non solo favorendo pure lì i successi del contingente italiano, ma fornendo motivazioni psicologiche anche all’esercito francese. Come conseguenza, in Francia gli eserciti dell’Intesa si ripresero da metà luglio , ed alla fine del mese iniziarono con successo  la controffensiva che prosegui nei  mesi successivi. Del resto uno scenario simile si stava ripetendo anche sugli altri fronti, come quello albanese ed anche su quello turco. In Albania gli italiani riscattarono la fama assai compromessa dopo Caporetto e ottennero successi ripetuti, in quel periodo e in quello seguente. Nei territori ottomani, insieme ad inglesi e francesi, gli italiani contribuirono a realizzare un’offensiva insistente che portò in tre mesi a notevoli risultati. 

In Italia, questa nuova situazione  allertò il Governo e il Comando Supremo di Diaz.   Oggetto della discussione era il quando lanciare  una grande offensiva contro il nemico.  Nel Governo, come al solito, il contrasto era tra chi voleva un’azione prudente per salvaguardare la piena efficienza delle truppe (ad esempio, il Ministro Nitti e in genere i giolittiani) e chi premeva  per un’azione  il prima possibile che battesse l’Austria ( ovviamente  i Ministri più vicini all’interventismo, come Sonnino , fermo liberalconservatore, oppure Bissolati, acceso socialista riformista). Il  grosso del Comando Supremo  ipotizzava  di  preparare un’offensiva a primavera del 1919. Vi era poi l’insistenza del Capo degli eserciti dell’Intesa, Foch, il quale sollecitava l’offensiva italiana (senza però fornire aiuti appositi di truppe francesi). Diaz , come d’abitudine, era molto cauto e valutava l’ampiezza del fronte , le condizioni materiali delle truppe a disposizione, lo stato dei nemici conosciuto. E  il quadro complessivo della guerra sui vari fronti europei.  

Gli Imperi Centrali  stavano perdendo da ogni parte. In Francia (ove addirittura gli eserciti dell’Intesa erano riusciti a penetrare nel territorio tedesco), in Turchia (ove era minacciata direttamente Costantinopoli), nella penisola balcanica (mettendo all’angolo la Bulgaria, che non a caso, priva di mezzi e abbandonata, firmò l’armistizio il 29 settembre). Visto il quadro (ed in specie la forte sfiducia che risultava serpeggiare in Austria) , Diaz ritenne raggiunte le condizioni minime per agire con un sufficiente livello di sicurezza strategica. A fine settembre dette incarico segretamente al suo Comando di predisporre il piano per l’offensiva. Che nella settimana seguente venne fissata per il 24 ottobre. 

Come scriverà poi il Comando Supremo, le istruzioni per la battaglia erano basatesulla sorpresa e sulla rapidità dell’azione. Quanto alla sorpresa, era assicurata dal carattere stesso della manovra prevista, che si scostava in ogni parte da tutte quelle fino allora eseguite nella guerra. Per ottenere la necessaria e decisa rapidità di sfondamento, contava sull’accurato addestramento delle truppe compiuto per mesi . Lo sfondamento risoluto delle linee nemiche equivaleva  alla vittoria, perché, vinto il primo urto, il nemico avrebbe subito interamente.

La battaglia preparatoria iniziò sul Monte Grappa  la. mattina presto del 24 ottobre con il fitto fuoco dell’artiglieria e l’offensiva di diverse brigate su differenti cime. Anche per le pessime condizioni metereologiche che determinarono la piena del Piave (non del tutto imprevista) e l’impossibilità di effettuare il previsto passaggio di consistenti forze di appoggio, la resistenza del nemico fu fortissima e tenne per tre giorni bloccati gli italiani. Però la loro insistenza nell’azione dimostrativa, fece guadagnare tempo e rese possibile, a partire dalla sera del 26 ottobre, il gettare alcuni ponti sul Piave, prima cinque e altri sei nella giornata del 27, attraverso i quali iniziò a passare sulla riva sinistra la fanteria di diverse Armate. Il 28 ottobre divampò una battaglia molto serrata, il cui fulcro fu la zona di Vittorio Veneto (a nord di Treviso). La resistenza degli austriaci fu per qualche ora molto forte ma, al passar del tempo, cominciò a prevalere la tenacia dei soldati italiani. Il 29 ottobre si profilò nettamente il successo italiano. Il 30 ottobre ebbe inizio la disfatta dell’esercito degli Imperi Centrali (lungo il fronte dispiegava un milione di soldati), che subì sfondamenti in più punti e iniziò a dissolversi. Il 31 ottobre la battaglia era di fatto conclusa,  lasciando in mani italiane molte diecine di migliaia di prigionieri e una quantità imponente di materiale bellico (e nella notte, a meno di 200 km in linea d’ara, a Pola, gli italiani affondarono in porto la corazzata nemica Viribus Unitis).

Un altro membro della coalizione degli Imperi Centrali , la Turchia, firmò la resa il 30 ottobre. E in Italia, l’esercito austriaco ormai certo della sconfitta, chiese dal 30 ottobre l’armistizio che si concluse nel tardo pomeriggio del 3 novembre a Villa Glori (Padova) entrando in vigore dal primo pomeriggio del 4 novembre. Diaz emise un sintetico bollettino di vittoria che chiuse di suo pugno con la famosa frase: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”. Una settimana dopo la resa della Germania completò il tracollo degli Imperi Centrali.

La prima Guerra Mondiale era finita sui campi di battaglia, con il successo dell’Alleanza più sensibile alla libertà dei cittadini. Ma, avendo non poco trascurato la piena coerenza con i principi del liberalismo aperto, lasciava dietro di sé, come in Italia, enormi problemi politici della convivenza che per alcuni decenni pesarono negativamente sulla libertà. Giolitti era stato profetico nella primavera di tre anni e mezzo prima : “La guerra potrà trasformarsi in un danno anche riuscendo vittoriosa”. Un concetto attuale ancor oggi. 

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