Non usare Dio in politica

 

Scritto per la rivista LIBRO APERTO

Il più recente saggio di Gian Enrico Rusconi spiega con lucidità e in dettaglio perché nelle decisioni pubbliche è bene “Non  abusare di Dio” (Rizzoli, marzo 2007, € 12,50). E lo fa restando attento non soltanto alle ragioni di chi ne è già convinto, ma pure alle tesi dei religiosi-di-chiesa secondo cui anche le democrazie devono fondarsi fuori di sé ed ancorarsi a Dio. Questa impostazione lo rende un libro prezioso per argomentare a sostegno della laicità delle istituzioni. Caso mai, volendo cercare il pelo nell’uovo, si potrebbe cogliere un eccessivo focalizzarsi sulla religione-di-chiesa, che induce una sottovalutazione operativa della asimmetria italiana tra laicità e religione-di-chiesa nonché della ragion d’essere laica.  Ne parlerò nel finale.

 

Il saggio si articola in una introduzione, sette capitoli ed una conclusione. Nella introduzione, viene messo a fuoco il senso dell’invito a non abusare di Dio  distinguendo tra sfera pubblica, nella quale si confrontano tutti, e discorso pubblico, che mira strategicamente alla decisione politica. Nel discorso pubblico, non si devono usare argomenti religiosi. Farlo, significa negare il principio dell’autonomia razionale del cittadino, introducendo l’idea che per decidere occorra partire dal riconoscimento di Dio. E ciò equivale ad annullare la democrazia laica dei cittadini, credenti, non credenti o diversamente credenti, che invece assume le decisioni circa la convivenza come se Dio non ci fosse. La capacità della religione-di-chiesa italiana di stare sulla scena culturale e mediatica  è così forte che in campo laico si fanno più frequenti voci che contestano la legittimità stessa della presenza della Chiesa nella sfera pubblica. Rusconi propone piuttosto di armarsi di strumenti critici più sofisticati per argomentare in modo alternativo e propositivo, anche tenendo conto che la distinzione laica tradizionale tra privato e pubblico ha cambiato senso. “Oggi il confine passa tra il diritto della persona di disporre incondizionatamente delle sue risorse generative e la necessità di una normativa generale che impedisca effetti degenerativi”. Gli italiani non hanno più le medesime idee sui riflessi pubblici della loro vita privata, su questioni come vita/morte, famiglia, ingegneria genetica, e guardano, anche senza dichiararsi credenti, al magistero della Chiesa come punto di riferimento in problemi morali di rilevanza pubblica. Per questo la Chiesa assume un’influenza legislativa che è urgente contrastare. Però il modo di farlo è ricreare per i principi della laicità una cultura ed una capacità comunicativa pubblica più solide. “Il criterio-base della laicità consiste nella autonoma determinazione da parte dell’individuo delle norme di comportamento morale e quindi della loro istituzionalizzazione in vista della creazione di un ethos pubblico…E l’ethos pubblico in una democrazia pluralista deve tener conto degli ethos privati divisi e divisivi che di fatto già esistono nella società, implica sensibilità reciproca tra i cittadini… In un parola, ethos pubblico è senso della cittadinanza”. Del resto, per Rusconi l’autonomia di giudizio e la libertà di coscienza individuale si misurano sulle grandi questioni etiche del nostro tempo. Dunque “l’autonomia del laico non è affidata a insindacabili valutazioni soggettive, bensì a motivazioni che sono aperte allo scambio di ragioni con altri verso cui si ha pieno rispetto. La laicità non è un semplice atteggiamento privato… E’ nello spazio pubblico che acquista pieno senso la laicità”.

 

Questa introduzione sintetizza la tesi del saggio. Che poi viene corroborata nei capitoli successivi. A partire dall’analizzare la principale accusa fatta ai criteri di definizione della laicità come autonomia del comportamento morale: sganciandosi dal trascendente, porterebbe all’immoralismo. La religione-di-chiesa rivendica una competenza pressoché esclusiva nel discorso sull’uomo e, ripetendo l’errore dei tempi di Galileo, riconosce valida la ricerca scientifica solo in quanto compatibile con il dato etico-religioso. Altrimenti si arrocca in atteggiamenti di catastrofismo morale. Il riflesso di ciò sull’etica pubblica è che la religione-di-chiesa chiama i credenti al riconoscimento della sua autorità non soltanto su temi religiosi, ma su qualunque argomento politico e culturale, specie attinente la natura umana. Nonostante avanzi la secolarizzazione , in Italia resta molto radicato l’omaggio alle autorità della Chiesa, che per questo può gestire paternalisticamente comportamenti difformi e può rimproverare ai laici non l’ateismo ma l’individualismo e il relativismo che mina la possibilità di solidi valori comuni. Rusconi cita uno scritto del cardinale Scola in cui afferma apertamente che “la legittimità del ricorso ad argomenti religiosi in ambito legislativo non è data dal fatto che sono religiosi, ma dal fatto che senza di essi la legge sarebbe dotata di troppo scarsa efficacia sociale”.

 

Rusconi controbatte che il laico possiede un insieme di certezze morali e conoscitive che sono più che sufficienti per delineare un’etica pubblica. Gli strumenti del laico sono il metodo razionale e la ragionevolezza. Ragionevolezza da intendersi come esercizio della razionalità temperato dalla prudenza morale, così da evitare di assolutizzare criteri e risultati della scienza, che pure della razionalità è la forma più alta.  Munito di questa ragionevolezza, il laico costruisce l’idea della natura umana in base a visioni culturali storicamente determinate. Ed è proprio questo  il punto in  cui  si pone in contrasto insuperabile con chi pretende di imporre l’idea della natura fondata in Dio e che a tal fine vorrebbe limitare l’autonomia degli altri cittadini con differenti convinzioni.  Il laico non nega né il ruolo storico del riferimento a Dio nel processo di civilizzazione dell’uomo né il diritto di opinione di chi intende l’uomo come creatura. Afferma però che oggi la questione della natura e la questione dei diritti dell’uomo si sono separate dalla questione di Dio. E chiede che l’uomo e la donna religiosi riconoscano che, nell’etica pubblica, non vi è altro punto di appoggio se non l’autonomia della ragionevolezza  umana. Ciò è essenziale per “porre il laico e il credente-di-chiesa sullo stesso piano pur partendo da motivazioni divergenti”. Ambedue possono argomentare in modo autonomo  il senso morale del loro mondo personale e collettivo. Appunto come se Dio non ci fosse, oppure, forse più esattamente,  come se la Chiesa non ci fosse.

 

Questo riconoscere la centralità della ragionevolezza umana è tanto più importante oggi che l’espandersi della secolarizzazione si coniuga con la ripresa di un interesse religioso centrato sulla rilevanza mediatica della Chiesa-istituzione “monopolizzata dalla figura e dal ruolo del pontefice e su un ritualismo di ritorno accompagnato da sostanziale afasia teologica”. Al fondo la Chiesa-istituzione offre consulenza morale e una guida autoritativa dei comportamenti interpersonali privati su cui fondare valori civici più generali. Rusconi si interroga se così facendo la Chiesa-istituzione non intenda svolgere una funzione di religione civile nonostante che la religione civile, seppure nelle due versioni del tutto diverse, quella americana e quella francese, dovrebbe essere pur sempre sinonimo di senso civico tra i cittadini , largamente condiviso, pluri e meta-confessionale. Cioè un qualcosa che in Italia non sussiste. Le ragioni sono complesse. Risalgono al divorzio risorgimentale tra liberalismo politico e cattolicesimo romano e si sono perpetuate nel tempo in forme nuove, anche parallele al processo di secolarizzazione e al formarsi delle due grandi subculture socialista-comunista e democristiana, ma costantemente “mortificando il senso di identità nazionale degli italiani sacrificato non solo a schieramenti di parte politica ma proiettato anche verso sensibilità solidaristico-universalistiche e/o internazionalistiche”. Dunque la Chiesa-istituzione può offrire una funzione di supplenza della religione civile che è sostanzialmente  differente dalla religione civile all’americana. Non a caso “nelle esternazioni pubbliche dei politici italiani è rigorosamente assente ogni accenno religioso diretto (neppure biblico, come è consuetudine in America), mentre vi compare il riferimento al magistero della Chiesa”.

 

Una simile tendenza è favorita anche dai cosiddetti atei devoti ( o meglio laici pentiti) che “puntano su argomenti storico-identitari, in genere abusando del tema delle radici cristiane, sufficientemente generici per non essere contestati” nonché dalla ripresa del classico nesso tra religione civile e patriottismo ( dalle iniziative simboliche del Presidente Ciampi, alla opposizione alle spinte secessionistiche del leghismo, al patriottismo del lutto in occasione delle esequie a militari caduti in missioni all’estero). E rientra nella medesima tendenza la proposta del crocifisso come simbolo nazional-popolare, avanzata  giocando appunto sull’equivoco circa i contenuti specificatamente religiosi intesi come rappresentazione dell’amore universale (mentre le altre religioni lo vedono solo come simbolo cattolico) ed usati come forgia profana di identità collettiva (“noi” e “loro”).

 

Questa sorta di ritorno dall’esilio (rispetto alla scena pubblica) delle religioni caratterizza le società post-secolari. In esse ” il credente ha imparato a fare i conti con le verità/certezze altrui e rinuncia ad imporre la sua verità religiosa in senso dogmatico; insiste però nel presentare i valori morali da lui difesi non semplicemente come naturali ma come indispensabili per tenere assieme la società”. In sostanza è stato fatto proprio l’assunto del costituzionalista cattolico tedesco Böckenförde secondo cui “lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti normativi che non può garantire. E’ questo il grande rischio che ha corso per amore della libertà”. Una tesi che oggi viene letta nel senso che “la religione (cristiana) rivendica di garantire lei stessa i presupposti normativi dello Stato liberale senza negargli la sua laicità”. La posizione di Böckenförde viene criticata da un importante filosofo tedesco , più di parte laica, Habermas, però con argomenti che, dice Rusconi, sono a prima vista lontanissimi eppure, esaminati più da vicino, sono assai meno distanti. Habermas esclude che la forza legittimante del procedimento democratico possa essere una morale preordinata al diritto, però insiste sulla necessità che sia consentito ai credenti di esprimersi come tali anche politicamente, traducendo in termini politici secolari il loro linguaggio di fede. Su tale punto, osserva Rusconi, Habermas non indica concreti riferimenti pratici di come ciò possa realizzarsi senza eludere il confronto quotidiano di opinioni pubbliche che mirano a deliberazioni politiche.  Per questo non paiono del tutto incompatibili la concezione proceduralista di Habermas e l’esigenza di trovare una comunanza pregiuridica di tipo religioso sostenuta da Böckenförde. Fatto sta che su questo terreno, si è inserita la predicazione del cardinale Ratzinger prima, e poi del pontefice, per introdurre il tema dell’identità cristiana dell’Europa, rivendicando le radici cristiane come rimedio alla anomalia della secolarizzazione. Al punto che “la mancata menzione pubblica di Dio viene senz’altro equiparata alla espulsione di Dio dalla vita sociale…con la conseguente autodistruzione dei principi di libertà”. Puntuale, Rusconi fa osservare che “la laicità europea non coltiva alcuna ostilità verso la religione cristiana, ma diffida che questa possa essere trasformata in identikit culturale da spendere sul mercato delle identità nel contesto dello scontro di civiltà”.

 

Al fondo, il nodo ineludibile resta quello del modo di intendere la natura umana. Per la religione-di-chiesa, la natura umana è iscritta nella condizione di creatura e dunque è ontologicamente trascendente. Per il laico, l’uomo è parte della natura ed immerso in un processo fisico evolutivo che lo coinvolge e che lui stesso può esplorare,  ciascuno utilizzando la propria esperienza identitaria profonda. Non c’è spazio per dimensioni ontologiche sopra la natura. E contrariamente a quanto denuncia il magistero della Chiesa, ciò “non comporta affatto la perdita di criteri fondanti dell’etica. Questi si ritrovano interamente in quello che oggi si usa chiamare lo spazio delle ragioni in cui si radica il concetto di libertà”. Che può dirsi immateriale, ma non è soprannaturale. Analogo approccio emerge con forza dall’insostituibile capacità esplicativa della evoluzione definita da Darwin e confermata nei decenni da innumerevoli ricerche. La negazione di un qualsiasi finalismo intrinseco al processo evolutivo apre un quadro non riducibile al concetto di determinismo: “più della necessità di ferree leggi cosiddette naturali conta la probabilità degli accadimenti e delle loro conseguenze… Escludere la presenza diretta di Dio dallo sviluppo evolutivo del mondo e dai processi biogenetici umani, significa far professione di ateismo ? O non si tratta piuttosto di un’operazione analoga, anche se concettualmente ed eticamente assai più impegnativa, all’esclusione diretta di Dio dal funzionamento del cosmo fisico, operata secoli fa dalla rivoluzione copernicana e galileiana ?” .

 

Rusconi si richiama non tanto al naturalismo scientista (che nega legittimità conoscitiva ad approcci diversi dalle scienze naturali) quanto al naturalismo liberale “che ritiene che nello studio dell’uomo l’approccio delle scienze naturali debba integrarsi con un discorso che riconosca le dimensioni irriducibili del significato e della intenzionalità, e quindi dell’etica, dell’estetica, dell’ermeneutica”. Quest’ultimo corrisponde al fatto che la scienza si fonda sul riconoscimento in partenza dei propri limiti in specie etici, senza che ciò sia un segnale di una trascendenza immediatamente traducibile in codice religioso. Non si può ” bloccare la possibilità di discussione e di approfondimento conoscitivo alla luce dell’apporto delle scienze”. Qui sorge, nel discorso pubblico, il punto critico per il credente. Non riesce ad argomentare – se non in termini di pura fede – il nesso tra creazione, sia pure rivisitata alla luce della teoria evoluzionista, e la teologia della caduta e della redenzione. E ancor più non riesce a mantenere la dimensione antropologica e morale di un Dio legislatore. Rispetto alla classica tradizione giudaico-cristiana, dice Rusconi, è stato tacitamente abbandonato il paradigma del ciclo negativo peccato-morte-senescenza del mondo, che è tutt’uno con l’esperienza del male, per passare alla dottrina del primato della vita, con cui il ruolo di corruttore della natura passa dal peccato originale alle biotecnologie. Il paradigma è cambiato ma si è reintrodotta la presenza diretta di Dio. Benedetto XVI ha chiamato gli embrioni “piccole creature umane non nate, formate dalle mani del Signore e circondate dal suo amore”. Rusconi si chiede: “non ritorna fuori qui una ingenua immagine antropomorfica di Dio, un paradossale declassamento dell’opera divina a operazione di laboratorio? Dopo il Dio orologiaio, abbiamo il Dio bio-ingegnere ?”.

 

In realtà, afferma Rusconi, “la natura-uomo non è né uno status ontologico né un insieme di protocolli scientifici ma il criterio etico che guida il suo comportamento morale privato e pubblico traducibile anche in forme giuridiche… Libertà è la capacità di orientarsi secondo un senso intenzionale del soggetto-persona in un mondo contingente”. Non a caso, Rusconi  osserva che alla negazione della libertà si può arrivare non solo muovendo da un approccio ontologico religioso ma anche da un approccio naturalistico scientifico deterministico. In Germania, nel corso di una significativa polemica  tra filosofi e neuroscienzati, questi ultimi “negano la libertà dell’uomo semplicemente perché non colgono in nessun processo o sistema neuronale un”io” o un “centro di coscienza”. L’obiezione di Rusconi è che “per capire il comportamento cognitivo umano occorre fondere la prospettiva dell’osservatore con quella del partecipante; senza intersoggettività dell’intendersi non c’è oggettività del sapere” e che  sono “ineludibili le regole comunicative del discorso pubblico” in cui  la libertà è assunta come postulato.

 

Rusconi passa ad osservare che ” il nucleo forte del contrasto tra le teorie dell’evoluzione e le dottrine della creazione non è cosmologico ma etico…La messa in discussione della tradizione giudaico-cristiana non investe tanto la plausibilità o meno della narrazione della creazione dell’uomo e della donna, ma la narrazione che riguarda la disobbedienza e la caduta. Qui diventa decisiva la intenzionalità divina…E’ su questo punto che le spiegazioni creazioniste e quelle evoluzioniste diventano tra loro incompatibili… La connessione originaria tra colpa, peccato e male rimane costitutiva di ogni visione della redenzione. Nella narrazione biblica c’è un inequivoco legame tra la disobbedienza (presentata come un libero atto di volontà) e il desiderio di attingere all’albero della conoscenza, come se il desiderio di conoscenza fosse in sé segno di hybris….Le spiegazioni evoluzioniste parlano di un lunghissimo, tortuoso, contraddittorio, autocorreggibile ma sempre reversibile processo di umanizzazione… La Chiesa sembra disposta ad abbandonare l’interpretazione letterale della narrazione biblica ma non può certamente rinunciare al principio della creazione”. Il problema della compatibilità dello intenzionalismo divino con il preterintenzionalismo evoluzionista, viene affrontato in modi diversi, dal disegno intelligente (che almeno nella versione più ingenua viene scartato) , all’eclettismo di Civiltà Cattolica, all’affidarsi alla sola fides. “L’approccio teologico che appare più compatibile con una concezione coerente e rigorosa dell’evoluzione è quello del ritiro di Dio”, di un Dio , come ha scritto uno studioso, Franceschelli, “che per amore decide di creare contraendo la propria presenza e la propria potenza, fino a concedere alla sua stessa creatura,a garanzia della sua libertà, un’autonomia evolutiva segnata persino dalla pura casualità”. Peraltro Rusconi rileva che questa posizione del ritiro di Dio, “per quanto intellettualmente suggestiva, appare incomprensibile ai milioni di credenti che vivono la loro fede proprio sull’assunto opposto di un Dio che si cura personalmente delle sue creature. Se si cancella l’idea di Dio direttamente interessato agli uomini, le religioni stesse, così come sono state intese fino ad oggi, perdono di senso”.

 

In ogni caso, non vi è dubbio che oggi il punto di maggior contrasto è la genetica.  ” Le bioscienze sono intrusive. Non si può conoscere il bios ( termine che Rusconi usa nel senso di realtà fisica dinamica priva di alcuno status ontologico-metafisico) senza entrarvi dentro. Ma se collochiamo la sperimentazione scientifica sui materiali biologici nella prospettiva evolutiva, lungi dall’apparire una indebita irruzione nell’ordine naturale si configura come un passo avanti compiuto dall’uomo-natura nella direzione dell’utilizzo delle sue stesse chances evolutive. Questo tipo di operazioni certamente non intaccano la natura umana… nondimeno sollevano il quesito morale se non possano in qualche modo ledere la dignità dell’uomo”. Eppure vi sono molti che rifiutano nel modo più intransigente ogni forma di intervento sul processo riproduttivo e parlano di embrione-persona. Rusconi esamina in dettaglio le tre strategie attivate dai sostenitori di questa tesi. E conclude che o perché essi affermano lo statuto ontologico dell’embrione o perché vedono nell’embrione una dimensione irriducibile alla mera materialità e decifrabile soltanto con il codice religioso, comunque essi arrivano all’affermazione perentoria dell’embrione come persona in atto o in fieri. Ma per potersi staccare dall’ontologia e dalla teologia, osserva Rusconi, non è necessario spingersi a sposare la tesi dell’embrione come mero mucchietto di cellule . Per affrontare la dimensione originale presente nello sviluppo formativo che porta all’uomo-persona, il laico “si affida all’etica” e percorre “lo spazio interpretativo e normativo che usa in modo fermo e prudente il dato scientifico”.

 

Rusconi riporta, come posizione coraggiosa e ragionevole, le tesi del documento alla base della legislazione inglese sulla fertilizzazione umana riassunte dalla autorevole scienziata Warnock: ” Ci sono buone ragioni scientifiche per distinguere tra un embrione prima del quattordicesimo giorno, quando ci si può difficilmente riferire ad esso come ad un individuo umano, e un embrione dopo questo stadio. Sulla base di tali differenze di sviluppo fu deciso di accordare status diversi: un embrione umano può essere mantenuto in vita in laboratorio ed essere utilizzato per la ricerca fino al quattordicesimo giorno dall’avvenuta fecondazione. Tenere in vita un embrione più a lungo sarebbe diventato reato penale, passibile di carcerazione fino a dieci anni”. Del resto, la dignità umana, argomenta Rusconi, è “per sua natura graduata, graduabile e vulnerabile” e proprio per questo “ha diritto ad una misura di garanzia, non determinabile in assoluto ma in relazione al contesto di civiltà in cui è riconosciuta”. “La dignità non è posseduta come una qualità metafisica o teo-biologica ma soltanto in forma di riconoscimento reciproco….Sono le persone al plurale che, nel confronto di argomenti nello spazio pubblico, si assumono la responsabilità della misura di tutela della dignità anche di chi (come l’embrione) persona propriamente non è”.

 

Nel settimo ed ultimo capitolo del saggio, Rusconi si sofferma in modo specifico sulle tesi di Joseph Ratzinger. E attraverso un esame puntuale, a partire dal discorso all’Università di Regensburg nel settembre 2006 e poi dall’antecedente colloquio assai citato con Habermas, mostra che nella visione di Ratzinger “il vero avversario delle religioni rimane in Occidente”. Nel senso che l’incontro tra la fede biblica e la filosofia greca, cioè l’ellenizzazione del cristianesimo, è per lui il fulcro dell’identità cristiana. E questo porta sì alla contrapposizione tra cristianesimo ed islam basata sull’incompatibilità teologica ( da una parte il Dio-logos , ragione e razionalità e dall’altra il non-razionale, il Dio-arbitrio dell’Islam). Ma gli attacchi alla sintesi fede-ragione, cioè i tentativi di dis-ellenizzazione, sono venuti e vengono dall’Occidente. Prima “la Riforma, che mira a liberare la fede da ogni soffocante involucro metafisico” arrivando a “collocare la fede esclusivamente nell’ambito della ragion pratica impedendole l’accesso alla totalità del reale”. Poi “la teologia liberale , che riduce il messaggio cristiano alle sue componenti umane etiche”, di fatto con “l’autolimitazione della ragione alle operazioni delle scienze matematiche e naturali”. Infine “l’esegesi storica, che considera la Chiesa e la sua dogmatica fissata nei grandi concili  come prodotto legato al suo tempo e di scarso valore al di fuori di quel contesto storico”.

 

Viceversa Ratzinger intende privilegiare “l’ortodossia della fedeltà alle decisioni di fondo della Chiesa antica che non devono essere messe in discussione” e insieme “il trascendimento dell’orizzonte ristretto imposto dalle metodologie scientifiche del moderno”. In un’ottica neoplatonica egli ha scritto che “la scienza deve accettare semplicemente come un dato di fatto la struttura razionale della materia come pure la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura….La natura stessa è razionale. Questa idea di natura viene meno con la vittoria della teoria dell’evoluzione”. Rusconi annota che per Ratzinger “la ragione umana non è affidata alla filosofia o alle scienze umane, bensì alle religioni al cui centro c’è la creazione…..Questa posizione è lontanissima dal pensiero laico/secolare di Habermas, per il quale principio democratico e diritti dell’uomo sono co-essenziali e co-originari”. Tuttavia, in tema di biotecnologie, Habermas “traducendo l’idea della sacralità dell’uomo come creatura a garanzia della intangibilità della vita, nel codice secolarizzato della indisponibilità etica della dotazione biologica naturale dell’uomo, si avvicina di fatto ad alcune posizioni della Chiesa… E’ la tesi della scienza come tecnicizzazione della vita umana”. E Rusconi commenta : ” questa constatazione rafforza il convincimento dello scrivente che nella ricostruzione dei parametri della laicità in una società post-secolare, ciò che è decisivo è l’atteggiamento verso la scienza”.

 

Nella conclusione, l’autore riassume sinteticamente quanto esposto, ribadendo in particolare che l’inaggirabilità del pluralismo delle visioni del mondo e della vita è il fondamento del processo di deliberazione politica. “L’etica pubblica è la disponibilità a definire insieme le regole della convivenza partendo dal presupposto che la pluralità delle visioni della vita, delle concezioni del bene o della natura umana non è una disgrazia pubblica cui ci si deve rassegnare ma l’essenza del pluralismo…. Il laico accetta una certa dissimetria tra moralità privata ed etica pubblica…Il credente avanza la richiesta che la sua verità sia riconosciuta come momento costitutivo della sua stessa identità di cittadino, sotto pena di sottrarre al sistema politico la sua lealtà. Agendo in questo modo, il credente risponde ad una logica identitaria di tipo comunitarista, di riconoscimento cioè dei diritti di una comunità che si muove ai limiti della democrazia”. E aggiunge Rusconi: “La situazione diventa ancor più complessa quando – come nel caso italiano – una minoranza religiosa rivendica di rappresentare su determinati temi la posizione della maggioranza morale che autorizza a determinare l’etica pubblica”. Concludendo poi che il compito del laico è duplice: ribadire che le deliberazioni pubbliche non devono limitare l’autonomia di giudizio dei dissenzienti e confutare con argomenti solidi (che ci sono in abbondanza) l’idea dei religiosi secondo cui la laicità sarebbe solo una procedura priva di contenuti sostantivi per la vita pubblica.

 

Questo saggio “Non abusare di Dio” è del tutto esauriente sul piano del confronto concettuale con le posizioni della religione-di-chiesa. Tuttavia, volendo cercare il pelo nell’uovo, come dicevo all’inizio, ci si deve domandare se la laicità trovi davvero la sua principale ragion d’essere nel confrontarsi con la religione-di-chiesa. Il saggio pare propendere per il sì, innanzitutto per come è incentrato  sulla incombente presenza della religione-di-chiesa ma anche per altri particolari. A mio giudizio la risposta deve essere negativa. La radice profonda della laicità è altrove, nella sintonia con i ritmi vitali dell’individualità critica e dell’esperienza sperimentale. Del resto, lo stesso Rusconi sottolinea ripetutamente che il cuore dell’esser laici è l’autonomia di giudizio individuale, la ragionevolezza del confrontarsi con gli altri, il poter realizzare la libertà e precisa che tali caratteristiche costituiscono una base solida per cementare la convivenza.

 

Se però si riconosce questa radice, gli avversari divengono coloro che nel discorso pubblico vogliono comprimere l’uso della laicità. E i fronti di contrasto sono molteplici, culturali, economico sociali, politici, non solo religiosi. Cosicché attribuire alla religione rilievo di contrasto dominante, diviene un pericoloso slittamento (involontario)  verso la tesi della religione-di-chiesa, per cui sarebbero le credenze religiose il collante della convivenza. In più, restringendo la rappresentanza della religione alla gerarchia, irrobustisce  l’idea che l’identità della religione si condensi nel corpo sacerdotale, in quanto tale rappresentativo dei cittadini credenti senza averne avuto mandato. Ne consegue che, identificandosi come contraltare della religione-di-chiesa e peggio della gerarchia, i laici commettono ben tre errori. Si indeboliscono nella percezione pubblica del cittadino (che può scambiare questo atteggiamento per una minaccia alla sua sempre legittima scelta personale di credere),  sbagliano bersaglio (perché il reale avversario civile non è una chiesa che predica la sua fede ma sono quei cittadini, specie con ruoli politici, che cercano il consenso al prezzo di rinunciare alla laicità delle istituzioni) e favoriscono gli avversari su una questione oggi delicatissima (perché, concentrandosi sul controbattere la religione, accettano il principio per cui il vero ed esclusivo scontro della modernità sarebbe l’accettare o meno Dio nella decisione pubblica, che è il marchio dei fondamentalismi).

 

Oltre che per evitare questi errori, le radici più ampie della laicità sono innegabili anche per altre ragioni. Nella situazione italiana, la carenza di laicità non è tanto nel quadro istituzionale, quanto nel modo di viverlo. La presenza nella Costituzione dell’art. 7  non ha offuscato “il principio supremo della laicità dello Stato”, che è  ad essa immanente ed è stato più volte ribadito dalla Corte Costituzionale. Però fornisce appigli a tortuose interpretazioni che ipocritamente distorcono quel principio supremo per conciliarlo con il suo contrario, cioè con la logica confessionale del cemento religioso. Rusconi ne attribuisce grande responsabilità alle alte istanze della Magistratura, Corte Costituzionale inclusa, perché, a differenza della omologa tedesca di Karlsruhe, non hanno saputo stabilire con nettezza il prevalere dei diritti individuali sui diritti identitari di una comunità.  Però sorvola sul punto che ciò avviene perché l’Italia è avvolta nelle ambiguità del Concordato. Che non a caso egli giustifica, criticando le parole di fuoco di Croce alla Assemblea Costituente ( che definì l’art. 7 “uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico”) e scrivendo che “l’art. 7 ha funzionato come bastione politico-costituzionale a una possibile drammatica collisione tra laici e cattolici nella giovane repubblica italiana” (ma per un laico l’antidoto alla collisione laici cattolici sta nella laicità istituzionale, non in un Trattato ). Così non coglie l’ambiguità profonda del Concordato ( che in apparenza riconosce lo stato laico ma in pratica, per il fatto stesso di essere stato stipulato, ne contesta il ruolo di garante e opera quotidianamente per scalzarlo) e neppure l’esito conseguente al suo inserimento costituzionale, indurre le istituzioni a focalizzarsi sul problema religioso. Questo è un giudizio che stride con le considerazioni di principio del saggio e che è un ulteriore indizio della propensione di Rusconi alla laicità come contrapposizione ragionevole alla religione-di-chiesa. Una propensione che, inintenzionalmente, spinge a trascurare il ruolo della laicità sui terreni della convivenza diversi da quello religioso, e dunque ad accettare in partenza il gioco avversario di comprimere la laicità. Il che riesce deleterio per  fronteggiare le forti pressioni ambiental-comunitarie a favore della religiosità quale cemento socio culturale della cittadinanza. Che è poi l’asimmetria italiana. Nella forma improntata al dialogo, nella sostanza foriera di esiti contrari alla laicità istituzionale.

 

Insomma, il saggio di Rusconi è un solido testo per la contrapposizione ragionevole alla religione-di-chiesa, eppure non è un manifesto politico generale della laicità, nonostante presenti numerosi spunti in questa direzione (per tutti “è nello spazio pubblico che acquista pieno senso la laicità”). Non lo è per scelta, non per inadeguatezza. Nel saggio è scritto che la laicità non è più una visione del mondo (“la laicità si riconosce in grandi criteri generali senza dedurli o connetterli necessariamente in una compatta e completa filosofia della vita”). L’autore si interroga se sia davvero necessaria una filosofia laica sistematica e specifica di non accettare la metafisica né esplicita né camuffata ma di “tener seriamente in conto il senso e il valore delle domande metafisiche ingenue avanzate dal senso comune e presenti anche nel linguaggio colto”.  Sono questi intenti ad impedire che il saggio sia un manifesto politico generale della laicità. Non riconoscono che l’essenza profonda della laicità consiste nel non essere una compatta e completa filosofia della vita (cioè tale da consentire previsioni accurate e quindi prescrivere comportamenti) appunto perché è un approccio metodologico che, per seguire il tempo e i ritmi del vivere, si fonda sui conflitti individuali secondo regole e su specifiche caratteristiche critiche e sperimentali. Ciò pare non bastare a Rusconi, che pure delle caratteristiche indica diversi aspetti. Da qui il messaggio politico del saggio, che l’approccio metodologico laico si interroga naturalmente sulle domande metafisiche. Viceversa, il messaggio politico qualificante è che l’approccio metodologico laico è una filosofia di vita aperta la quale, a livello di convivenza pluralista, non si pone il problema di rispondere alle domande metafisiche (perché, travalicando i limiti dell’autonomia umana, non possono avere risposte verificabili). Si pone il problema di trovare norme più efficaci nella città terrena valorizzando conoscenza, conflitti regolati e responsabilità critica individuale (che sono il presupposto del convivere).

 

A dare tale messaggio politico laico, Rusconi non pare voler arrivare. Pur sapendo bene che il laico non opera perché la fede religiosa si estingua, come pretendeva il positivismo. Pur non confondendo mai nel discorso pubblico mentalità laica e mentalità religiosa. Pur condividendo l’obiettivo laico di non far divenire la fede una fonte legislativa e un criterio di privilegi o discriminazioni. Non arriva perché , come  traspare dal saggio, per realizzare questo obiettivo sceglie di concentrarsi sul confronto (anche deciso) con la religione-di-chiesa. Quasi ritenesse la laicità una prospettiva corretta ma con capacità attrattiva verso i cittadini inadeguata rispetto a quella religiosa e quindi bisognosa di essere contemperata con le esigenze della religione (Concordato). Questo confronto dovrebbe portare ad un equilibrio per due circostanze: da un lato i risultati della secolarizzazione sarebbero ormai irreversibili e dall’altro la sola richiesta della Chiesa sarebbe indicare le basi della convivenza civile in sintonia con il Dio creatore. Rispettando il “non abusare di Dio”, potrebbe forse esservi un equilibrio. Tuttavia, guardando i fatti, le circostanze sono diverse. La secolarizzazione non è affatto irreversibile e può essere travolta dall’ossessione religiosa, se non mantiene sul collo il fiato della laicità; e la richiesta di sintonia  della convivenza con il Dio creatore, non è cosa da poco perché, reintroducendo il criterio dell’identità religiosa unica, confligge con l’autonomia critica individuale.

 

In altre parole, Rusconi pare ritenere che un obiettivo politico (cioè che la fede non sia fonte di leggi né di privilegi né di discriminazioni) venga raggiunto meglio non affrontandolo per tale ( con l’utilizzo del messaggio laico generale) ma limitandosi a discutere sul piano culturale il rapporto tra creazione e scienza per convincere un soggetto religioso (la Chiesa) a “non abusare di Dio” nell’esercizio del suo magistero. A me pare che sorgano alcuni inconvenienti non lievi. Questa scelta lascia intrecciate questioni politiche e questioni religiose. Già questo la colloca sul versante logico della religione-di-chiesa (che vuole la religione compenetrata nella politica e in Italia predominante nello spazio pubblico) più che della separazione laico liberale. Poi, accettando una Chiesa come intermediario con i cittadini, mette in secondo piano la più forte caratteristica della laicità, che è la forza propulsiva del senso critico individuale e dei confronti interpersonali (pur segnalati dallo stesso Rusconi). Ancora, dimentica che gli ostacoli al promuovere le attitudini critiche individuali vengono non dagli ammonimenti religiosi predicati da una Chiesa (anche se quella cattolica viola il Concordato vigente), bensì dai cittadini e dai partiti che ripropongono norme e stili modulati sulla religione o su criteri soffocanti l’autonomia individuale (vedi la recente richiesta di legiferare “velut si Christus daretur“, che è puro clericalismo civile). E snatura il compito del cittadino laico, che non è davvero interloquire con la Chiesa per dirle come deve essere (questo è affare neppure dei credenti ma del modo d’essere comunitario della religione-di-chiesa, alieno rispetto alla democrazia).

 

Per raggiungere quell’obiettivo laico su cosa la fede non deve essere nella convivenza (non è il faro di verità per tutti), il saggio è come se fosse preoccupato che lo spirito critico del cittadino possa poco contro l’emozione religiosa e che sia preferibile tenerne conto ed ottenere il possibile convincendo la gerarchia. Invece esperienza, conoscenza e ricerca mostrano la necessità di affidarsi all’interrelazione tra cittadini più che al convincere la gerarchia dello spessore etico della laicità. E’ molto più probabile – e comunque più rapido – raggiungere quell’obiettivo insistendo apertamente sul contenuto sostantivo della laicità, che è sviluppare l’esercizio di ciascuno del proprio senso critico nel privato, nel pubblico e rispettando le differenti identità altrui. Imboccando la strada del messaggio politico della laicità quale filosofia della convivenza aperta ed operatore politico, non solo si risolvono gli inconvenienti ma acquista  piena coerenza il richiamo al dibattito pubblico e alla laicità come dimensione pubblica, più volte ripetuto nel saggio. Diviene il richiamo ad un imprescindibile strumento del continuo esercizio critico individuale, senza limiti quanto agli argomenti toccati e senza abiure conclusive. Per cui, quando il discorso pubblico verte sulle regole di fondo della convivenza, deve essere chiaro che la scelta è solo tra le proposte che, applicate, mantengono  il rispetto della laicità e del pluralismo. Altrimenti il ritorno della religiosità dall’esilio pubblico si trasforma in occasione per una sorta di licenza a lasciare solo la libertà di riconoscere un’unica verità, religiosa o d’altro genere non cambia. Sul principio dell’autonomia critica individuale, la ricerca di mediazioni equivale alla disponibilità a regredire.

 

 

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