COMITATO per L’ACQUA – Domande frequenti e risposte

Domande e risposte in materia del referendum pubblicate sul sito del Comitato www.gesidre.it

 

1) E’  vero che i quesiti uno e due riguardano la proprietà dell’acqua? No. Intanto riguardano solo la gestione dell’acqua e non la proprietà. Le norme discusse non obbligano alla privatizzazione, obbligano ad indire una gara per affidare il servizio, alla quale possono prendere parte anche imprese pubbliche con la concreta possibilità di vincerle. E poi abrogano un articolo che, oltre la gestione dell’acqua, regola la gestione dei trasporti locali ed altri servizi. Se il referendum fosse approvato, non ci sarebbero più né la procedura competitiva ad evidenza pubblica per affidare i servizi né i vincoli per gli affidamenti fatti in casa dai comuni ed enti locali vari. Questo significa che gli amministratori locali  non saranno più obbligati a fare gare per ridurre le gestioni sprecone dei servizi locali, e così potranno seguire più le logiche populistiche che non i criteri di sana gestione.

2) I quesiti uno e due dei referendum su acqua e servizi pongono problemi reali di partecipazione o puntano solo sull’emotività dei cittadini? Puntano solo sull’emotività, facendo credere che per risolvere i problemi dell’acqua sia necessario mettere in mano pubblica, oltre che la sua proprietà, anche la sua gestione. I due quesiti ingannano sui fatti e illudono sulla terapia. E’ un imbroglio sostenere che occorre far divenire l’acqua di proprietà pubblica, dato che l’acqua è già di proprietà pubblica e nessuna delle norme di cui si propone l’abrogazione toglie al pubblico la proprietà dell’acqua. Ed è un imbroglio far credere che la soluzione dei problemi dell’acqua sia riportare la gestione idrica sotto l’esclusiva pubblica, dato che l’efficacia della gestione – e in genere dei servizi – dipende dall’interesse nel farla bene e dal controllare come viene fatta.  L’esperienza dice che quando tutto è in mano a strutture monopolistiche, esse  non hanno né l’interesse a migliorarsi né quello ad esercitare i controlli su quel che fanno. Imbrogli del genere servono solo a riproporre come ricetta miracolosa la pubblicizzazione ideologica del servizio idrico, non a favorire il corretto funzionamento del sistema pubblico. Dunque, i due quesiti ridicolizzano la partecipazione reale depistando l’attenzione dei cittadini rispetto alle questioni reali.

3) E’ vero che i due quesiti spingono alla gestione pubblica dell’acqua ad uso civile mentre trascurano i programmi pubblici sul grosso delle risorse idriche? Sì, è proprio così. Per ragioni ideologiche i due quesiti vogliono attribuire al pubblico funzioni improprie e non si preoccupano che il  settore pubblico svolga bene quelle proprie. Infatti, quasi i nove decimi di un bacino idrico vengono usati dall’agricoltura e dall’industria, non dai privati cittadini. Invece non esistono procedure evidenti e comprensibili da tutti per affrontare la programmazione dei trasporti dell’acqua (acquedotti), del suo smaltimento (fognature), della sua depurazione. Di conseguenza non esistono neppure pubblici controlli attendibili sul complessivo uso di questa risorsa primaria. Su queste cose servirebbero davvero più accorte funzioni pubbliche, rapportate ai fatti e verificabili dai cittadini.

4) Se è bene non far passare i quesiti uno e due dei referendum, non sarebbe meglio non recarsi alle urne così da far mancare il quorum costituzionale? No. E’ vero che l’art.75 della Costituzione stabilisce un quorum per la validità dei referendum abrogativi e quindi riconosce pieno valore alla scelta di non votare in tale occasione. Nel caso dei due quesiti sull’acqua, però, non si tratta solo di respingere una iniziativa settoriale sbagliata per non farla andare avanti. Il problema dell’uso dell’acqua resta un problema reale anche se i due quesiti propongono soluzioni mistificatorie ed ideologiche. In questo caso, la cosa più importante è sradicare la tendenza ad agitare i problemi senza dare importanza alle situazioni che ne derivano. I cittadini devono rendersi sempre più conto che sollevare i problemi non basta se non si individuano anche le soluzioni efficaci. Dunque, cogliamo l’occasione dei due quesiti sull’acqua – la cui assurdità è manifesta – per chiamare i cittadini alla partecipazione responsabile sul come risolvere i problemi della vita quotidiana, che è compito molto importante. Andiamo a votare e votiamo due NO. Tra l’altro c’è un’ulteriore considerazione da tener presente. Negli ultimi anni, l’uso indiscriminato dello strumento referendario ha portato alla reazione di non votare per non farli passare e ciò sta colpendo mortalmente lo stesso istituto referendario, che invece conserva una sua validità per scelte tra soluzioni approfondite. Votare due NO è anche il modo più forte di partecipare ai problemi reali rifiutando di farsi ingannare dalle mistificazioni emotive degli attuali quesiti.

5) Siccome voi sostenete che le amministrazioni pubbliche dovrebbero esercitare i propri compiti di proprietarie dell’acqua, quali sarebbero questi compiti? E’ semplice. Da un lato l’amministrazione dovrebbe fare una gara per l’affidamento dei servizi sulla base di un contratto rigoroso che fissi chiare procedure per determinare le tariffe, che stabilisca criteri di manutenzione e di investimento nel tempo, che individui precisi livelli per il servizio da erogare. E dopo svolga un’opera continua e capillare per controllare che i termini di quel contratto vengano rispettati alla lettera, assicurando anche sistemi di rotazione nei controlli per evitare il loro affievolirsi, colposo o doloso. Per l’esistente, un’attività di questo genere dell’amministrazione è decisiva e mantiene i servizi saldamente in mano al pubblico, facendoli gestire in  nome e conto del pubblico alle condizioni che lui stabilisce. Dall’altro lato, peraltro, l’amministrazione ha anche il compito non meno importante di guardare avanti verso ciò che non esiste, preoccupandosi degli interventi strategici, che nel settore sono molto arretrati (gli esperti calcolano intorno ai 90 miliardi di euro le somme da investire nel prossimo decennio per affrontare il degrado dei sistemi di depurazione dei fiumi e dei laghi).  Inoltre le amministrazioni devono por mano a districare le sovrapposizioni esistenti tra gli enti preposti alla regolazione idrica, a rimuovere i diffusi conflitti di interessi nelle stesse file dei funzionari pubblici, a configurare realisticamente le procedure di revisione periodica dei contratti e la valutazione del costo del capitale impiegato, che è alla base di una seria programmazione degli investimenti incentivati dall’efficienza. Senza promuovere queste due tipologie di compiti, parlare del diritto all’acqua per tutti è demagogia. Invece di risolvere i problemi veri, li dilaziona.

6) Riassumendo,  secondo voi  il problema dell’acqua esiste ma i quesiti referendari 1 e 2 propongono abrogazioni che non incidono sul problema ed anzi lo peggiorano; in sostanza i due quesiti referendari sono ingannevoli, inutili e diseducativi ?

Sì. Al riguardo è molto istruttivo leggere quanto sul giornale online La Voce.info  hanno scritto  sui due quesiti i professori di economia politica Andrea Boitani (Università Cattolica di Milano) e Antonio Massarutto ( associato all’Università di Udine e direttore di ricerca presso l’Istituto energia e ambiente della Bocconi). Ecco qua:

L’importante è che sia chiaro a tutti per cosa si va a votare. La campagna referendaria ha profuso una grande quantità di inesattezze e forzature, che ormai hanno dato vita nella mente delle persone a un mostro virtuale.  Alla gente che va a votare si sta facendo credere che il voto è “contro la privatizzazione” e “contro l’ingiusto profitto”. Perfino la RAI, negli spot informativi, descrive la norma oggetto del primo quesito come quella che “consente l’affidamento della gestione a privati” (sic). Ci dispiace per chi in buona fede lo ha creduto e tuttora lo crede, ma purtroppo non è così.

Primo punto. Checché vi abbiano fatto credere, la norma oggetto del primo quesito non riguarda la privatizzazione dell’acqua (o del servizio idrico), bensì l’obbligo di gara. Se vincerà il no, non ci sarà nessun obbligo di privatizzazione, perché la legge non prevede quello. Se invece vincerà il sì, non ci sarà nessun divieto di coinvolgere privati, perché nella norma che riprenderebbe vita (la cui abrogazione parziale prevista dall’art. 23-bis verrebbe annullata) la gestione dei servizi a rilevanza economica può essere effettuata mediante società pubblica, concessione a privati o società mista, come infatti è stato finora.
L’unica cosa che cambierebbe veramente è che con la vecchia norma la scelta della gestione in house potrebbe avvenire in modo diretto e senza ulteriori spiegazioni (non solo per l’acqua, ma per tutti gli altri servizi locali). Con la nuova norma che si vuole abrogare, invece, il comune che desidera mantenere la gestione pubblica può farlo, (i) se riesce a dimostrare che la gara è inutile, meritandosi la deroga di cui al comma 3, oppure (ii) se l’azienda pubblica partecipa alla gara e la vince. Non esiste alcun obbligo di vendere il 40%: questa opzione serve solo se si vuole a mantenere l’affidamento esistente senza invocare la deroga, ma ci sono sempre le altre due strade, ugualmente possibili e legittime. Molte aziende si stanno organizzando per ottenere la deroga per il mantenimento dell’in house, e dati i criteri fissati molto generosamente dal DPR 168/2010, con ogni probabilità ci riusciranno.
Chi dunque sostiene che il referendum è “contro la privatizzazione”, evidentemente non conosce bene la norma che vorrebbe vedere abrogata. E chi, pur conoscendola molto bene, continua a raccontare favole solo perché – se la verità venisse detta fino in fondo – la gente non andrebbe a votare, fa solo disinformazione. Il decreto Ronchi non obbliga nessuno a privatizzare. Abolirlo, non impedisce a nessuno di privatizzare. Chi non ne fosse ancora convinto, è pregato di informarsi meglio.

Secondo punto. Acqua gestita dal pubblico non vuol dire acqua gratis, perché i costi qualcuno li deve pagare. Che sia la fiscalità o la tariffa, questo qualcuno sono sempre i cittadini. È incredibile come tanta gente sembri non capire una cosa così elementare. L’impatto distributivo di fiscalità e tariffe non è identico, ma non è affatto scontato che la fiscalità sia più progressiva (e quindi più egualitaria) della tariffa. Discutiamo semmai di come costruire le tariffe in modo da evitare impatti sociali troppo gravosi: si può fare, ci sono molti modi per farlo. Ma ai referendari preme invece convincere i cittadini che le tariffe sono elevate per colpa del profitto, e che si possano abolire senza aggravio per la fiscalità. Parlano di “fallimento del full cost recovery”: ma che fallimento sarebbe, visto che è praticato in tutto il mondo? E soprattutto dalle gestioni pubbliche che funzionano, dalla Scandinavia alla Germania, dall’Olanda agli Usa? Ma se poi gli si chiede come pensano di coprire quei costi cincischiano: li vogliono in fiscalità generale, ma senza aumentare le tasse.
E, nell’impossibile tentativo di far quadrare il cerchio (diritti per tutti, tariffe basse e niente nuove tasse), sono costretti a inventarsi o improbabili riduzioni di altri capitoli di spesa (i mitici cacciabombardieri, la solita riduzione dell’evasione fiscale); a sostenere cose impossibili, come il fatto che se si fanno investimenti per ridurre le perdite questo farà diminuire i costi, e permetterà di finanziare l’investimento con i risparmi, mentre qualunque tecnico sa che accadrà esattamente il contrario, ossia che per ridurre le perdite i costi devono aumentare; o a prospettare strumenti finanziari – patacca, come i bond irredimibili (un vero e proprio furto ai danni delle generazioni future, cui rimarranno i debiti da pagare ma non le reti, perché un bel giorno dovranno essere rifatte daccapo con tariffe più alte o nuovo debito).
La questione tuttavia è: ammesso che la fiscalità riesca a recuperare qualche margine di manovra, rinunciando al cacciabombardiere o catturando qualche evasore, per cosa è opportuno utilizzare in via prioritaria queste risorse? Per diminuire la pressione fiscale? Per gli ammortizzatori sociali, l’istruzione, il welfare, i beni culturali? Oppure per la bolletta dell’acqua? Perché usare il denaro pubblico per finanziare un obbligo di servizio universale che è già affermato e garantito (visto che l’acqua arriva già in tutte le case), e costa in media solo 90 euro all’anno pro capite (25 centesimi al giorno), ed è dunque già alla portata di (quasi) tutti? I cittadini devono sapere che acqua gratis non significa non pagare dazio, ma significa meno spesa pubblica in qualche altro capitolo. E’ legittimo scegliere più acqua a basso prezzo e meno welfare (noi non siamo d’accordo, ma sono ammesse opinioni diverse). Ma non è legittimo far credere che la scelta sia tra acqua gratis e acqua a pagamento.
Sembra che campagna referendaria stia riportando a galla una cultura tipica degli anni 70 e 80 del secolo scorso: quando tutti invocavano diritti, ma nessuno si preoccupava di come avremmo pagato i costi corrispondenti. Il risultato, allora, fu gran parte del debito pubblico che ancora abbiamo sulle spalle. Ci è servito per molti anni a pagare spesa corrente, dalle pensioni baby, a una sanità il cui costo sistematicamente sfondava i tetti previsti, a un settore pubblico usato come ammortizzatore sociale. Ora, non paghi di aver depredato le generazioni future con la finanza allegra di quel periodo, si imbrogliano le carte in modo da farci credere che questo ennesimo pasto gratis si auto-finanzi. I cittadini sappiano che, invece, i pasti gratis esistono solo nel paese dei balocchi. Su questo non sono ammesse “opinioni”, così come non ne sono ammesse sulla legge di gravità. L’aritmetica può essere assai sgradevole, ma non è un’opinione, purtroppo (o per fortuna).
Ci preme peraltro di ricordare che, tuttavia, se il secondo referendum dovesse passare, verrebbe abolito l’inciso “adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, ma non il principio del “full cost recovery”, ribadito nello stesso comma dello stesso articolo, giusto una riga dopo.
La tariffa, con o senza referendum, continua a dover coprire il costo del servizio, ossia il costo della gestione, l’ammortamento e il costo del capitale investito. Se la finanza pubblica vorrà mettere a disposizione circuiti agevolati, o al limite anche a fondo perduto, potrà eventualmente farlo (nessuno glielo impedisce: basta votare una legge finanziaria che lo preveda), ma finché non lo farà, il gestore i soldi li deve chiedere al mercato (ossia alle banche, agli investitori). E quel costo andrà pagato.

Terzo punto. L’acqua costa meno se la gestisce il pubblico? Qui si confonde il costo (ossia gli stipendi, i materiali, gli impianti, l’energia, gli interessi sui debiti) con la tariffa. Se le tariffe non coprono i costi, le aziende falliscono. Se le gestioni sono vincolate a recuperare i costi con le tariffe, una diminuzione di queste può aversi solo se i costi diminuiscono, ossia se la gestione diventa più efficiente (usa meno personale, acquista meno servizi o tecnologie meno costose), oppure se non si fanno gli investimenti. In un settore in cui la concorrenza non c’è e anche le gare funzionano male, la presunzione di superiorità del privato da questo punto di vista è spesso contraddetta dai fatti, ma se è per questo ciò non significa neppure il contrario. Vent’anni di studi empirici concludono sostanzialmente in pareggio, e mostrano che l’efficienza aumenta dove il sistema di regolazione funziona meglio (si può fare, senza dimenticare che anche la regolazione indipendente incontra limiti non è certamente una bacchetta magica). Niente osanna alla mano invisibile, dunque: ma neppure ostracismi a prescindere. Se molti lettori avessero la bontà di non partire in quarta citando esperienze note solo in via aneddotica e si volessero confrontare seriamente con la montagna di studi che la ricerca ha profuso in questi anni, scoprirebbero che le cose non sono così ovvie come la vulgata tende a far credere.
Ribadiamo che la norma (e il referendum) non intervengono su una tabula rasa, e che non è certo questo voto il modo per prendere posizione sulla questione. I piani d’ambito sono già approvati, la dinamica tariffaria già prevista (in base alle norme vigenti, uguali per tutti, che il referendum non abroga), le regole per definire revisioni dei piani sono già stabilite. Un’eventuale gara da lì dovrebbe partire; se l’offerta fosse uguale o peggiore rispetto a quella dell’affidamento già in essere, il comune avrebbe tutte le ragioni per mantenere l’affidamento in essere. Dunque le tariffe non possono aumentare oltre a quanto già previsto, ma semmai diminuire, o aumentare di meno“.

 

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