Scritto per le rivista NON CREDO
Nel giugno 1996, sul Sole 24 ore, apparve il Manifesto di Bioetica Laica redatto da quattro professori, Flamigni, Massarenti, Mori, Petroni, ognuno laico aggettivato, sinistra tradizionale, moderato, ateo, conservatore. Culturalmente fece clamore l’intento di individuare comportamenti efficaci per evitare dispute rispetto allo svolgersi della nuova rivoluzione scientifica, che tanto può “influire sulle vite dei singoli e sulla società nel suo insieme”.
Per il Manifesto, i principi laici per il progresso della conoscenza nella genetica sono tre. L’inesistenza di autorità superiori che fissino dall’esterno quel che è lecito conoscere; concepire l’uomo come parte della natura e non come opposto alla natura; ritenere il progresso della conoscenza la fonte principale del progresso dell’umanità per ridurre la sofferenza umana. Quando si applica la conoscenza, il confine tra quel che è e non è naturale dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini, razionalmente giustificati in base a come riescono a guidare l’azione umana a beneficio di tutti. Perché le intuizioni e le regole morali sono in perenne evoluzione. Il progresso in quanto tale non è automatico, garantito o inarrestabile, ma dipende da un processo in cui svolgono un ruolo determinante l’analisi concettuale e la ragion critica.
Tali principi laici implicano un diritto prioritario di informazione e di scelta per chi è toccato dai progressi biomedici. E poi il rispetto delle convinzioni religiose dei singoli, senza però dimenticare che la fede religiosa non consente prescrizioni e soluzioni precise in campo bioetico. La terapia medica deve garantire agli individui una qualità della vita più alta possibile piuttosto che pensare alla mera durata della vita. E dunque occorrono cure mediche del massimo standard relativamente alla società e alle risorse disponibili. Tutto ciò significa separare la sfera morale dalla fede religiosa e tenere distinti morale e diritto, siccome i principi morali, diversamente dalle leggi, si fondano sull’adesione individuale volontaria.
Per il Manifesto la legislazione biomedica deve dare a ogni ricercatore e a ogni medico la più ampia sfera di decisioni autonome compatibile con l’interesse della collettività. E favorire codici di comportamento emergenti dal confronto dentro la comunità scientifica e tra la comunità scientifica e l’opinione pubblica. Insomma, la libertà di ricerca deve coniugarsi con un forte sentimento di responsabilità dei ricercatori e dei medici verso la società. Soltanto un sentimento di responsabilità diffuso può garantire che la libertà di ricerca non subisca interferenze ingiustificate.
Il Manifesto smosse le acque del conformismo. Però non è stato l’inizio di una stagione più laica. Nei 15 anni successivi sono dilagati i cattolici chiusi (li definisco così ne Lo Sguardo Lungo). Come mai? Alla cultura laica mancò la progettualità e agli altri premeva solo il potere. Ma il perché era già nel Manifesto. L’essere insensibile ai rapporti tra libertà e norme di legge. Vi era scritto “la differenza essenziale tra i principi morali e norme giuridiche è che i primi danno maggiore spazio alla libertà che non le seconde”. Solo che nella convivenza l’interagire delle diverse autonomie sviluppa sì la libertà individuale, ma è messo in moto dall’esistenza della legge che questa libertà tutela e promuove.
Il Manifesto di Bioetica Laica fu un manuale di laicità che della laicità omise il metodo per realizzarla. Temette di portare alle dispute invece di evitarle. Sostenne la disputa scientifica (habitat naturale del ricercatore responsabile) ma non il conflitto democratico dei cittadini nella politica di idee. Dunque non indicò la condizione cardine, quella laicità senza aggettivi delle istituzioni che include i diversi. Cioè omise la separazione Stato religioni, la sola cornice legislativa che svincola davvero la sovrana libertà individuale dalle pressioni fatte dai cattolici chiusi sfruttando l’autorità concordataria.