Il libro del pensatore americano Michael Walzer “Che cosa significa essere liberale”, uscito quest’anno e in poche settimane ripubblicato da Cortina Editore, è assai interessante, come lo sono sempre stati i suoi scritti. Però il titolo viene eluso in quanto il testo tratta solo di liberale quale aggettivo e non di liberale quale sostantivo (quando usa i termini socialismo liberale o nazionalismo liberale, “il sostantivo indica l’impegno, l’aggettivo ci parla della qualità dell’impegno”). E definire liberale quale aggettivo e non quale sostantivo è un fraintendimento grave che, almeno in Italia, rende inefficace l’azione politica del liberalismo. Se liberale fosse solo un aggettivo, non potrebbe avere una funzione politica autonoma e così non sarebbe in grado di influenzare abbastanza lo scenario del confronto politico, promuovendo la libertà. Azione , oggi, particolarmente necessaria.
Il Capitolo 1 – Il libro di Walzer è illuminante sul perché. Al capitolo 1, scrive: “Il liberale è una persona di modi gentili e mente curiosa…meglio descritto in termini morale che in termini politici o culturali….non dogmatico e non fanatico…che non esclude la rabbia e un feroce realismo”. E precisa che niente “ è imposto dalla morale liberale o dalla sensibilità liberale”. Ma poi argomenta “l’aggettivo liberale non può stare insieme da solo, ha bisogno dei suoi sostantivi, che non saranno mai ciò che dovrebbero essere senza l’aggettivo… l’aggettivo impedisce l’uso della forza e favorisce il pluralismo”. La ripartizione sostantivo aggettivo è l’assunto sbagliato su cui tornerò alla fine della presente recensione.
Il Capitolo 2 – Il capitolo 2 spiega il ruolo dell’aggettivo nel binomio democratici liberali. Inizia dal punto chiave. “Il popolo può autogovernarsi. I governi devono affidarsi al consenso di una maggioranza popolare che si forma attraverso il libero dibattito…L’autogoverno non è tutelato se alcuni governano ma altri sono governati. E’ comunque quel che accade nella maggior parte delle democrazie”. Ci sono quelli che “abitano già nella città senza esserne cittadini. Sono dentro fisicamente ma non politicamente”. Dunque occorre una progressiva inclusione nel tessuto democratico e una politica di reiterazione che non cessa. Perciò “democrazia significa regola di maggioranza…e qui entra in gioco l’aggettivo liberale”. Secondo il quale “le maggioranze possono agire soltanto entro i limiti costituzionali…l’alternanza delle cariche è una normale caratteristica della democrazia liberale”. In sostanza “un sistema che presuppone una società antagonista e pluralista…Uno Stato democratico liberale è progettato per impedire agli amministratori pubblici di violare i diritti degli individui in nome del governo della maggioranza. Un movimento democratico liberale è progettato per impedire ai militanti di violare i diritti dei concittadini”.
Questo passaggio è emblematico. L’autore non chiarisce perché e come l’aggettivo debba legarsi ad un sostantivo per poter funzionare. Qualche pagina dopo va pure oltre, asserendo “il pluralismo promosso dall’aggettivo liberale produce effetti in ogni angolo dello stato democratico. Effetti che creano una società civile meravigliosamente vivace…La società civile di una democrazia liberale non include soltanto i partiti politici e i movimenti sociali ma pure le associazioni”. E prosegue ancora “ciò che l’aggettivo liberale garantisce in modo più incisivo è la libertà, l’apertura della società civile” insomma la piena partecipazione. Peraltro l’autore vuol ”capire se l’aggettivo liberale impone una difesa assolutistica di tutte le libertà”, ben consapevole inoltre che “la democrazia liberale permette e tollera diversi gradi sia di impegno che di disimpegno”. Da qui l’autore si domanda “allora da chi è costituito il popolo? Potrebbe sembrare che l’aggettivo liberale scomponga il popolo…i democratici liberali possono essere meno reattivi alle istanze di un’identità comune, meno disponibili alla disciplina collettiva. Sono i legami stessi di cittadinanza a tenerli insieme….una religione che ha forse un credo ma non una teologia”. Considerazioni acute che magnificano ciò che l’aggettivo liberale produce, senza far cenno al motivo per cui richiede l’appoggio del sostantivo democratico. Anzi, che fanno trasparire un senso di ineluttabile destino dell’aggettivo a produrre anche “cittadini arrabbiati, risentiti e disfunzionali”, cosa cui si può iniziare a rimediare con politiche di inclusioneche rendano ”gli interessi materiali di ognuno ugualmente importanti…e che siano incentrate sulla formazione dei cittadini”. Insomma, sullo sfondo permane il sogno di una società di uguali.
Il Capitolo 3 – Questo capitolo richiama un ampio ventaglio di avvenimenti in vari luoghi ed epoche, ma tratta solo il tema socialismo liberale. Ancora dando per scontato che l’aggettivo ha bisogno del sostantivo. Il capitolo comincia illustrando la necessità che “i democratici e i socialisti liberali sostengano la deferenza giudiziaria nei confronti dei rami esecutivo e legislativo…e che i giudici si attivino nel difendere i vincoli liberali”. Da qui l’autore si interroga “sul tema che i democratici e i socialisti liberali affrontano con regolarità. Quali usi del potere politico sono giustificati al fine di sostenere la democrazia nei momenti di crisi economica, indirizzare il paese verso la giustizia sociale e creare una società egualitaria?” “L’aggettivo liberale impone che qualsiasi azione coercitiva dell’esecutivo sia soggetta al controllo del Congresso, della magistratura e del test politici di un’elezione libera”. Di conseguenza cita diversi noti casi a livello internazionale in vari epoche, pure recenti, in cui questo non su è verificato. In Occidente e in specie nel mondo della sinistra di vario tipo. Peraltro vi sono molti che non condividono tali critiche, poiché sostengono che l’aggettivo liberale “è indisponibile ad immaginare una società migliore ed è soddisfatto di quella esistente”.
Nel complesso, “i socialisti si oppongono radicalmente al capitalismo e immaginano una società più egualitaria…L’aggettivo liberale sta a significare che una società socialista può essere realizzata soltanto con il consenso del popolo così come è qui ed ora e la lotta non può che avvenire democraticamente…Oggi i socialisti liberali sono chiamati ad opporsi a qualsiasi ritorno a politiche autoritarie o totalitarie…non possiamo non difendere la libertà civile borghese”. A questo punto l’autore descrive in dettaglio le vicende (dalla fondazione nel 1954 ai giorni nostri) della rivista americana Dissent, un trimestrale dell’Opinione socialista con indirizzo liberalsocialista, che nei decenni si è trovata a fronteggiare il ricorso ad invasioni concepite per diffondere il rispettivo disegno politico. In larga misura Dissent adottò la dottrina liberale di Stuart Mill, secondo cui “il rovesciamento di un regime autoritario non può che avvenire ad opera dei propri sudditi”.
In sintesi, per Dissent, “l’aggettivo liberale sta a significare che deve esserci spazio perché i socialisti possano trovarsi in disaccordo tra di loro. Comunque “i socialisti liberali si occupano seriamente di uguaglianza, in genere più dei democratici liberali…e si domandano quanta disuguaglianza è compatibile con la visione di una società giusta”. In questo quadro, “la differenziazione del reddito è difendibile finché il denaro dell’altra persona non è convertibile in potere esercitabile su di voi e su di me…Dovremmo pensare al potere politico nello stesso modo in cui pensiamo agli usi del denaro. Le elezioni democratiche sono un modo per distribuire il potere in modo disuguale…Non è una minaccia all’uguaglianza generale, purché il potere sia limitato, cioè non sia convertibile in privilegi negati ai cittadini comuni”. Nella pratica Dissent pubblicò numerosi articoli in difesa del socialismo di mercato, “un socialismo liberale che poneva limiti al potere politico…in un’economia pluralizzata e una società più cooperativa… questa è l’eterna speranza nominata dalla parola uguaglianza…mai più servi né padroni”.
Riassumendo, una concezione largamente dominata dal sostantivo socialista, che utilizza anche l’aggettivo liberale cogliendone l’utilità ai fini dell’aprirsi, senza riconoscergli un ruolo autonomo nel costruire l’istituzione. Non a caso il capitolo 3 termina riproponendo un approccio enfatico al cambiamento climatico. Auspica l’intervento di uno stato democratico con forti poteri regolatori di cui risponde ai cittadini, al fine di arginare la potenziale catastrofe incombente. Anche perché un simile intervento in tema di cambiamento climatico potrà spingere il mondo “nella lunga marcia verso la giustizia sociale”.
Il Capitolo 4 – Questo capitolo tratta dei Nazionalisti e degli Internazionalisti liberali. E adotta il solito criterio del sostantivo e dell’aggettivo liberale. “Il nazionalismo liberale è la più antica forma di nazionalismo…il riconoscimento di una pluralità di “io” collettivi è la sua idea chiave…il nazionalismo liberale richiede una lotta politica contro i nazionalismi illiberali in patria e complicate trattative diplomatiche all’estero con Stati nazione egoisti”. E’ un capitolo incentrato su come, per convivere al meglio, sia fruttuoso – in base alle molte esperienze storiche in svariati paesi del mondo, largamente citate – valorizzare il nazionalismoliberale e la cooperazione attraverso i confini , invece di perseguire l’illusione di un cosmopolitismo che nega l’appartenere ad una nazione. Anche qui, l’autore tende a vedere gli avvenimenti con acume, però senza andare oltre la tradizionale abitudine di cercare una narrazione generale e collettiva che spieghi l’andamento delle cose. Ricorre di continuo all’aggettivo liberale ma non si domanda mai il perché produca pluralismo e con quale meccanismo operi.
Osserva che “il nome della pace è internazionalismo…che impone la collaborazione attraverso i confini…il sostegno ai movimenti di liberazione nazionale”. Distingue tra l’invio degli eserciti all’estero (che rifiuta)e i singoli volontari (che ammette). Difende l’intervento umanitario come progetto internazionalista, dato che ”l’uso della forza armata per fermare un massacro è meglio inteso come difesa della vita e della libertà, quindi un’iniziativa liberale”. E cita la guerra in Kosovo negli anni ’90 e formula una constatazione da non trascurare: “è stata il lavoro di una sinistra multinazionale” . Cosa vera, ma allora non torna sostenere subito dopo che ”l’intervento umanitario è una politica liberale”, asserzione che invece va provata caso per caso, visto che la politica liberale non è separabile dal come si manifesta la libertà del convivere e non prevede stati predestinati ad esserne i fari.
Il volume prosegue approfondendo varie insidie in tutte le parti della terra portate dagli illiberali e dai terroristi contro gli stati governati da forme democratiche e libere. Soffermandosi in particolare sugli aspetti inerenti le migrazioni e i connessi problemi dei ricongiungimenti familiari con chi ha ottenuto l’ingresso. Poi sottolinea come “i nazionalisti liberali dovrebbero insistere sul fatto che è necessario fare spazio anche ai richiedenti asilo e ai rifugiati. Se il loro numero è troppo alto perché un unico paese possa accoglierli, sarà necessario negoziare con i leader di altri paesi per condividere un progetto internazionalista…Il nazionalismo liberale ha bisogno di etnie e religioni liberali tra i cittadini delle proprie minoranze”. Del resto, “se non puntiamo attentamente all’autorità e al vincolo, otterremo qualcosa di molto peggio”. Quanto all’America, “non è uno Stato nazione ordinario…l’impegno nei confronti dei principi della Dichiarazione di indipendenza potrebbe essere definito patriottismo…la dichiarazione di un credo…L’America è una democrazia delle nazionalità…non esiste una maggioranza che può essere chiamata a tollerare le minoranze…esiste soltanto un pluralismo di nazionalità, ogni gruppo (ad eccezione dei nativi americani) vive lontano dalla patria originaria…l’autodeterminazione non è nazionale, è semplicemente democratica”. In ogni caso, annota l’autore, oggi “molti fautori della meritocrazia non sono impegnati nell’egualitarismo della Dichiarazione…Non sono i patrioti che credono di essere…non vivono secondo il nostro credo comune”. Insomma, “l’America è diversa. E’ una società eterogenea …di gruppi dispersi sul territorio e mescolati in una misura che non si ritrova in un alcun altro paese”. Eppure, “il mondo va sempre più nella direzione dell’America…ovunque le nazioni sono messe alla prova dalle nazioni che verranno dopo e dalle minoranze tormentata al proprio interno”.
Il Capitolo si chiude con una considerazione interessante (e non comune) sulla “cooperazione transfrontaliera e sul federalismo come avviene oggi in Europa. Nazionalisti e internazionalisti liberali hanno costruito l’Unione Europea, un progetto che mira a combinare l’autodeterminazione degli Stati nazionali consolidati con una governance paneuropea”. Un simile giudizio (pressoché solitario) coglie il fatto che l’Europa come CEEnacque da un’originale intuizione liberale , che collegava la realtà degli Stati esistenti alla prospettiva del far crescere l’importanza dei cittadini che li abitavano. E viene confermato dall’ultimo periodo del capitolo: “l’UE è un tipo diverso di unione federale e potrebbe indicare forme di vita politica diverse e forse migliori di quelle descritte in questo capitolo”.
I Capitoli 5, 6, 7 e 8 – Questi quattro capitoli – i Comunitari liberali, le Femministe liberali, i Professori e gli Intellettuali liberali, gli Ebrei liberali – se uniti al 9, sono pressoché l’ultimo terzo del volume e adottano anch’essi il solito criterio dell’attribuire un sostantivo all’aggettivo liberale. Solo che ora il sostantivo indica specifiche istituzionali meno generali, il che tra l’altro esprime ancora l’intento di usare l’aggettivo al fine di descrivere una sensibilità più che la cultura del come organizzare la convivenza (in pratica la tradizione prevale sul cambiare).
Il Capitolo 5, Comunitari liberali, è quasi un ossimoro, dato che i comunitari, negando il senso critico dell’individualismo liberale, sono incompatibili con la libertà. L’autore, dopo aver ricordato che il loro profeta, Rousseau, è un esempio di questo aspetto, insiste nell’accostare ai comunitari l’aggettivo liberale, confermando di concepire l’essere liberale una mera disponibilità sentimentale utile ad addolcire le durezze della realtà senza affrontare il problema del limitare il potere pubblico.
Il Capitolo 6, le Femministe liberali, ripercorre soprattutto i decenni da quando, in ambiti variegati, il mondo delle donne è stato l’avanguardia dell’evolversi del modo di considerare le femmine all’interno della famiglia e nei rapporti pubblici. Per lo più un’avanguardia ostile al multiculturalismo, il quale “implica l’accettazione di pratiche misogine all’interno di gruppi religiosi o etnici”. Al giorno d’oggi, le comunità patriarcali “non hanno il diritto legale o morale di opprimere le donne”. Come ovvio il femminismo si impegna a discuterne le pratiche, partendo da due temi “le gerarchie religiose e i codici di abbigliamento”. Cioè di tematiche (dall’esclusione delle donne in molte strutture religiose fino al come trattare le questioni dell’indossare il burqa – tutte cose che richiedono lo stare attenti ai dati concreti senza abbandonarsi a pregiudizi) in cui è essenziale promuovere un continuo aggiornamento dei criteri del vivere in libertà tra diversi, facendo tesoro dell’esperienza.
Il Capitolo 7, i professori e gli intellettuali liberali, è il primo dei due capitoli in chiave autobiografica. L’autore spiega i dilemmi educativi che si pongono alle diverse categorie di docenti. Forse il principale è far coesistere la narrazione dei fatti storici della materia e il presentarla in termini non incontrovertibili, così da accendere il dibattito degli studenti ed evitare di indurre al conformismo verso qualche standard accademico. “Alla luce della lunga storia di disaccordi in quasi tutti i campi accademici, a meritarsi l’aggettivo liberale saranno i dipartimenti pluralisti ed inclusivi…I professori liberali definiscono sé stessi ammettendo di spingersi oltre le proprie conoscenza…Cionondimeno, non considereranno assoluta questa libertà…Gli insegnanti liberali sapranno come imporre la disciplina necessaria all’apprendimento senza reprimere le menti curiose degli studenti adolescenti. I rappresentanti eletti non devono tentare di ostacolare la ricerca”. Le ultime pagine del capitolo richiamano i famosi libri Benda e di Milosz “contro la politicizzazione dell’intelletto e la perdita dell’indipendenza critica”. E la chiusura riprende una citazione classica , “la bandiera dell’indipendenza critica, per quanto stracciata e logora, è ancora la migliore che abbiamo”.
Il Capitolo 8, gli ebrei liberali, è il secondo dei due capitoli in chiave autobiografica. Inizia ricordando che “fino all’epoca moderna la comunità di Israele era unica nel suo genere, definita da una presunta ortodossia teologica e di osservanza…Di fatto, ad ogni epoca corrisposero diversi modi di essere ebreo….La comparsa, nel XIX secolo, degli ebrei riformatori e degli ebrei laici fu una novità assoluta…La questione ora è l’adattarsi del pluralismo ebraico ad uno Stato ebraico moderno e formalmente laico”. La questione cardine è stabilire se Israele debba essere un rifugio per gli ebrei di tutto il mondo.
In base alla legge del ritorno del 1950 “chiunque fosse nato da madre ebrea o si fosse convertito all’ebraismo con una cerimonia ortodossa, era ufficialmente ebreo”. Tuttavia, secondo l’autore “l’idea di Israele come rifugio è l’unica ratio difendibile della legge del ritorno…In altre parole l’ebraicità è determinata dai persecutori degli ebrei”. A questo punto, inizia un ampio e dettagliato excursus sul pluralismo ebraico che caratterizza i molti tipi diversi di vivere il credo. E si afferma che per gli ebrei liberali, “ciò che conta è accettare la differenza come buona cosa, senza questo pensare di adottarla”. Il successo degli ebrei in Israele “metterebbe fine al potere rabbinico” e farebbe avvicinare l’organizzazione religiosa al separatismo dell’America.
Qui il separatismo ha quattro principi rigorosi. Per il primo “ il potere coercitivo dello Stato non può essere utilizzato a favore di alcun religione…l’assenza della coercizione statale e del sostegno statale alla coercizione religiosa crea un regno di libertà”. Per il secondo “i gruppi illiberali sono tollerati dallo Stato ma fino ad un certo punto”. Per il terzo “la religione civile finanziata dallo Stato deve essere autenticamente civile…Tutte le religioni sono rappresentate, nessuna è promossa”. Il quarto “ richiede l’accettazione del carattere non conclusivo e tollerante di tutte le argomentazioni…Storicamente, quasi tutte le ortodossie religiose sono state ostili alla democrazia…la parola di Dio e le leggi di Dio non sono soggette a dibattito e revisione popolare…L’idea di alternarsi con gli avversari politici è cruciale per la politica democratica”.
L’autore riflette quindi sul separatismo americano, osservando che “i requisiti culturali del separatismo non vietano riferimenti religiosi , purché non si condannino o non si escludano minoranze religiose. Dovremmo chiamarlo separatismo liberale, ove l’aggettivo liberale agisce contro qualsiasi tipo di assolutismo. Contro ogni chiusura illiberale, cerchiamo un rimedio costituzionale”. E subito dopo illustra il tentativo in corso (lui e suoi amici) di elaborare il rapportarsi con la tradizione ebraica in un’ottica liberale, che ne preservi la continuità delle discussioni con interpretazioni molteplici. E ribadisce con svariati esempi ed aneddoti, “di credere nella possibilità di integrare le istanze morali dei profeti con il realismo necessario alla sopravvivenza”.
Il Capitolo 9 e la valutazione complessiva del volume – Il Capitolo 9, Chi è e chi non è, costituisce, in poche pagine, l’emblema della propensione politica dei socialisti ad applicare le idee e le speranze socialiste in chiave impositiva alle istituzioni in cui operano (un’onda che coinvolge anche i socialisti sedicenti liberali i quali, nell’intento umano, lo sono veramente). Lo comprova l’avvio del capitolo, quando l’autore fa una serie di domande sul ”come si applica l’aggettivo liberale a figure storiche che incarnano quelle che oggi consideriamo contraddizioni radicali “. E annota “ se questi uomini facessero capolino tra noi oggi, dovremmo negare loro l’aggettivo”. Così applica il criterio colpevolizzante dei social media, un criterio che è illiberale perché non tiene conto della differenza di epoca e pretende l’eternità. L’autore dice di usare le domande per stabilire se esista una versione razzista (oppure antisemita, islamofoba, omofoba, imperialista o altro) che sia liberale. Ma con un simile atteggiamento, lo voglia o no, introduce la rigidità del modo d‘essere liberale una volta per sempre, lo rende ideologico e così esce dalla concezione liberale.
Del resto, Walzer conferma anche nell’ultima pagina la tesi del libro: non vuol ricorrere al sostantivo liberale. Scrive che l’aggettivo liberale “per tutti i sostantivi cui si applica , porta con sé varie qualifiche liberali” che possono indebolire pericolosamente il sostantivo. E chiosa “l’aggettivo non deve indebolire il sostantivo, ma non ho sotto gli occhi molti casi di questo tipo. E’ più importante sottolineare il buon lavoro che svolge l’aggettivo”. Per finire dopo poche righe, con le parole “l’aggettivo liberale è la nostra arma più importante”.
La valutazione complessiva di questo libro è che sarebbe un lavoro di gran rilievo, se non fosse che elude il titolo. Non è un caso. E’ un libro che rifiuta di concepire la parola liberale come sostantivo della politica. Il motivo emerge chiaro dal contesto. Esprime in ogni riga la convinzione che la politica sia un impegno volto ad applicare il libro sacro delle verità sul mondo, quelle conosciute per esperienza e quelle per le quali si ricorre alla ferma speranza della ideologia religiosa o civile. Un’applicazione con il corollario che occorre ubbidire chi rappresenta quel libro sacro ed esercita il potere conseguente. Ebbene, una simile convinzione è l’opposto di quella liberale.
La convinzione liberale non è una teoria, è il metodo dell’osservare sperimentale gli avvenimenti reali nel tempo e il funzionamento delle relazioni interindividuali. Perciò aborre l’idea dell’affidarsi allo sperare. In base all’esperienza, il liberale ha enucleato tre principi: libertà, individualismo e diversità. Più le regole pubbliche che, di volta in volta, sono indispensabili perché queste tre parole siano rispettate nel convivere istituzionale del momento. Il mondo è composto da individui liberi diversi al passar del tempo. Perciò il cambiamento è la fisiologica modalità di funzionamento della vita sulla terra, che di continuo ci circonda. Dunque i liberali rifuggono dai testi sacri, dall’evocare l’unità indistinta, dal perseguire il collettivismo, dal pretendere la comunità, dal cercare il potere elitario. Invece si impegnano costantemente per costruire istituzioni imperniate sui singoli cittadini che esercitano il rispettivo spirito critico, al fine di migliorare la convivenza nel tempo.
Il cittadino liberale promuove la partecipazione, ma non quella del presenziare e basta. La partecipazione liberale pensa al dibattito come premessa inscindibile dal decidere, che è seguito dal verificare il risultato della decisione e dopo dal correggerla, se necessario. E poi ricominciare. Questo meccanismo, Walzer non lo coglie. C’è un brano illuminante nel capitolo sugli ebrei liberali: “ fintanto che sono impegnati a prendere una decisione e fintanto che sono ancora indecisi, rimangono ebrei liberali”. Tale brano confonde l’uso del senso critico con l’indecisione. Mentre il senso critico liberale funziona solo come componente del decidere. Il meccanismo liberale è inscindibile dai tre principi con le regole che li attuano di volta in volta, e si adatta nel tempo secondo le scelte dei cittadini. Perciò liberale deve essere un sostantivo della politica, peraltro da riscoprire di continuo osservando gli avvenimenti della vita (qui sta il netto distacco dei liberali dall’ideologia). Walzer condivide che non si può governare con le ideologie da sole ma non arriva ad inquadrare la funzione metodologica dei liberali (per lui anche il liberalismo è un’ ideologia) e si affida all’artificiosa congiunzione dell’aggettivo liberale al sostantivo socialista, per trasformarlo in termini aperti e pluralisti (frenando però la forza liberale).
In aggiunta, va tenuto conto di un altro aspetto decisivo. Scoprire il sostantivo liberale non può dare le certezze del libro sacro e di un sistema deterministico. Perché per governare il convivere democratico, la chiave comprovata è il libero conflitto secondo le regole tra i cittadini diversi che vi operano. E le regole si incardinano sulle decisioni prese dai cittadini mediante il loro voto. Da questo meccanismo, derivano scelte variabili (perché ogni cittadino è diverso e non è epoca di plebisciti), che tuttavia nel tempo sono sperimentalmente le più adatte – almeno fino ad oggi – a migliorare le condizioni per stare insieme.
Qui emerge un altro aspetto essenziale dei principi liberali. Siccome nella libera democrazia le scelte si fanno a maggioranza dei cittadini conviventi che votino o no, a lungo (permanendo la chiave ideologica) si è ritenuto indispensabile che un gruppo politico per poter governare raggiungesse da solo la maggioranza degli eletti. Un siffatto risultato dipende, è ovvio, dal sistema elettorale usato (qualora sia il proporzionale, è pressoché impossibile, qualora sia un sistema di collegio, dipende da certe condizioni quadro). In ambedue i casi peraltro è assai utile che i gruppi politici, e poi gli eletti, stabiliscano tra di loro e tra le loro rispettive proposte (in via analogica alle relazioni intercorrenti tra i diversi cittadini) una rete di alleanze, preferenziali o meno, e loro tramite, per mezzo di compromessi, formino un programma di governo che alle Camere abbia la maggioranza dei voti. Con tale procedura non si mischiano sostantivi ed aggettivi (il sistema usato da Walzer al posto delle alleanze), e si rendono possibili scelte equilibrate adatte alla convivenza pluralista tra cittadini diversi. Scelte che l’ideologia non può fornire e che la presenza liberale è indispensabile per attivare (motivo base per considerare liberale un sostantivo politico). C’è un solo passaggio del libro in cui Walzer, a conferma del suo acume, approda all’idea di liberale come sostantivo. Quando rileva, in chiusura del Capitolo 4, che l’Europa è figlia di un’originale intuizione liberale e che perciò “l’UE è un tipo diverso di unione federale e potrebbe indicare forme di vita politica diverse e forse migliori”. Purtroppo, come si dice, una rondine non fa primavera.