Evangelizzare il paese non è far dibattere il paese sulla convivenza

Scritto per la rivista NON CREDO  n.20

 

Troppo spesso le due cose vengono assimilate. Invece nell’ottica laica sono strutturalmente differenti. La prima tocca le fedi di ciascuno, la seconda il convivere civile di individui diversi.

Un’occasione per riflettere sulla differenza è stata l’incontro del Papa con l’Assemblea episcopale, a fine maggio, quando ha indetto l’Anno della fede cristiana (dal 11 ottobre) per evangelizzare di nuovo l’Italia. Proprio nello spirito di Non Credo, tale riflessione non riguarda  la sostanza religiosa in sé ma la differente natura dell’evangelizzazione e del dibattere politico. Infatti, non credere è una scelta personale che non può mai essere impositiva, pena contraddirsi. E dunque la cosa di maggior significato è che il non credere, essendo una convinzione estranea allo spirito religioso, non si mette a confutare le credenze altrui se non quando divengono invasive verso i terzi. Perciò è naturale che l’attenzione si appunti non sulla religione bensì sul merito del dibattito civile, che riguarda ogni cittadino che convive, credente o non credente che sia.

La tesi di Benedetto XVI è invece un giudizio religioso: “Dio è divenuto il grande sconosciuto e Gesù un grande personaggio del passato”. Giudizio seguito dalla riaffermazione, di nuovo di tipo religioso, che il Concilio ha consentito alla Chiesa di “offrire una risposta significativa alle grandi trasformazioni sociali e culturali del nostro tempo”. Di tipo religioso è anche il ripetere la sfiducia per la razionalità scientifica e per la tecnica imputate di voler  “delineare il perimetro delle certezze di ragione unicamente con il criterio empirico delle proprie conquiste”. Ed è di tipo religioso il rallegrarsi del crescere della “domanda di spiritualità e di soprannaturale, segno di un’inquietudine che alberga nel cuore dell’uomo che non si apre all’orizzonte trascendente di Dio”.

Tutte queste affermazioni non escono dalla testimonianza di fede e intendono aggiustare i fatti alle esigenze della fede. Anzi, il Papa ha aggiunto che “tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza e riducono il Regno di Dio» solo ad alcuni grandi valori”.  E ha ricordato le parole di Wojtyla, secondo cui l’annuncio cristiano “è innanzi tutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazareth, immagine del Dio invisibile”. In sostanza, l’annuncio è una tipica concezione religiosa che non accetta altro fondamento che sé stessa. Tanto che vuole pervadere ogni cosa della convivenza e quindi insiste nel denunciare che la “crisi che ferisce l’Europa è crisi spirituale e morale” dovuta al fatto che “il discorso su Dio lo si vuole ridotto a un fatto intimo e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica”.

Al di là dei contenuti di fede – che vanno rispettati come qualunque convinzione – appare evidente la strutturale distanza operativa di tali dichiarazioni dal criterio di spingere il cittadino al dibattito sui problemi della convivenza. L’evangelizzazione vuole basarsi sul far riconoscere la fede e sul seguire le interpretazioni che ne da la Chiesa. Il pubblico dibattere si fonda sul conoscere il più possibile il reale attraverso l’esercizio critico individuale e il confronto delle idee sulla scorta dei fatti sperimentali. Tale distanza corrisponde alla differenza su cosa significhi conoscere nei due casi. In quello dell’evangelizzazione, conoscere vuol dire rifarsi alle istruzioni della fede ed applicarle; in quello del dibattere, conoscere vuol dire aumentare nel tempo la comprensione empirica di come è fatto e funziona il mondo reale e i rapporti tra i conviventi fondati sul conflitto democratico.

Ne consegue che nel caso evangelizzazione non sussiste la medesima libertà di scelta di ogni cittadino che c’è nel caso del dibattere. E siccome questo dato è riconosciuto apertamente dalla gerarchia (“la religione è testimonianza mentre la democrazia è rappresentanza”), la vera questione civile non è prendersela con chi ha personalmente fede ma con chi furbescamente (interessi di potere conformistico) vorrebbe applicare la fede nella convivenza per modellare le regole del convivere (che non sono questioni religiose, e quindi ben diverse dalla marginalizzazione di Dio nella coscienza pubblica). Applicare la fede nelle regole della convivenza equivale a limitare la sovranità del cittadino. E dunque i laici debbono impegnarsi molto nel dibattito pubblico sui problemi della convivenza, per riequilibrarlo ed evitare che rispetto a questi problemi emerga il criterio di scelta religioso. Al nocciolo, dal punto di vista civile, l’Italia ha bisogno di dibattito politico, non di religiosità. Perché in Italia, per fortuna, non si assaltano i luoghi di culto.

 

 

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