Livorno, ribelle nelle emozioni, spirito risorgimentale altalenante

Conferenza da remoto   di Martedì’ 18 Maggio 2021 nel ciclo di conferenze “Livorno ribelle o risorgimentale?” organizzzato dal Comitato Livornese per la Promozione dei Valori Risorgimentali.

Nel primo ciclo di confronti organizzato all’Arena Astra a settembre dal Comitato Valori Risorgimentali, ho fatto un discorso con lo  stesso titolo di oggi. E in sintesi  ho sostenuto che lo sviluppo di Livorno è stato per secoli frutto delle importanti iniziative prese da altri (pisani, francesi, genovesi , soprattutto i fiorentini e i Medici seguiti poi dai Lorena)  che hanno costruito il porto, le strutture viarie connesse, le opere di sistemazione del  territorio circostante anche nel retroterra, nonché  dato all’intera zona dei privilegi funzionali al porto. I Livornesi si sono sempre limitati ad esercitare le proprie attività commerciali, convivendo con profitto ma comportandosi quali nazioni distinte, ciascuna legata al proprio modo d’essere e norme, senza una capacità e uno sforzo adeguati al mescolarsi più a fondo.

Questa impronta è rimasta impressa nella città. Non si può negare. Ed è una costante che fa di Livorno  un’espressione geografica di corporazioni diversificate dedite a rivendicare i propri privilegi senza porsi prospettive civili di largo respiro. L’attitudine  rivendicativa ha questa origine. E’ più declamatoria che propositiva, non troppo tollerante, poco attenta al diffondersi della cultura dei diritti, anche quando, nel secondo ‘700, l’alta cultura era di casa nelle tipografie livornesi qualitativamente di assoluto rilievo europeo. A Livorno la rivendicazione ha messo sempre in scena la protesta contro i detentori del potere e delle risorse. Con l’idea che la protesta fosse pagante e bastasse a realizzare un cambiamento.    Pertanto ha preso sempre più piede l’idea di Livorno città ribelle. Ma ribelle nel senso dell’esibirsi nello sceneggiare un tale atteggiamento più che nel compiere atti di trasformazione. A Livorno, l’importanza dell’esser ribelle consiste nel suscitare l’emozione con l’atto di protesta.

Sono convinto che va rivisto alla radice questo marchio di fabbrica, esibito dai livornesi perfino con vanto. Dall’epoca della celebratissima difesa di Livorno  nel 1849 fino ai giorni nostri, si è potuto constatare in 172 anni di svariati episodi – anche di quelli in sé coraggiosi e di nobili finalità – che gli effetti pratici indotti da ciascuno di questi episodi nella realtà della società livornese  e toscana, sono stati sempre quanto meno assai ridotti, se non irrilevanti.

Ciò mentre tutto intorno – come è avvenuto all’epoca del Risorgimento, e un secolo dopo all’epoca del secondo dopoguerra – si moltiplicava una convivenza  dedita crescentemente a mutare alla svelta i rapporti umani materiali e concettuali, e, in forza delle conoscenze acquisite così, ad avanzare di continuo su terreni nuovi e più efficaci nel vivere. Con un simile percorso, in questi 172 anni ha finito per  cristallizzarsi la specificità di Livorno come città dell’orgoglio acritico del proprio passato e della sicumera sul proprio futuro. Città che si autoinventa la capacità di essere stata all’origine di grandi avvenimenti nei decenni successivi, intestardendosi nel ritenerli frutto degli episodi verificatisi a Livorno.

Ma la prova della storia da un responso univoco, che è assai negativo. Perciò  Livorno deve rivedere questa propensione mentale al pensare la protesta emotiva quale  fulcro di ogni azione pubblica, nell’invasata convinzione che il futuro  già scritto sia l’utopia del dover essere di un bene comune che arriverà di certo.

Tuttavia non mi pare che di ciò vi sia abbastanza consapevolezza. Di recente qualche segnale c’è, ma nel complesso timido e solo  come manifestazione di alcuni. A settembre all’Arena Astra conclusi il discorso rilevando che ribolliva l’intenzione di celebrare il centenario della nascita del PCI, il 21 gennaio 1921, con la scissione dal PSI al Goldoni. Allora osservai che non si ricordano i fallimenti. Bene, da allora – a partire, due mesi dopo, dalla celebrazione in Comune del primo Sindaco socialista Mondolfi e poi il 15 gennaio dalla celebrazione  organizzata dal Circolo Modigliani e dal Circolo Einaudi con tre relatori nazionali di quel XVII Congresso PSI , che, pur massimalista, non perse mai il legame concreto con la vita libera della democrazia – vi sono stati sintomi confortevoli di un risveglio delle coscienze. Questo risveglio ha contribuito a ridurre il ribollire dell’estate ad un borbottio senza slancio e infine  la celebrazione dei 100 anni della nascita del PCI si è rattrappita in una buffa disputa sulle fiorere in Via Ricasoli verniciate di rosso e con falce e martello per segnalare una mostra all’aperto di fronte al Goldoni. Questa disputa è minimale. Ma fa intendere che i nostalgici del sogno sono ancora vitali. E ancora continuano a diffondere  a Livorno il culto emotivo di quello che si sperava di fare, un culto usato per rimuovere quello che davvero si è fatto e che non ha superato la prova della storia.

Infine l’ultima settimana di gennaio un altro Convegno realista, organizzato dai Circoli Rosselli di Firenze e di  nuovo dal Modigliani, ha scelto il titolo “la scissione  senza futuro”. Tutti questi  sono risvegli positivi che non rimuovono però l’attaccamento mistico al sogno emotivo, che  continua a circolare come se nulla fosse. Chi sogna così, non pensa mai al come  costruire una società aperta funzionante di cittadini diversi. Si entusiasma solo per il mito del dover essere, del destino sicuro per tutti.  Di certo , anche un siffatto modo di sentire è un aspetto dell’umanità, tuttavia non dell’umanità con una mentalità giovane che evolve osservando e sperimentando quello che avviene.

L’incaglio del carattere dei livornesi sta qui. Troppo spesso agiscono nella convinzione di essere tuttora quella gente di porto che viveva di salvataggi dei natanti in grave difficoltà al largo di Livorno. In pratica, vivevano sulle disgrazie altrui.  Svolgendo peraltro un servizio in cui rischiavano la propria vita. Comunque, un ruolo fondato sul giocare di rimessa, cercando di risolvere al momento difficoltà di particolari eventi, e non tanto cercando di trovare il modo di prevenirle quelle difficoltà e di costruire qualcosa di organico. Che migliora il convivere

Al passar dei decenni, il mutare della navigazione in mare, ha evitato che quei problemi drammatici fossero ricorrenti, e quindi i livornesi non hanno più rischiata la loro vita nei salvataggi. Però hanno conservato l’abitudine  di restare in porto ad attendere quello che fanno gli altri  con l’attracco, nonché a lucrare sui diritti di approdo e su quelli di movimentazione delle merci tra navi e banchine.

Ancora una volta, i livornesi hanno continuato ad usare il privilegio del gestire il porto ma lo hanno fatto con l’atteggiamento passivo di chi lascia agli altri l’inventarsi e l’organizzare i traffici attraverso il porto e l’economia reale che  sostiene quei traffici. Tale atteggiamento passivo nella gestione portuale collima con il mito del dover esser, statico e unito al mito della predestinazione. E’ lontano anni luce dalla mentalità di una persona che evolve osservando e sperimentando quello che avviene, nell’ottica di assumere iniziative.

A distanza di secoli, emerge nettamente  che la spinta alla crescita di Livorno furono a fine ‘500 le norme delle leggi livornine e le quasi contemporanee franchigie del porto franco, che erano concepite non per i sudditi del Granducato ma per i forestieri. I quali erano attratti a Livorno  con le libertà di traffico e soprattutto di merci (le vere protagoniste emblematiche), e insieme di arte e commercio, di residenza e di culto; e poi di regimi favorevoli di dogana e di imposte, della cancellazione dei debiti e delle condanne penali.

Di questo clima dinamico del porto franco, Livorno ha goduto per un lunghissimo periodo , ma in termini di rendita senza utilizzarlo per elaborare un parallelo sforzo di maturazione civile aperta.  Nella prima metà dell’800 la spinta del porto franco era già declinante, e comunque nel 1865 , estesosi il Regno d’Italia, Livorno  perse anch’essa le franchigie doganali e con esse lo status di porto franco.

La già evidente ritrosia a crescere come corpo civile davvero autonomo trovò ancora conferma nell’incapacità di reagire alla sparizione del Porto franco, che non fu compensata dal  prestigio del conferimento dell’Accademia Navale, un simbolo importante sì ma, dal punto di vista economico, un motore piccolo piccolo. La narrazione pubblica di Livorno, anche a quell’epoca, non uscì dalla concezione emotiva che  il futuro sia già scritto nell’utopia del dover essere di un bene comune destinato a trionfare. E quindi fu incapace di  cercare altre vie, a parte l’agitarsi ribellistico – che in sostanza è al di fuori dello spirito risorgimentale –   per costruire un futuro reale al posto del sognare l’utopia e del praticare l’immobilismo conservatore. Livorno continuò a restare prigioniera di tale concezione senza slancio, in vari modi per i decenni successivi.

Una simile altalenante difformità dallo spirito del Risorgimento,  si è ripetuta ancora quasi un secolo dopo, quando Livorno non seppe cogliere il senso profondo della  lotta di liberazione dal nazifascismo, che, in maniera analoga al primo Risorgimento, aveva mobilitato una moltitudine di singoli, portatori di valori diversi, che seppero convergere sull’obiettivo di risollevare la nazione.

Anche nel primo quindicennio del secondo dopoguerra, Livorno , rispetto alla realtà di tante città italiane, non seppe uscire da quanto stabilito da parole d’ordine oniriche. Si bloccò sui riti celebrativi di un sogno enfatizzato oltre la realtà  – perché gli italiani  non furono tutti brava gente, come ci hanno mostrato i libri di Pansa, e perché magnificando la musica di Bella Ciao non si magnificavano i partigiani ma le  mondine di fine ‘800 – e semmai fu propenso a falsificare i fatti   pur di non smentire  un mito che, come tale, operava contro il ritmo dell’evolversi delle cose e dei rapporti della vita.

Ad esempio, accadde che dalla Biblioteca di Villa Fabbricotti sparì la collezione della Sentinella Fascista, che conteneva articoli degli anni ’30 molto compromettenti per noti personaggi cittadini passati, dopo il crollo del fascismo, sulla sponda opposta. Accadde che fossero messe da parte glorie livornesi. Come Marconi che, studente, effettuò a Livorno il primo esperimento elettromagnetico nel 1892 da cui mosse per il Nobel nel ‘909 e poi nel 1916 vi fece  esperimenti dai quali si arrivò al radar, il quale però fu troppo disponibile con il fascismo e troppo cosmopolita per riconoscersi labronico. Oppure come Mascagni, grande musicista mondiale però anche lui ossequioso al regime. Oppure come Emanuele Modigliani, socialista di fama internazionale per 50 anni ma reo di esser sempre stato avverso al comunismo e addirittura il Presidente del Partito di Saragat.

In questa atmosfera, non c’era spazio per una gestione aperta della cosa pubblica, che portasse ad una vita predisposta ai cambiamenti utili all’autonomia dei cittadini. Basta elencare accertati errori concreti. Negli anni ’50, l’essere una città di sinistra non evitò una sequela di assurde decisioni urbanistiche che riempirono con il cemento sia la più importante piazza del centro sia gran parte delle aree verdi costituenti le principali ville cittadine spazzate via insieme ai loro parchi nonostante la periferia  di Livorno, non distante, fosse ricca di spazi liberi. Insomma, una visione ristretta della città, pensata non per i cittadini ma per dissimulare gli affari.

Poi nell’anno ’60,  si chiuse il servizio del trenino in sede propria da Barriera Margherita a Tirrenia fino  a Pisa, una scelta molto molto miope, che da allora ha prodotto complicazioni rilevanti al traffico, specie estivo nell’intero territorio. Per di più era accompagnata dallo smantellare in tutta la città il servizio filoviario inclusa la rispettiva rete elettrica (nonostante che il servizio filoviario fosse molto adatto in  una città così pianeggiante e spaziosa) con un forte aumento dei costi di gestione delle linee e delle riparazioni dei danni al manto stradale delle fermate provocati dalle vibrazioni dei motori a scoppio. Il tutto per compiacere gli esclusivi interessi della Fiat che voleva  il trasporto pubblico mediante mezzi a motore (suo prodotto) e non elettrici o ferroviari.   Oggi tutti rimpiangono (in primis per ragioni di inquinamento) la mancanza del trenino soprattutto ma anche la mancanza della rete filoviaria.

Non può invece essere rimpianta (perché l’occasione è svanita una volta per tutte nella seconda metà degli anni ’60), la società per costruire un grosso porticciolo marina per imbarcazioni da diporto, all’epoca una forte novità per l’Italia, che venne costituita presso un notaio da Comune, Provincia, Camera di Commercio, Portuali, con tanto di nomine dei rispettivi rappresentanti nel Consiglio di Amministrazione. Quella società dovette essere sciolta dopo circa tre anni per l’opposizione di diversi altri ambienti cittadini, sindacati in testa,  secondo cui le barche turistiche esibivano un capitalismo intollerabile a Livorno. Come tutti sappiamo, nei tre decenni successivi i porti marina sono cresciuti in Italia come funghi. Un’altra occasione persa per Livorno.

La solfa è sempre la medesima. La cultura del livornese tipo interpreta alla rovescia il fatto che da secoli tutte le iniziative importanti per la città, vengono decise e promosse  altrove. Secondo l’interpretazione rovesciata, ciò accadrebbe, non per la lungimiranza e la capacità innovativa del decisore di turno, bensì perché Livorno attira gli aiuti che riceve in virtù del fatto che  li merita, siccome i livornesi rimangono i migliori e destinati ad esserlo sempre di più.

A parte che ragionare così è la stessa logica parassitaria di chi  si limita a sfruttare i bisogni altrui, il fatto è che nessuno (tanto meno i fatti) sa indicare dove stia questa bravura. La sola cosa davvero eccezionale di Livorno è il clima, che la rende un angolo di rarissima qualità. Ma i livornesi vogliono goderselo loro quest’angolo e non  arrivano neppure ad immaginare di utilizzarlo sviluppando, che so, il turismo più stanziale e davvero ecologico, imperniato su capoluogo e dintorni, in modo da rendere l’arte toscana un contorno di grandissimo livello, ma un contorno di completamento, alla bellezza meteorologica e culinaria di Livorno.

I livornesi stanno a bocca aperta come uccellini nel nido in attesa che un genitore dia loro il cibo. Si nutrono della bolla onirica di assunzioni mitiche – il sogno emotivo al posto dei fatti – per non mettersi  in gioco e misurarsi davvero nel mondo che evolve.  Intendiamoci non è che gli altri italiani non abbiano problemi. Basti pensare alla clamorosa decadenza negli anni recenti dei mezzi di comunicazione, che non sanno più raccontare la realtà e non di rado si inventano previsioni per fare spettacolo (il fenomeno dei social è stato agevolato da questo giornalismo dissennato). Solo che, fuori di Livorno, le carenze o i disagi sono circoscritti e temporanei.  E vengono anche corretti. La bolla onirica dei livornesi è lì da secoli.

A Livorno, il rifiuto della realtà consiste nel sognare di essere una categoria a sé (quella labronica) che conosce quale sia il progresso che l’avvenire, previsto dall’ideologia dell’epoca. E all’insegna di questo sogno, predica la necessità di essere uguali ed aborre la diversità, specie di sperimentare  quali individui.  Non si accorge che  nel mondo ogni cittadino ha le proprie capacità e caratteristiche. Che queste capacità e caratteristiche sono  l’effettivo motore della vita e che quindi sono ciò che soprattutto conta nel vivere per sé e con gli altri. Non conta la massa indistinta del gregge. I livornesi confondono la diversità con i litigi in banchina per sfruttare a proprio vantaggio quel po’ di privilegio che resta. Finendo per sprecare anche quello. Così a Livorno si trascurano i fatti e il conoscere la realtà e quindi non si curano i problemi, anzi se ne creano di nuovi. Continuando a diffondere il conformismo del tutto va bene e non si poteva far meglio.

Il livornese tipo non vuol convincersi che ciò che avviene prevale su ciò che ci piace e su ciò che affermano le ideologie o lo spirito religioso. Perciò, da metà ‘800 in poi, non compresero la poliedricità del risorgimento e non ne trassero lo spirito propulsivo, stabile e coerente. Ed oggi non hanno la capacità di stare al passo con la globalizzazione e con la rapidità dei rapporti tra individui, stati e luoghi. Un’attitudine molto pericolosa, questa, perché non stare al passo del mondo che cambia, mette nell’angolo e impedisce  il maturare e il crescere che non siano solo a parole.

Al riguardo è emblematico un fatto di queste settimane. Il 16 aprile scorso, il Presidente Draghi ha annunciato la nomina di 29 commissari per varie opere finanziate in tutta Italia, tra cui Luciano Guerrieri per la Darsena Europa a Livorno.  Bene, dopo un mese da questo avvenimento, non una parola, una, sui giornali e nel dibattito livornese. Pare non si capisca che la nomina di un Commissario costituisce una prospettiva concreta di sviluppo per il nostro porto,  e insieme cambia in città ogni tipo di rapporto, di procedure, di finanziamenti. Viene il dubbio che sia appunto questo cambiamento  pulitore di ragnatele, ad indurre il silenzio tombale su questa nomina. Con il rischio di compromettere una occasione storica.

L’esperienza non deve essere un ricordo nostalgico di un passato ormai svanito.  L’esperienza deve essere un apprendimento sulla base di ciò che funziona così da ripeterlo. Questo a Livorno non si vuol capire. Il richiamo ossessivo al passato è usato come previsione circa un futuro fatto di immobilismo delle classi sociali . E ciò equivale ad una visione religiosa fondata sul negare il valore costitutivo del confronto tra le diversità misurato in base ai risultati e sul preferire il sistema dell’unità e dell’uniformità, nonostante oggi, nella vita, venga quotidianamente smentito.

Non vale obiettare che l’immaginazione è importante. Perché lo è solo quando non prescinde dalla realtà e viene usata per  formulare una spiegazione di come funzionino i suoi meccanismi e per poterli assecondare  con utilità. Altrimenti, se l’immaginazione prescinde dalla realtà, imbocca la strada del sogno teorico e diviene sterile ai fini del governare politico. Come ad esempio capita all’Espresso di ieri l’altro, che  in copertina fa la provocazione del maschio incinto, gabellandola come una pensosa riflessione sui diritti personali, mentre al contrario confonde la realtà con quella che, di certo almeno per i prossimi 100 o 200 anni (e oltre), è pura elaborazione mentale – romanzesca e insieme pericolosissima per i diritti individuali – proprio in quanto prescinde dalla realtà del mondo così come è. Quella realtà imprescindibile per tutti noi umani e immodificabile almeno al nostro tempo.

All’Arena Astra a settembre usai queste parole: “la sinistra livornese, tutta protesa al drogarsi con la certezza emotiva dell’ineluttabile successo dell’avvenire di classe, celebra una narrazione  storica inesistente, visto che i fatti del mondo mostrano un andamento del tutto diverso”. Stando così le cose, io penso occorra valorizzare  quello che ha fatto capire  ovunque l’aver sperimentato per  lunghi decenni. Il vero filo della convivenza democratica  tra cittadini ciascuno differente, non è il ribellarsi alla situazione esistente dove ci si trova – nella speranza che la ribellione sciolga i nodi – bensì impegnarsi per contribuire a delineare un progetto civico di cambiamento, definito e trasparente, e  a costruirne l’attuazione, stando di continuo attenti, naturalmente, a verificare se i risultati ottenuti corrispondono alle attese.

Un augurio conclusivo. Che ritenere tutto ciò fattibile a Livorno, possa non essere un ulteriore sogno livornese.

Questa voce è stata pubblicata in DISCORSI, CONFERENZE, INTERVENTI e contrassegnata con , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.