Sul tetto agli stipendi pubblici

In vista dell’invio alle Camere della legge di bilancio 2022, è emersa una questione  non nuova, che richiede l’attenzione di chi è convinto del ruolo dello Stato nel garantire la scorrevolezza delle relazioni tra i cittadini.   

Un antefatto. Sei mesi fa, il Presidente della Agenzia per la Rappresentanza Negoziale Pubbliche Amministrazioni (ARAN), Antonio Naddeo ­–­  un dirigente della Presidenza del Consiglio (già  Direttore del Dipartimento per la Funzione Pubblica),  ben inserito da un ventennio nella stessa ARAN, di cui è stato anche Commissario un decennio fa, e nominato Presidente a giugno ‘19 all’epoca della Ministra Stefani, Lega  –  disse al Messaggero cose assai discutibili. Erano un attacco frontale di un dirigente pubblico alla linea seguita dal Governo Monti e da quelli successivi circa lo stipendio dei dirigenti della Pubblica Amministrazione. Quella di porre  un tetto per tali stipendi, che all’inizio venne individuato nella retribuzione del Primo Presidente della Cassazione e poi ridotto a quella del Presidente della  Repubblica, cioè 240 mila €, vigente tuttora.

All’epoca, Naddeo sostenne che il tetto alle retribuzioni ha causato un paradosso, con lo schiacciare verso l’alto le differenze tra le diverse posizioni, di chi già era al limite dei 240 mila € e di chi  partiva più in basso. Così il tetto avrebbe svantaggiato le posizioni apicali, rendendo più difficile l’attribuire incarichi di alta responsabilità, che il limite alla retribuzione rende comparativamente meno convenienti. “I dirigenti di seconda fascia, i direttori generali e anche i capi dipartimento dei vari ministeri crescono i loro stipendi perché i contratti collettivi dei dirigenti garantiscono degli incrementi”. La conclusione era che il tetto andava rivisto.

Il Governo non replicò, restando alle decisioni dei predecessori, che la Corte Costituzionale – attivata da vari ricorsi di alti dirigenti – aveva già legittimato con la sentenza  124/2017 . “Nel settore pubblico non è precluso al legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole….. Tale norma si inquadra in una prospettiva di lungo periodo”. Oggi il limite dei 240 mila € è esteso a tutta l’amministrazione pubblica (magistratura esclusa),  alle autorità indipendenti, alle società partecipate non quotate e alla Rai, dipendenti e consulenti. Dopo sei mesi, la posizione dell’ARAN è rimasta ambigua. Sul suo sito ufficiale si può leggere un’altra dichiarazione del Presidente. Il tetto retributivo schiaccia le retribuzioni in alto e c’è il paradosso che il capo della Protezione Civile, con tante responsabilità, guadagna come un altro capo dipartimento che ha meno responsabilità.

In tale contesto, sul tavolo del Consiglio dei Ministri del 28 ottobre nella Legge di Bilancio è spuntato (anonimo) un comma (il 4° dell’art.153 sui rinnovi dei contratti della Pubblica Amministrazione) in cui era prevista una deroga per gli alti stipendi. Avrebbero potuto essere “rideterminati” mediante un decreto del Presidente del Consiglio. Per fortuna questo comma è sparito (anonimo)  dalla versione finale del testo trasmesso al Parlamento. Considerati gli antefatti, risulta peraltro chiaro come non ci sia certezza che la questione “tetto agli stipendi della PA” sia davvero chiusa. Perciò è indispensabile che nell’esame in aula, i parlamentari esercitino un’attenta vigilanza per sventare le manovre che la  tentacolare lobby  della dirigenza pubblica può mettere in campo (approfittando della contiguità ai luoghi ove si decide). Il gioco oltrepassa gli aspetti sindacali e c’è in ballo la conferma del ruolo essenziale delle pubbliche istituzioni.

Al contrario di quanto scrivono i lobbisti, il tetto agli stipendi della PA non è una retorica demagogica e pauperista per contentare gli avversari della casta. E neppure un’espressione di socialismo. E’ un provvedimento necessario in una società libera per impedire l’assalto alla macchina istituzionale che privilegia chi equipara Stato e privati come datori di lavoro. E’ un assalto dissennato perché in pratica rinnega il ruolo delle istituzioni pubbliche.  La funzione distintiva dell’istituto liberaldemocratico sta nell’attivare al meglio la convivenza aperta  tra le libere espressioni dei cittadini individuo. Per questo i compiti dei dipendenti del settore pubblico non sono confondibili con quelli  del settore privato. Per l’ovvia ragione che il successo della funzione pubblica non si misura con la capacità creativa e con l’iniziativa economica, né dell’istituto in sé né dei suoi dipendenti. Facendo dello Stato una struttura comparabile a quelle private (sogno dei liberisti), se ne farebbe un carrozzone inutile e indebitamente concorrente sui mercati professionali.  

Lo Stato deve mantenere un ragionevole equilibrio tra le retribuzioni pubbliche e quelle private senza confondere i due ruoli. Per la funzione istituzionale esercitata, gli alti dirigenti della Pubblica Amministrazione dispongono  di  poteri molto più estesi e penetranti di quelli del settore privato. Proprio perché rappresentano la complessiva struttura dello Stato (il che fornisce un automatico valore aggiunto ai dipendenti pubblici). Ciò non va utilizzato quale unità di misura  per determinare la retribuzione in base al merito, alla competenza e alle responsabilità assunte, come in un rapporto di lavoro privato. Siffatti criteri servono per l’equilibrio interno all’Amministrazione Pubblica nei compensi comparativi per l’esercizio del ruolo. Stando nella logica del tetto agli stipendi, la cui vetta non può che essere il Presidente della Repubblica.

Agitare la questione dello schiacciamento delle retribuzioni dei gradi inferiori su quelli superiori, esprime solo un distorto sindacalismo che, nella corsa al rialzo, annulla la funzione pubblica dei dipendenti della PA senza valutarne le specifiche caratteristiche, a cominciare dalla superiore stabilità del posto e dai riconoscimenti non economici al compito svolto. La questione dello schiacciamento, semmai, solleva la necessità di ribadire che il tetto agli stipendi apicali va rapportato per analogia ad ogni livello tipologico, nella struttura base e nelle partecipate periferiche.

In conclusione, il tetto degli stipendi della PA è un cardine della libera convivenza fondata sul cittadino, che fa le scelte chiave e pretende dallo Stato un servizio differente da un’azienda privata ed erogato da dipendenti inquadrati in coerenza.

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